di Francesco Pongiluppi
Gli effetti del fallito
golpe ai danni di Recep Tayyip Erdoğan stanno muovendo il Paese verso
un’ulteriore polarizzazione della società, già sensibilmente segnata
dalle vicende – interne ed esterne – dell’ultimo quinquennio. L’attuale
ostentazione del potere dell’entourage politico di Erdoğan,
evidentemente scosso dalla paventata débâcle ma al contempo
sovraeccitato per l’affermazione dell’ordine costituito, evidenzia le
debolezze di un sistema socio-politico poco incline all’inclusione di
qualsivoglia alterità. Un aspetto non imputabile ai soli seguaci
politici dell’attuale Presidente della Repubblica.
Nonostante sia comune l’immagine di una società turca caratterizzata
da una irrisolvibile dicotomia tra difensori del laicismo e ferventi
religiosi, lo scontro di potere in atto denota al contrario come tale
visione sia non solo superata ma probabilmente erronea fin dal
principio.
La mera analisi secondo la quale l’inconciliabile convivenza tra un homo urbanus e un homo anatolicus sia
all’origine delle difficoltà di Ankara nel realizzare una democrazia
compiuta, è messa in discussione dalla provenienza socio-politica che
accomuna la nomenklatura oggi al potere in Turchia e i gulenisti.
Sono infatti entrambi soggetti provenienti da fenomeni politici
alternativi a quello promosso dall’esigua ma potente classe burocratica
concentrata nelle metropoli occidentali del Paese, i cosiddetti
“giacobini”o “turchi bianchi”.
L’antesignano politico della destra oggi al governo fu Adnan Menderes, il leader del Demokrat Parti che per primo diede voce e rappresentanza agli esclusi della rivoluzione kemalista
ovvero quell’universo proveniente dalla profonda Anatolia, di matrice
tradizionalista e dai principi conservatori. Menderes fu colui che vinse
le prime libere elezioni organizzate in Turchia nel lontano 1950. Il
suo fu un governo caratterizzato dalla riabilitazione dell’Islam sia
nella vita politica che negli spazi culturali del Paese. Altro fattore
determinante del suo programma fu l’adozione di una politica economica
liberista che generò nei primi anni una promettente seppur illusoria
crescita.
Tuttavia, dopo qualche anno, l’indirizzo del governo Menderes
finì nella repressione di ogni voce dissidente. L’ossessiva ricerca
del “nemico” sul quale addossare i problemi della dilagante
disuguaglianza sociale prese il sopravvento su quegli auspici
democratici e inclusivi con cui l’élite governativa aveva conquistato il
potere. Se dapprima la repressione colpì gli universitari, i
circoli liberali, gli ambienti marxisti, piano piano si passò
all’allontanamento di una parte dei dipendenti statali fino
all’esclusione dal mercato economico-finanziario nazionale di figure
appartenenti all’opposizione.
Durante il governo Menderes, tra il 6 e 7 settembre del 1955, in
risposta alla mendace notizia di un attentato alla casa natale di
Mustafa Kemal nella greca Salonicco, migliaia di cittadini si
riversarono nelle strade di Istanbul e di altre città della Turchia per
attaccare fisicamente la comunità greco-ortodossa e i loro beni, allora
parte significante del sistema socio-economico nazionale. Aver
fatto ricadere sull’esercito le responsabilità dei pogrom fu
probabilmente una delle scintille che portarono il 27 maggio 1960 un
gruppo di ufficiali delle Forze Armate Turche a rovesciare il potere
attraverso un golpe, il primo di una serie che – come
l’attualità di questi giorni testimonia – evidenziava allora come oggi
l’acerbità di una cultura politica democratica.
Menderes moriva impiccato il 17 settembre del 1961. Pagò con la vita
una concezione distorta della democrazia e soprattutto l’incapacità di
eliminare dal lessico politico turco il disprezzo verso l’alterità. I
decenni che separano quella giornata di settembre da oggi sono stati
segnati dalla medesima inadeguatezza o incapacità dei governanti di
indirizzare la società verso una cultura civica capace di rispettare e
proteggere la dignità dell’avversario politico di turno. Al
contrario, l’assenza di una riconciliazione nazionale e il mancato
superamento di una logica costantemente indirizzata a disumanizzare il
“nemico” sono stati alla base dell’instabilità politica che fino al 2002
– ovvero l’anno del primo governo Akp, il partito fondato da Erdoğan –
ha segnato l’esistenza della Repubblica di Turchia.
La stagione politica inaugurata dall’attuale formazione governativa,
sebbene nei primi anni al potere avesse palesato timidi segnali di
rottura con il passato – dalla distensione dei rapporti con i paesi
della regione fino ad un’apertura verso le minoranze interne – non ha
saputo col tempo dar seguito all’edificazione di un paradigma nazionale
che potesse rompere definitivamente una distorta concezione del potere. Un’opinione
pubblica, quella turca, incapace purtroppo di difendere “Caino” dagli
abusi e troppo spesso silente verso la vittima sacrificale del momento.
Gli stessi “gulenisti”, oggi repressi e condannati dal governo in
quanto espressione del “terrore”, negli anni in cui hanno partecipato
alla vita politica in veste di corrente del partito al potere hanno
chiuso gli occhi di fronte alla spettacolarizzazione della repressione
del “nemico” di turno.
La Cemaat, letteralmente “comunità” – come in
lingua turca vengono apostrofati i “gulenisti” – ieri spina dorsale del
governo e oggi sua spina nel fianco, nasce e si forma come protagonista
della repressione anticomunista che caratterizzò la Turchia nella fase
socio-politica sfociata nel golpe militare del 1980. Attore di primo piano nelle repubbliche turcofone dell’Asia Centrale nel periodo post-sovietico, la cemaat è una galassia di associazioni, scuole, media e fondazioni, colonna portante di quel soft-power
portato avanti in politica estera dallo stesso Erdoğan nel primo
decennio di governo. Il silenzio-assenso di fronte all’ondata repressiva
che colpiva la società civile curda e il partito Dtp all’indomani delle
elezioni locali di marzo 2009, denota l’irresponsabilità o meglio la
corresponsabilità di questo attore – oggi definito “cane” dagli uomini
del Presidente – nell’aver mantenuto quella stessa cultura politica di
cui oggi è vittima.
Le immagini che circolano in rete sul trattamento riservato ai
golpisti e presunti tali, le preoccupanti dichiarazioni di importanti
autorità religiose e civili sulla punizione da riservare ai colpevoli e
infine, la piena libertà concessa ai piccoli ma rumorosi gruppi
estremisti nazional-islamisti,tendono a confermare quanto la storia di
questo Paese abbia già tristemente dimostrato in passato. L’attuale
clima politico e le immagini intenzionalmente diffuse sulla violenta
coercizione in corso palesano l’incapacità governativa di affermarsi in
quanto veicolo di cultura democratica. Oggi più che mai è necessaria una
forte presa di posizione della società civile turca per una seria e
responsabile riconciliazione nazionale che abbia come principale
pilastro il rispetto della dignità dell’uomo, “Caino” compreso.
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