Mentre il mondo è colpito da attentati terroristici di matrice jihadista, una scomoda verità è emersa nei confronti dell’Arabia Saudita, uno dei principali sponsor della galassia jihadista globale.
Il rapporto di 28 pagine del Congresso relativo agli attentati dell’11 Settembre 2001, secretato per 15 anni, è stato finalmente pubblicato in questi giorni. Come già riportato da questo giornale, il rapporto giunge ad un’unica e chiara conclusione: l’Arabia Saudita ebbe un ruolo di primo piano negli attentati suicidi alle torri gemelle.
Secondo il quotidiano New York Post “le argomentazione della CIA del 2002 non lasciano alcun dubbio in merito ai rapporti tra i pirati dell’aria sia con l’ambasciata dell’Arabia Saudita a Washington sia con il suo consolato di Los Angeles. Le prove relative ad un sostegno logistico e finanziario da parte di funzionari sauditi sono inconfutabili.”
Il rapporto riprende, infatti, i solidi legami tra la petromonarchia saudita ed Al Qaeda. Lo stesso New York Times afferma che in base alle rivelazioni del rapporto “i documenti confermano gli sforzi sauditi di bloccare tutti i tentativi di lotta americana contro Al Qaeda nel periodo pre-11 settembre”. Vengono, inoltre, evidenziati i legami tra esponenti della monarchia dei Saud e alcuni degli attentatori presenti in territorio americano, oltre a documenti relativi a fondi della famiglia reale nei confronti di persone legate al network jihadista. Secondo Paul Sperry, giornalista del New York Post, le indagini post 11 settembre nei confronti dell’Arabia Saudita hanno tardato ad essere avviate “in ragione della posizione saudita in quanto alleata strategica degli Stati Uniti in Medio Oriente” come confermato diverse volte nelle 28 pagine del dossier.
Il rapporto cita nel dettaglio le diverse responsabilità in capo sia al principe Turki bin Faisal, all’epoca capo dell’intelligence di Riad, sia al principe Bandar bin Sultan, ambasciatore saudita a Washington e frequentatore assiduo della Casa Bianca. Vengono menzionati i rapporti tra Omar al Bayoumi, diplomatico saudita e responsabile della moschea della California, ed i suoi contatti con Khalid Al Amdar e Nawaf Al Hazmi. Entrambi gli attentatori, infatti, dopo il loro arrivo a San Diego, dormirono in casa di Bayoumi. Altri autori dell’attentato ebbero numerosi contatti con Cheikh Fahad Thumairi, impiegato al consolato saudita di Los Angeles, che incontrò diverse volte lo stesso al Bayoumi. Cosa ancora più grave, ripresa dalle indagini del rapporto, è la notizia che un funzionario dell’ambasciata saudita dormì nello stesso albergo di Al Hazmi e degli altri autori del dirottamento dell’aereo contro il Pentagono, la notte prima degli attentati.
Altra notizia altrettanto inquietante è legata al caso di Salah Hussein, altro diplomatico saudita, interrogato e accusato dagli agenti del FBI di “mentire sui suoi contatti con le cellule e con gli autori dell’attacco” che quando fu cercato per essere interrogato nuovamente “aveva già abbandonato il paese con altri sospettati su richiesta dell’ambasciatore Bandar Bin Sultan e con l’approvazione della Casa Bianca”. Sempre sull’ambasciatore saudita, in base ad altri rapporti della CIA, sono stati riscontrati numerosi contatti con esponenti di Al Qaeda confermati con l’arresto di un suo quadro, Abu Zubaydah, in Pakistan nel 2002.
Ugualmente ricche e numerose sono le prove relative ai finanziamenti di provenienza saudita verso esponenti della cellula qaedista negli Stati Uniti. Sotto forma di sovvenzione i soldi transitavano principalmente dalle Moschee Fahd e Taymiyya in California o dal centro islamico di San Diego per finanziare le attività dei dirottatori. Viene citato, ad esempio, un esponente del centro islamico che aiutò al Hazmi e Al Hamdar per l’iscrizione alle scuole di volo e che si adoperò per assumerli come traduttori presso il centro.
Nonostante l’imbarazzo iniziale, principalmente da parte di quella classe politica repubblicana vicina all’establishment del vecchio presidente George W. Bush, alcuni esponenti del partito hanno dichiarato che “la pubblicazione del rapporto non mette in evidenza alcun legame tra Riad ed i terroristi”. Le stesse lobby filo-saudite hanno da subito, come evidenziato dal giornale “The Intercept”, tentato di far ricadere la responsabilità degli attacchi verso l’Iran (accuse assolutamente immaginarie visto che dei 19 attentatori: 15 erano sauditi, 2 degli emirati, uno egiziano ed uno libanese, tutti di fede sunnita). Secondo il giornale, infatti, i media pro-sauditi cercano di accusare l’Iran nel tentativo di manipolare l’opinione pubblica utilizzando, in maniera diametralmente opposta, le notizie del rapporto. Il giornale americano cita, ad esempio, Frances M. Fragos Townsend, consigliera alla sicurezza all’epoca di Bush che, sull’emittente Focus Washington (finanziata casualmente dai sauditi) ha dichiarato che “i dubbi sull’implicazione della monarchia saudita negli attentati dell’11 Settembre sono ormai scomparsi”.
Sembrano, invece, più sensate le dichiarazioni di un ex dirigente del FBI, John Gandolo, che dopo la pubblicazione del rapporto ha affermato sul Washington Times che “l’Arabia Saudita è la nazione che ha finanziato e finanzia maggiormente il movimento jihadista globale (Al Qaeda prima e Daesh dopo, ndr) e dopo quello che è avvenuto (11 Settembre) il Dipartimento di Stato Americano dovrebbe qualificare la monarchia saudita come principale nemico degli Stati Uniti”. Sagge parole che, però, rimarranno tali per gli interessi geopolitici dell’amministrazioni statunitense nella regione mediorientale.
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