di Michele Giorgio
Siamo al paradosso. Qualche ora dopo il massacro di più di 80 persone a Nizza compiuto da un presunto militante dell’Isis,
il clero wahhabita saudita, principale propulsore di intolleranza, del
rifiuto delle altre culture e di attacchi alle minoranze islamiche, ha
addossato la responsabilità dell’escalation di attentati in tutto il
mondo al presidente siriano Bashar Assad. «L’Islam assegna
grande valore al sangue umano e vieta il terrorismo che uccide gente
pacifica nelle case, nei mercati, nei luoghi di lavoro. L’ultimo crimine
del terrorismo riflette quanto accade in Siria», ha proclamato il
Consiglio degli Studiosi in riferimento alla politica di Assad, che
l’Arabia Saudita è impegnata ad abbattere finanziando ad armando alcuni
dei gruppi jihadisti più radicali, come Jaish al Islam.
È paradossale perché il wahhabismo promosso da questi
religiosi in Arabia Saudita e in altre monarchie del Golfo, assieme al
cugino salafismo, offre la base ideologica delle azioni delle cellule
dell’Isis e di altri gruppi che colpiscono in Medio Oriente e in Europa.
Appena qualche giorno fa circa 300 iracheni sono stati fatti a pezzi da
centinaia di chili di tritolo a Baghdad. Il Consiglio degli
Studiosi sauditi non ha aperto bocca. La ragione è semplice. I morti
erano sciiti, non riconosciuti come veri musulmani dal wahhabismo.
Suscita un sorriso colmo di amarezza la costernazione del leader
turco Erdogan. «Il terrore non ha religione, razza o nazionalità. In
questo mondo non c’è posto per questi barbari», ha proclamato in un
messaggio di condanna della strage a Nizza. «Dobbiamo renderci conto
tutti insieme che per le organizzazioni terroristiche non c’è differenza
tra Turchia e Francia, Iraq e Belgio, Arabia Saudita e America», ha
sottolineato Erdogan sorvolando sul fatto che proprio lui non ha
ostacolato, per anni, il passaggio per il suo Paese di migliaia di
jihadisti, spesso provenienti dall’Europa, diretti in Siria.
E se oggi Erdogan sostiene di voler riallacciare i rapporti
con i Paesi vicini, Siria inclusa, ciò si deve anche, se non
soprattutto, agli attentati dell’Isis compiuti in territorio turco che
hanno dimostrato la follia della politica estera svolta dal “Sultano”.
Di fronte a questo Hollande ieri ha annunciato un maggior impegno
militare di Parigi contro l’Isis in Iraq e in Siria. Il presidente
francese farebbe meglio a rinunciare ai miliardi di dollari dei Saud e
degli altri petromonarchi per l’acquisto di armi francesi. E
dovrebbe imporre al suo amico re Salman di bloccare subito il flusso di
denaro proveniente da istituzioni religiose e da ricchi cittadini
sauditi diretto, sotto forma di “donazioni”, a scuole coraniche, moschee
e centri islamici in ogni parte del mondo, anche in Occidente, allo
scopo di diffondere tra le popolazioni e le comunità sunnite il
wahhabismo come corrente islamica dominante.
Il ruolo torbido delle petromonarchie continua a non essere
affrontato. Eppure anche la recente relazione di una commissione del
Congresso Usa ha confermato che i regnanti dell’Arabia Saudita e di
altri Paesi del Golfo fanno poco per fermare i finanziamenti privati che
raggiungono le organizzazioni più militanti, incluse l’Isis e al Qaeda.
Non sorprende perciò che la guerra in Siria e in Iraq non conosca soste.
Decine di persone ogni giorni muoiono sotto i bombardamenti di tutte le
parti in lotta. Le tregue sono proclamate e puntualmente non
rispettate. In Siria le truppe governative e le milizie alleate,
appoggiate dall’aviazione russa, stringono l’assedio della zona di
Aleppo controllata dai islamisti radicali e jihadisti. Per
Damasco riprendere tutta Aleppo, la seconda città ed ex polmone
economico del Paese, significherebbe conseguire la vittoria più
importante in cinque anni di battaglie.
Sempre in quella zona combattenti curdi e i “ribelli”, uniti nelle
Forze siriane democratiche (Fsd) finanziate dagli Usa, sono vicinissimi
alla città strategica di Manbij. In Iraq, dove proseguono le proteste
dei sostenitori di Muqtada Sadr contro il governo, l’esercito aiutato
dalle milizie sciite e con l’appoggio dei curdi (e dei “consiglieri”
Usa), continua lentamente la marcia di avvicinamento a Mosul, la
“capitale” dell’Isis.
La scorsa settimana si sono svolti i colloqui tra il
segretario di stato Usa John Kerry e il presidente russo Vladimir Putin
sulla situazione in Siria. I due, proclami a parte, non hanno trovato
intese concrete sulla possibilità di svolgere operazioni congiunte
russo-americane. Mosca chiede raid Usa anche contro al Nusra (al Qaeda in Siria) che Washington, pur considerandola una organizzazione terroristica, si rifiuta di attaccare perché alleata dei “ribelli” cosiddetti “moderati”.
La Russia, che ha ribadito il sostegno ad Assad, vuole la
continuazione dei negoziati a Ginevra, l’unica strada, afferma, per
arrivare a una soluzione politica della crisi. Ma a Ginevra
difficilmente le parti torneranno prima del 2017, alla luce anche delle
pressioni saudite sui rappresentanti dell’opposizione siriana affinché
la possibile transizione politica preveda l’esclusione immediata dal
potere di Assad che pure gode del sostegno di milioni di siriani.
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