“Il loro è un tradimento, pagheranno un prezzo molto alto” aveva promesso un Erdogan in fuga dai militari golpisti, a bordo di un aereo che tentava di trovare un approdo sicuro in un’Europa poco solidale, riportando alla mente quanto accadeva, paradossalmente, al leader curdo Ocalan alla fine degli anni ’90, prima di essere consegnato dall’allora governo italiano di centrosinistra ai suoi aguzzini turchi.
Dopo la sconfitta dei reparti golpisti dell’esercito, le minacce si sono tramutate in realtà: quasi 3000 militari arrestati, ufficiali e altri alti comandi dell’esercito destituiti, teste che cadono una dietro l’altra.
D’altronde, lo stesso Erdogan questa notte, appena atterrato ad Istanbul una volta chiaro che il putsch era ormai fallito, nel corso dell’improvvisata conferenza stampa aveva affermato che “questo colpo di stato, questo tentativo è un gran regalo di Dio per noi. Perché l’esercito ora verrà ripulito”.
In realtà Erdogan negli ultimi dieci anni l’esercito lo ha ‘ripulito’, e come. Maxiprocessi, purghe, destituzioni, pensionamenti forzati hanno epurato migliaia tra generali, ufficiali e soldati considerati fedeli alle fazioni laiciste dell’esercito, oppure a quello ‘stato parallelo’ guidato dall’imam/tycoon Fethullah Gulen che da padrino di Erdogan si è trasformato nel suo più acerrimo rivale e che ora il regime islamista accusa di essere l’ispiratore di quello che il Sultano ha definito ‘attentato’ alla Turchia.
Alla fine degli anni ’90 il rampante Erdogan non solo sopravvisse politicamente al golpe incruento dell’esercito – al quale bastò minacciare i carri armati nelle strade per obbligare il premier islamista moderato Necmettin Erbakan, vincitore delle elezioni col suo ‘Partito della Prosperità’, a dimettersi – ma ne approfittò per porre le basi per la sua trionfante ascesa al potere. L’ex sindaco di Istanbul, poi primo ministro e ora presidente della repubblica, ha sempre avuto chiaro che per rimanere in sella e preservare il suo potere doveva disinnescare le forze armate. Cooptandone e comprandone letteralmente una parte con la concessione di consistenti privilegi e prebende, ed epurando al contempo un numero enorme di ufficiali accusati di tradimento (spesso non senza ragione) per poterli sostituire con nuovi comandanti a lui fedeli.
Chi sono i golpisti?
Il capillare e profondo repulisti deve aver funzionato alla grande se ieri il golpe è fallito in neanche tre ore dopo l’uscita allo scoperto del cosiddetto ‘Comitato della Pace”. Il tentato golpe di ieri è stato in buona parte un’azione azzardata e male orchestrata realizzata da un numero consistente ma non maggioritario di ufficiali intermedi, colonnelli e tenenti. Pochissimi i generali ammutinati, poche migliaia i soldati che hanno aderito allo sfortunato golpe per convinzione oppure perché trascinati nell’iniziativa dai loro comandanti. Davvero una piccola – e insufficiente – porzione di quell’enorme macchina da guerra che è l’esercito turco, forte di più di 500 mila effettivi.
Secondo alcune fonti il ‘regista’ del golpe sarebbe Muharrem Kose, un ufficiale rimosso a marzo dallo staff dello Stato maggiore turco. Lasciato solo dalla maggior parte dei generali – che per le prime ore hanno comunque badato a non pronunciarsi esplicitamente contro il putsch prima di capire da che parte tirava il vento – e dalla Marina militare, i colonnelli non ce l’hanno fatta. Non sono riusciti a catturare o ad uccidere il Sultano e si sono trovati davanti non quei ‘milioni’ di turchi che l’Akp ha vantato stamattina esagerando la reazione popolare contro i golpisti, ma parecchie migliaia di persone che si sono schierate contro i carri armati, obbligando i militari il più delle volte a rinunciare, a retrocedere, ad arrendersi ai reparti lealisti, alla Polizia e ai servizi segreti.
A che fazione politica appartengono i golpisti? Non è ancora del tutto chiaro. Dal suo dorato esilio negli Stati Uniti il miliardario Gulen ha respinto ogni accusa ma è probabile che si sia trattato di pezzi gulenisti delle forze armate, insieme a ciò che rimane dell’un tempo potente establishment kemalista (nazionalista laicista), ad aver ordito il complotto forse per evitare ulteriori epurazioni. Non un solo partito – per opportunismo? per convinzione? – si è schierato ieri notte a favore del salvifico intervento della truppa, neanche i repubblicani del Chp che pure da sempre sono vicini agli ambienti kemalisti delle forze armate. E neanche il piccolo ma influente partito nazionalista Vatan.
E questo nonostante i proclami del ‘Comitato della Pace’ fossero improntati alla difesa dello stato di diritto e della democrazia, al rispetto delle alleanza internazionali violate dai sogni di gloria neo-ottomani di Erdogan, alla difesa del laicismo che l’Akp insidia con le sue subdole campagne di islamizzazione. Nel comunicato letto dopo la conquista degli studi della tv di stato TRT, i golpisti hanno affermato di esser stati costretti a intervenire perché Erdogan avrebbe violato l’ideologia laicista, lascito di quel processo di modernizzazione forzata imposto dal padre della patria, Kemal Ataturk, e fatto rispettare per parecchi decenni, a suon di golpe e repressione, dalle forze armate.
Perché ora?
Perché i golpisti, pur consapevoli della propria inferiorità (è impossibile che non lo fossero) e delle condizioni avverse sono comunque passati all’azione? Le ipotesi sono numerose.
Nelle scorse settimane erano state annunciate nuove epurazioni nelle forze armate, e questo potrebbe aver indotto gulenisti e kemalisti ad accelerare i loro piani prima di essere espulsi dalle posizioni che occupavano all’interno della catena di comando, come abbiamo visto già non proprio di vertice. Inoltre corrono da tempo insistenti voci sulla volontà da parte di Erdogan di fare ulteriori passi legislativi nel senso dell’islamizzazione del paese.
Ma oltre al pericolo di una ulteriore evoluzione del regime islamo-nazionalista erdoganiano, i golpisti potrebbero aver valutato che la situazione interna ed internazionale del paese era la migliore possibile per la loro sollevazione. La strategia egemonica ed espansionistica dell’Akp è completamente fallita: dopo aver tagliato i ponti con i tradizionali alleati statunitensi in nome della continuazione del sostegno di Ankara ai jihadisti utilizzati contro la Siria e i curdi, i recenti sanguinosi attentati di Daesh hanno da una parte affondato l’economia del paese, dall’altra reso patente che la Turchia è fortemente infiltrata dalla rete fondamentalista che dopo aver rafforzato l’attuale regime ora lo ha messo nel mirino. Dopo aver trattato con la guerriglia curda per disinnescare il pluridecennale conflitto con il Pkk, improvvisamente Erdogan ha lanciato una maxi operazione militare non solo contro i combattenti, ma contro intere regioni curde, provocando centinaia di morti anche tra i civili ma esponendo le forze armate alla dura e sanguinosa reazione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan e del Tak, un altro gruppo più radicale. Agli occhi di molti turchi il paese appare, non a torto, letteralmente in balia degli eventi.
Frustrata l’ambizione di costruire un’area politico-economica egemonizzata da Ankara, che andasse dal Nord Africa al Medio Oriente alle repubbliche caucasiche turcofone dell’ex Urss, la Turchia è minacciata dalla guerriglia curda all’interno e dal rafforzamento dei curdi siriani oltreconfine, spalleggiati oltretutto dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dalla Russia. La prospettiva della creazione di uno stato curdo ai propri confini e di un contagio tra i curdi turchi come conseguenza delle irresponsabili manovre di Erdogan può sicuramente allarmare anche settori dell’esercito non certo teneri con il presidente ma che in onore alla tradizione kemalista osteggiano ferocemente ogni concessione di autonomia alle minoranze.
Inoltre il paese è assediato dalla proliferazione di gruppi islamisti e jihadisti che dopo aver goduto per anni dei favori, dei finanziamenti e delle protezioni degli apparati statali e di sicurezza di Ankara si stanno rivelando ora una grave minaccia; dalla crisi economica provocata dall’isolamento internazionale e dal crollo dei flussi turistici indotto dagli attentati curdi e islamisti; dall’esposizione ad enormi flussi migratori provenienti da quella Siria che l’Akp ha contribuito non poco a destabilizzare. La spregiudicata politica estera del sultano non solo è fallita su tutti i fronti, ma si è addirittura ritorta contro il paese, i suoi interessi e la sua popolazione. Un fallimento così patente che nelle scorse settimane Erdogan ha tentato di correre ai ripari: ha rilanciato l’alleanza con Israele, rotta all’epoca dell’assalto alla Mavi Marmara; ha ricucito con la Russia; ha addirittura prefigurato un ritorno a relazioni quantomeno decenti con il governo siriano in nome della “comune lotta contro il terrorismo” jihadista che improvvisamente si è rivelato una mina per la stessa Turchia che a lungo l’ha alimentato e strumentalizzato. Un tentativo forse giudicato comunque tardivo da parte delle fazioni militari ribelli.
La solitudine di Erdogan
Da questo punto di vista i golpisti potrebbero aver valutato che la debolezza attuale del regime e la mancanza di solidi sostegni internazionali costituiva la condizione migliore per impossessarsi del potere nonostante la loro scarsa forza d’urto materiale.
Ed in effetti il golpe frustrato ha rivelato che i cosiddetti alleati e sostenitori del regime di Erdogan all’estero quantomeno non avevano molto a cuore le sue sorti, almeno finché non è apparso chiaro che l’ammutinamento era destinato alla sconfitta. Se fosse confermato, il no di Berlino alla richiesta di asilo proveniente dal presidente in fuga potrebbe essere rivelatrice dell’atteggiamento non certo accogliente dell’Unione Europea. Ed anche l’amministrazione Obama, per bocca prima di Kerry e poi dell’inquilino della Casa Bianca, si è preoccupata più di chiedere ad Ankara continuità e stabilità che di perorare la causa del mantenimento al potere di Erdogan. Anche lo stesso capo dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg si è limitato a sostenere il mantenimento della democrazia in uno dei più importanti membri della Nato, senza mai citare esplicitamente il presidente. Questo mentre Donald Trump si guardava bene dal prendere posizione.
D’altronde che la Turchia sia da tempo recalcitrante agli interessi politici e militari di Ue e Stati Uniti e sia diventata una sponda dello Stato Islamico, alleata di Israele e delle petromonarchie nella contestazione della posizione dominante dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente, sicuramente non entusiasma né Bruxelles né Washington. Il che non è sfuggito a Erdogan che, una volta recuperato il controllo della situazione, non ha mancato di lanciare una esplicita frecciata a Obama affermando che “chi ospita Gulen non è nostro amico”.
I golpisti sono stati imbeccati?
Stante la situazione, è lecito quindi chiedersi se i golpisti turchi sperassero nell’appoggio di Unione Europea e Stati Uniti semplicemente sulla base di concordanze oggettive di interessi, o seppure da parte dei due “alleati di Ankara” fossero giunti segnali espliciti ai registi della sollevazione militare.
Ma, visto come sono andate le cose e gli effetti che il fallimento del tentato colpo di stato stanno già producendo, è lecito anche chiedersi se gli organizzatori della sollevazione non siano stati attirati in una vera e propria trappola dallo stesso regime.
Alcuni elementi dell’entourage erdoganiano, o membri dell’establishment militare lealista infiltrati nella fazione ribelle, potrebbero aver volutamente fornito informazioni distorte agli incauti colonnelli, rappresentando un livello di debolezza e di divisione del regime non corrispondente al vero, inducendo quindi i golpisti a compiere un fatale errore che di fatto rappresenta un enorme favore al regime.
Quando il redivivo sultano ha incautamente esclamato “questo colpo di stato, questo tentativo è un gran regalo di Dio per noi” forse stava implicitamente rivendicando che la sua spericolata strategia – che è cosa diversa da un autogolpe che pure è stato segnalato da alcuni commentatori come possibilità non del tutto remota – aveva effettivamente sortito gli effetti sperati.
Il regime rafforzato
Perché, e non è sfuggito neanche ai commentatori meno attenti, il fallimento del tentativo di putsch militare riporta in sella un Erdogan estremamente rafforzato, e che approfitterà della situazione per fare definitivamente piazza pulita, in modo ancora più feroce e brutale, dei suoi oppositori ma anche dei suoi competitori nelle forze armate, nella polizia, nell’amministrazione statale, nel suo stesso partito, nella stampa, nella scuola, nelle università. Un processo repressivo e autoritario che Erdogan ha già intrapreso da tempo, e che dal fallimento del golpe del 15 luglio trae nuova linfa e giustificazione. C’è da giurare che nei prossimi giorni cadranno moltissime teste, in alcuni casi letteralmente, vista l’intenzione di ripristinare la pena capitale per i ‘traditori’. E non solo quelle di veri e propri oppositori del Sultano, ma anche di molti di coloro che finora non l’hanno adorato ma nemmeno ostacolato. Erdogan e i suoi avranno la strada spianata per mettere fuorilegge i partiti curdi e di sinistra che per la prima volta hanno avuto accesso, nelle ultime due tornate elettorali, al Parlamento, per mettere mano alla Costituzione uscita dal golpe laicista e fascisteggiante del 1980 per aumentare la concentrazione dei poteri nella figura del presidente e per aumentare il grado di islamizzazione della società, per sottoporre ulteriormente i media e la magistratura al controllo del governo e così via. Il passo falso dei golpisti – spontaneo o indotto, poco importa – potrebbe fornire alla cupola del partito islamo-nazionalista turco l’occasione per regolare tutti i conti.
Erdogan “campione di democrazia”
E – qui il paradosso maggiore – Erdogan potrebbe aumentare il grado di brutalità di quella che è una dittatura non dichiarata ma più che evidente, vantando al tempo stesso di essere un incontestabile campione di democrazia e legalità. D’altronde l’appello suo e dei muezzin, rivolto ieri al popolo turco, affinché i sostenitori del regime scendessero in piazza e si opponessero fisicamente ai golpisti ha avuto un certo effetto. Le immagini dei manifestanti che a migliaia hanno accolto Erdogan all’aeroporto Ataturk di Istanbul, di quelli che hanno bloccato e “disarmato” i militari e i carri armati, di quelli che hanno pagato con la vita la loro intraprendenza fanno di Erdogan e del suo regime un ‘esempio di democrazia’. Nonostante i giornali sequestrati e chiusi, i dissidenti politici e gli intellettuali incarcerati, i deputati e i partiti messi al bando, i sindacati repressi, le minoranze trattate come un nemico da eliminare fisicamente.
Significative le parole del premier Yildirim: «La mobilitazione del popolo turco contro il tentato golpe ha dimostrato quanto sia importante la democrazia per il nostro paese. (…) Il 15 luglio -ha concluso- è una data destinata a rimanere nella storia della Turchia come simbolo della vittoria della democrazia». I sostenitori dell’Akp e del partito nazionalista di destra erede dei Lupi Grigi che ieri sventolavano la bandiera turca e si scontravano con i militari golpisti rappresentano un fondamentale contraltare a quelle folle di manifestanti progressisti o laici, pure molto più consistenti, che dal maggio al luglio del 2013 tentarono di inceppare l’infernale meccanismo autoritario, liberista e islamista erdoganiano. Le istantanee di un Gezi Park difeso dalle ruspe da centinaia di migliaia di manifestanti sono ormai ingiallite e consumate, in un paese ormai ostaggio di un vero e proprio movimento reazionario di massa.
Un errore di valutazione spesso compiuto dai commentatori di sinistra e anche da molti analisti è stato quello di sottovalutare la popolarità di Erdogan, che invece ha saputo costruire nei suoi 13 anni di potere un vasto blocco sociale che lo ha sostenuto anche nei momenti più difficili. Milioni di turchi conservatori, tradizionalisti, islamisti e/o nazionalisti hanno trovato nell’Akp la loro stella ed in Erdogan il loro Ataturk: prodigo di aiuti economici, sempre pronto a oliare la vorace macchina del consenso a suon di clientele, appalti e grandi opere, e attento alle nostalgie e alle rivendicazioni scioviniste di una ‘Turchia profonda’ che negli ultimi decenni è diventata maggioranza ad Istanbul ed insidia la tradizionale classe media laicista anche ad Ankara e Smirne.
Nella tragica contesa andata in scena ieri le forze di sinistra, i sindacati, le organizzazioni curde non si sono schierate. Al contrario di molti tifosi nostrani poco informati e troppo inclini a parteggiare per uno o l’altro dei contendenti anche quando entrambi sono decisamente indigeribili, questi soggetti hanno denunciato il carattere autoritario e antipopolare del regime erdoganiano, ma anche il ruolo nefasto che i militari hanno avuto nella storia turca dalla fondazione della repubblica ad oggi. D’altronde, se la Turchia di oggi è facile preda del ‘sultano’ e delle sue irresponsabili ambizioni è anche grazie alla pesante tutela esercitata da un esercito che ha sì difeso con le armi il carattere laico dello stato, ma a costo di impedire ogni dialettica democratica, di eliminare ogni libertà politica e civile, di negare il diritto di autodeterminazione dei popoli. Aver eliminato dalla vita politica, aver emarginato per decenni con la repressione e la discriminazione quella metà del paese che nonostante la laicizzazione forzata di Ataturk continuava a considerare una priorità l’Islam politico, non è servito a granché. Appena ne ha avuto la possibilità questa Turchia islamista è venuta allo scoperto occupando tutti i gangli del potere.
Ora per le forze progressiste, di sinistra, del lavoro, per i curdi e per le altre minoranze si apre una stagione ancora più buia di quella che, in un modo o nell’altro, si è chiusa ieri, 15 luglio, “festa della democrazia”.
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