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22/07/2016

Contributo ad una biografia di Licio Gelli

Gelli è un personaggio unico nella storia dell’Italia repubblicana e senza di lui la P2, probabilmente, non sarebbe esistita. C’è chi ne ha parlato come di un nuovo Cagliostro e chi lo ha avvicinato a Giuseppe Cambareri, un’inquietante meteora nella stagione fra monarchia e Repubblica che, effettivamente, presenta allarmanti punti di contatti con il Nostro . La cronaca giornalistica è spesso (e inevitabilmente) un grande appiattitore e banalizzatore e questo ha riguardato anche Gelli, rappresentato con l’immagine un po’ caricaturale dell’eterno intrigante, del faccendiere-spia e golpista che, però, alla fine, è stato sempre sconfitto.

Ma, decisamente, la qualifica di faccendiere va stretta al personaggio che, per quanto si possa averne giudizio negativo, ha avuto un innegabile ruolo storico in paesi come l’Italia e l’Argentina e dunque non solo di un faccendiere si tratta ma di qualcosa di ben più “pesante”.

Stupisce la sua capacità di convincere e quasi plagiare interlocutori autorevolissimi, nonostante l’evidente modestia della sua formazione culturale, meravigliano la sua straordinaria capacità di auto accreditamento, l’ampiezza del suo campo d’azione internazionale, la velocità della sua carriera massonica.

Ma, più di tutto, stupisce come abbia potuto salire così in alto da origini, che tutto sommato, non avevano nulla di speciale: il padre, Ettore, era un agiato possidente terriero, dunque borghesia di campagna toscana. Un’ estrazione sociale certo assai distante dalle classi dirigenti e dalla quale non sono emersi particolari astri della politica, della finanza o della cultura. A sottrarre il giovane Licio al un destino di un qualsiasi giovanotto di provincia fu la guerra di Spagna. Lui ed il fratello maggiore, Raffaello, si arruolarono nel corpo di spedizione fascista che andava a soccorrere i falangisti e Raffaello morì in combattimento. Al suo ritorno in patria venne ricevuto dal Duce, insieme a un gruppo di familiari di caduti nella spedizione e, alla domanda del dittatore che gli chiedeva cosa desiderasse come compenso per la perdita del fratello e per la sua partecipazione al conflitto, risposte “un posto dove poter essere ancora utile al Partito”. Risposta che piacque a Mussolini che apprezzò l’intraprendenza e l’ambizione del giovane . Licio fu prima funzionario del partito a Pistoia, quindi Ispettore dei fasci di combattimento all’estero.

Poco dopo, durante la guerra, gli si presentò una nuova occasione che colse con prontezza ancora maggiore. Durante l’invasione della Jugoslavia, gli Italiani si erano impossessati del tesoro della banca di Stato; una considerevole massa di lingotti d’oro che, però, faceva gola anche ai tedeschi.

Il comandante del corpo italiano, Mario Roatta, fece uscire sulla stampa la notizia che l’oro jugoslavo, al pari di quello greco, era stato involato dagli inglesi e portato nella banca egiziana, riuscendo ad ingannare momentaneamente i tedeschi; ma, ovviamente, l’oro non sarebbe stato al sicuro sinché non fosse giunto nei forzieri della Banca d’Italia. Tuttavia, varcare i confini, strettamente sorvegliati dai tedeschi, era cosa assi poco semplice e qui entra in scena Gelli che, al momento rivestiva un incarico di partito a Cattaro, in Montenegro, ed al quale venne affidato il compito di portare quell’oro in Italia. Gelli ebbe una trovata che funzionò: nascose i lingotti sotto le traversine di legno di un vagone su cui erano caricati soldati colpiti da malattie infettive e mise davanti alla locomotiva la regolamentare bandiera gialla . Al posto di confine tedeschi, comandati, secondo Pier Carpi da un giovane sottufficiale austriaco di nome Kurt Waldheim (futuro Presidente della Repubblica austriaca e poi segretario Generale dell’Onu) non ebbero animo di controllare un treno carico di ammalati infettivi e l’oro giunse a Trieste. Per di più, abusando del fatto che l’ufficiale non conosceva l’Italiano, ma doveva rilasciare una dichiarazione sull’ispezione sommariamente compiuta, Gelli ed i suoi riuscirono a fargli firmare due lasciapassare con i quali arrivarono a Trieste.

Dopo, nel percorso successivo, non si sa bene perché, circa un terzo dei lingotti, andarono dispersi e, secondo alcuni Gelli ne sapeva qualcosa. Si trattava di diverse tonnellate d’oro e se anche Gelli fosse riuscito a trafugare per sé una parte di esse, questo spiegherebbe quale sia stata la sua prima base di potere. Ma non ci sono mai state prove che sia andata così.

L’8 settembre si schierò con la Rsi diventando federale di Pisoia, ma capì prontamente che la guerra era persa ed occorreva pensare al dopo, per cui iniziò a collaborare con i partigiani facendo uno spregiudicato doppio gioco. Di questo lo accusò nel 1981, pur con tono bonario, Giorgio Pisanò del battaglione Np della X Mas che operava nella zona di Pistoia . Comunque stiano le cose, il doppio gioco fruttò a Gelli un attestato di aver collaborato con i partigiani firmato dal Presidente del Cln pistoiese Italo Carrobi, comunista che valse ad attenuarne la prigionia, scontata solo per brevissimo tempo, e poi ad inserirlo nella vita sociale dell’Italia repubblicana.

Prima di proseguire, notiamo come già in queste vicende giovanili, Gelli abbia dimostrato alcune sue doti come l’intraprendenza, l’attivismo, la rapidità nel cogliere le occasioni di promozione sociale, le capacità organizzative e, soprattutto, l’assoluta mancanza di scrupoli. A questo proposito si pone un problema, che ci servirà a capire il seguito: ma Gelli era fascista?

Lui, sino ai suoi ultimi giorni, si dichiarò sempre fascista, nonostante non abbia mai smentito la sua collaborazione con partigiani e servizi alleati. Tecnicamente, non c’è dubbio che fosse un traditore. In epoca repubblicana, come diremo, collaborò disinvoltamente con esponenti democristiani, liberali, socialdemocratici, repubblicani e persino socialisti, che trovarono accoglienza nella sua Loggia. Ma ovviamente anche con diversi missini come Giulio Caradonna e Mario Tedeschi, non disdegnando neanche frequentazioni con gli ambienti della destra giovanile extraparlamentare (si pensi a Valerio Fioravanti). Fu in rapporti molto stretti con i generali argentini che dirigevano una bestiale dittatura di destra, ma non si fece mancare neppure contatti con la Romania comunista. Insomma, uomo con relazioni a 360°.

Ed allora, chi era il Gelli che mentiva: quello che ostentava una fede fascista o quello che opererà perfettamente a suo agio nel retrobottega dell’Italia democristiana? L’uomo legato agli ambienti della destra repubblicana Usa o quello che trafficava con gli uomini di Ceausescu?

A tirare la linee troppo dritte si rischia di non capire un personaggio sicuramente ambiguo e complesso come Gelli. Il punto è questo: il fascismo subì una sconfitta totale, quella che i giuristi chiamano “per debellatio” che non lasciava speranza alcuna di rivincita.

La probabilità di restaurazione di un regime fascista in Europa era pari a zero: in paesi marginali potevano esserci regimi castrensi di destra (come in Grecia o America Latina), o sopravvivenze (come quelle iberiche) ma non regimi propriamente fascisti destinati a durare. Questa sconfitta totale e definitiva pose il problema ai sopravvissuti di come continuare a far politica nel nuovo quadro storico. Una parte minoritaria dette luogo a nicchie ambientali di resistenza, dove coltivare il culto della memoria, nella speranza di un ritorno, mentre la maggior parte decise di integrarsi nei partiti esistenti: quelli che passarono al Pci o (meno) al Psi furono decine di migliaia, ma molti di più aderirono alla Dc. Questi, nella maggior parte dei casi abbandonarono del tutto (o in gran parte) la propria identità fascista, aderendo pienamente, o quasi, alle ideologie di riferimento dei partiti in cui entrarono. Una piccola parte coltivò disegni entristi, pensando di realizzare un regime autoritario a vocazione sociale (questo riguardò in particolare chi aveva scelto il Pci). Ma i più numerosi, scelsero i partiti di centro in nome dell’anticomunismo e, pur restando legati in cuor loro alla memoria del passato regime, si accontentarono di partecipare al gioco, cercando di far passare il più possibile della propria cultura politica. Il Msi, in qualche modo, raccoglieva entrambe le anime: la base – a suo modo illusa e generosa – continuò a sperare in una nuova marcia su Roma, che avrebbe riportato al potere il fascismo, mentre il vertice era perfettamente consapevole dell’impossibilità di questo ritorno e, pur blandendo le nostalgie della base (non mancarono mai saluti romani ed Inni a Roma), cercò in tutti modi di inserirsi nel gioco parlamentare, anche solo in ruoli subalterni. Da Michelini ad Almirante, da De Marsanich a Pisanò, da Romualdi a De Marzio, da Fini allo stesso Rauti, cercarono tutti – e ciascuno a suo modo – di adattarsi all’ambiente, non nutrendo alcuna illusione su una restaurazione. In fondo fu Almirante ad inventare lo slogan: “Non rinnegare, non restaurare”. D’altra parte, i sistemi politici tendono ad assorbire nella propria logica anche le opposizioni antisistema, esercitando una sorta di attrazione gravitazionale.

Gelli in cuor suo era certamente fascista e, fosse dipeso da lui, non sarebbero mancati stivali e fez, ma non reputando realistica questa speranza, puntò ad entrare nel gioco per condizionarlo, come vedremo, attraverso la massoneria. Magari si riprometteva ulteriori sviluppi in direzione di un ordinamento più ortodossamente “stivalato”, ma, prendendo realisticamente atto che l’orbace non andava più di moda, fondò un ditta di impeccabili gessati avendo per soci gli ex partigiani Lebole.

Peraltro, ad alimentare l’immagine di ambiguità del personaggio non mancarono altri aspetti, come il coinvolgimento in casi di sequestri di persona, fra il 1946 ed il 1947 e una sorprendente segnalazione, dei primissimi anni cinquanta, del servizio segreto militare (ma di cui si saprà molti anni dopo) per la quale era sorvegliato come “agente del Cominform” legato alla Romania. La vicenda non è affatto chiara, si sa poco del suo fondamento e non è affatto escluso che i documenti possano essere un falso prodotto molto dopo della loro data.

Ma dopo aver risposto al quesito sul se Gelli fosse fascista, dobbiamo porci una domanda correlata: che massone fu Gelli?

Per tutti gli anni quaranta e cinquanta, Gelli non mostrò alcun particolare interesse verso il mondo delle logge, anzi il suo unico impegno politico, per quel che se ne sa, fu quello di organizzatore delle campagne elettorali di Romolo Diecidue, per due legislature, deputato democristiano del collegio Firenze-Pistoia, e di cui non risulta una coeva affiliazione massonica. Poco dopo, Gelli stabilì (per il tramite di Diecidue) proficui rapporti con l’on. Giulio Andreotti, all’epoca sottosegretario di Stato al Ministero per l’Industria che presenziò all’inaugurazione dello stabilimento Permaflex diretto da Gelli, il 28 marzo 1963. Peraltro, con Andreotti, Gelli aveva anche un altro canale di comunicazione: Maria Luisa Muzi, che conosceva dal tempo in cui l’aveva incontrata alle corporazioni fasciste e di cui era restato amico che poi era fra le segretarie dello statista democristiano

La pur contrastata iniziazione massonica di Gelli avvenne quasi contemporaneamente ai primi rapporti con Andreotti, nel 1963.

Peraltro non sembra neppure che la famiglia abbia avuto frequentazioni massoniche o, quantomeno, questo non risulta da nessuna parte. Meno che mai si ha notizia di saggi o articoli di Gelli di cultura liberomuratoria. Gelli non era uomo da spendersi in tenzoni teoriche, ma assai più interessato alle questioni “pratiche”.

Si sa della scarsissima (diremmo nulla) attenzione dedicata agli aspetti rituali nella vita della P2, anzi non sono mancate frasi vagamente irrisorie del Venerabile che non riusciva ad immaginare i suoi importanti ospiti “tirarsi su la manica sinistra dei pantaloni e fare dei giri intorno al tavolo”. Forse aveva ragione lui a non prendere sul serio quel cerimoniale, ma nella Massoneria il simbolismo è parte integrante dell’esoterismo che ne impregna l’ambiente. Per quanto quella cultura ed i riti che ne derivano possano sembrare anacronistici, essi fondano l’identità di gruppo per cui, al di là di quanto quei simbolismi possano essere individualmente creduti e condivisi, la conoscenza di quel codice è condizione di riconoscimento reciproco dei “fratello”. L’adepto che se ne mostrasse troppo poco informato ed interessato sarebbe vissuto come un corpo estraneo (o, quantomeno, così era ancora negli anni sessanta e settanta). E, in effetti Gelli, che palesemente non ebbe mai alcun interesse verso queste pratiche o verso la stessa letteratura massonica, fu un corpo estraneo nell’ambiente che, alla fine, lo rigettò.

Certamente, in Italia, la Toscana è storicamente una delle regioni a massima densità massonica e, dunque, sicuramente Gelli ebbe rapporti personali con esponenti di Loggia anche ben prima di varcare la soglia della Loggia Romagnosi, ma va anche detto che, proprio per la pervasività delle logge nella società e nelle istituzioni di quella regione, non poche adesioni sono sempre state dettate più dalla convenienza offerta dalla “solidarietà dei fratelli” che da sincera adesione ideologica. Gelli apparteneva esattamente a questo segmento sociale della provincia toscana ed aveva già dato abbondanti prove di sufficiente spregiudicatezza per non porsi problemi di ordine ideologico.

Ad un certo punto della sua vita gli si prospettò l’occasione di entrare in una antica organizzazione che, per quanto decaduta e nella quale era rimasto bel poco degli antichi allori, gli avrebbe permesso di giovare la sua già consistente rete di rapporti ed accrescerla esponenzialmente soprattutto grazie ai contatti internazionali di cui il Grande Oriente era al centro, raggiungere le logge B. Franklin che raggruppavano gli ufficiali massoni di stanza nelle basi americane e Nato in Italia, utilizzare i residui dell’antico potere di penetrazione delle istituzioni del paese. C’è un elemento che dovrebbe far riflettere: per cultura e collocazione politica, Gelli era uomo di destra e per nulla interessato all’anticlericalismo di Palazzo Giustiniani e, semmai, la sua collocazione più congeniale sarebbe stata in quella di Piazza del Gesù o, più tardi, nella Loggia degli Alam (distaccatasi da Piazza del Gesù quando iniziò a prospettarsi la fusione con i giustinianei) con la quale ci sarebbero stati ancora maggiori punti di affinità.

In effetti Gelli non disdegnò rapporti con i fratelli di Piazza del Gesù (e poi Alam) ma, al momento del suo ingresso in Massoneria, scelse Palazzo Giustiniani. Come mai? Semplicemente perché quella confessione gli era più utile, per la maggiore irradiazione di contatti internazionali, per il maggior numero di seguaci, per l’immagine più forte. Ma perché i giustinianei accolsero un fratello così anomalo, che aveva militato nella Rsi, che aveva organizzato la campagna elettorale di un democristiano e che non mostrava grande interesse per la cultura massonica? In effetti il suo ingresso alla Romagnosi suscitò diverse perplessità ed, anche dopo, le sue proposte in materia di riorganizzazione interna destarono più di una perplessità nel Gran Maestro aggiunto Roberto Ascarelli . Peraltro, la carriera massonica di Gelli fu fulminante: in un sol giorno, 1° settembre 1966, ottenne i gradi di compagno e di maestro, dopo soli tre anni di apprendistato molto all’acqua di rose che lo aveva visto assai poco coinvolto . Ciò nonostante godette subito di grande autorevolezza:
Il 3 giugno 1967 Ascarelli riferì a Gamberini che Gelli insisteva per promuovere l’intesa fra il Grande Oriente d’Italia e l’obbedienza massonica incardinata su Aldo Sollazzo e lo invitò a prendere posizione esplicita a favore dello Stato di Israele... Il 2 settembre gli sottopose la minuta di una lettera da inviare a Walter Bruno, della segreteria del Presidente Saragat, che fa parte del gruppo che mi ha presentato Gelli.
La cosa più curiosa è che fosse l’ex salotino a perorare la causa di Israele presso Ascarelli che era ebreo e, in qualità di avvocato di parte civile aveva difeso la comunità ebraica romana, nel processo a Kappler, il boia delle Ardeatine. Evidentemente, il neo maestro rappresentava già un rapporto ancora più diretto con Telaviv di quanto non avrebbe potuto essere quello di Ascarelli.

Dunque un personaggio già molto inserito in ambienti di potere di alto livello. Come si è accennato, la Massoneria italiana, negli anni cinquanta era in forte decadenza: nell’Italia governata, per la prima volta, dai cattolici, non c’era grande spazio per “i figli della vedova” (come i massoni amano spesso definirsi) che ancora non si erano ripresi dalla repressione del periodo fascista. Gelli portava alla Massoneria il suo attivismo e la sua non comune capacità organizzativa, a cominciare dalla sua innegabile abilità nelle pubbliche relazioni (come dimostra il rapporto con uomini della segreteria della Presidenza della Repubblica). Gelli è stato soprattutto un grande Pr, la stessa P2 fu la costruzione organizzativa di una rete di relazioni, cosa di non poco conto in paese, come l’Italia, dove vige un modello di capitalismo di relazione e dove la struttura sociale è costruita da una rete di corporazioni e cordate regionali. Per questa ragione, Gelli attrasse l’attenzione del Gran maestro Giordano Gamberini, che ebbe grande influenza nel Goi anche dopo la fine del suo mandato maestrale e che ne fu sempre il nume tutelare. Poco dopo la sua iniziazione passò alla loggia Hod dove iniziò a fare opera di proselitismo reclutando personaggi di spicco. E questa fu l’immediata premessa del suo passaggio alla Loggia P2.

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