di Michele Paris
L’attesa pubblicazione di una parte finora classificata del rapporto
del Congresso americano sugli eventi dell’11 settembre 2001 ha riportato
in questi giorni l’attenzione sul ruolo del regime dell’Arabia Saudita
negli attacchi o, per meglio dire, nel facilitarne l’organizzazione
grazie al supporto materiale assicurato ad alcuni degli attentatori.
Nonostante le 28 pagine messe a disposizione del pubblico venerdì scorso
fossero state tenute sotto chiave da 13 anni, nella sostanza esse non
fanno però che confermare ipotesi e prove concrete già note da tempo.
Per questa ragione, in molti si sono interrogati sulle vere ragioni
che hanno portato alla diffusione di questa porzione del rapporto e,
soprattutto, sulle responsabilità più ampie nei fatti che hanno cambiato
radicalmente il corso della storia degli Stati Uniti e dell’intero
pianeta.
Il primo aspetto da considerare è il tempismo della
pubblicazione del documento in questione, arrivata non solo nel
pomeriggio del venerdì che ha segnato l’inizio della lunga pausa estiva
del Congresso, ma all’indomani della strage di Nizza, la quale ha
comprensibilmente monopolizzato l’attenzione dei media. Come se non
bastasse, il giorno successivo il tentato colpo di stato in Turchia ha
ulteriormente emarginato la notizia sul rapporto relativo al ruolo
saudita nell’11 settembre.
Singolari e per molti incomprensibili
sono state poi le dichiarazioni dell’amministrazione Obama, di alcuni
membri del Congresso e dello stesso governo di Riyadh. Tutti hanno
affermato che le 28 pagine del rapporto finalmente accessibili alla
lettura confermerebbero l’estraneità dell’Arabia Saudita agli attentati
del 2001 o, quanto meno, l’assenza di prove schiaccianti a carico dei
vertici della monarchia assoluta del Golfo Persico.
In realtà,
anche una lettura superficiale conferma esattamente il contrario e
offre, secondo la definizione offerta da vari giornali negli USA, “prove
circostanziali” del coinvolgimento di uomini legati al regime saudita
negli attentati dell’11 settembre. Individui facenti parte del governo
saudita hanno cioè fornito assistenza logistica e finanziaria ad almeno
alcuni degli attentatori, di cui 15 su 19 erano appunto cittadini del
Regno.
Per il presidente della commissione Servizi Segreti della
Camera dei Rappresentanti di Washington, Devin Nunes, le informazioni
contenute nelle 28 pagine del rapporto non sarebbero comunque
“conclusioni accertate”, bensì indizi non provati su cui l’intelligence
USA avrebbe fatto in seguito piena luce.
Vista l’ovvia
sensibilità della vicenda, è semplicemente ridicolo sostenere che gli
“indizi” contenuti nella parte del rapporto sull’11 settembre dedicato
all’Arabia Saudita non siano sufficienti nemmeno a far scattare
un’indagine approfondita sul ruolo di questo paese. La decisione di
insabbiare le responsabilità saudite, sia da parte dell’amministrazione
Bush sia di quella guidata da Obama, che per oltre sette anni ha tenuto
nascoste le 28 pagine del rapporto, è dunque interamente politica e
dettata dalla necessità di occultare le responsabilità di un alleato
fondamentale in Medio Oriente, ma anche, di riflesso, quelle dello
stesso governo americano.
Per comprendere questa realtà, assieme
al livello di ipocrisia della classe politica USA, è sufficiente
immaginare quale sarebbe stata la reazione a Washington se nella
posizione dell’Arabia Saudita ci fosse stato l’Iran o l’Iraq di Saddam
Hussein. Lo stesso fatto di dedicare una parte del rapporto
specificatamente al regno saudita e a nessun altro paese suggerisce dove
gli Stati Uniti, che com’è noto invasero l’Afghanistan poco dopo gli
attacchi dell’11 settembre, avrebbero dovuto se mai guardare per colpire
i responsabili o i mandanti.
Le 28 pagine appena declassificate
iniziano in maniera inequivocabile, affermando che “mentre si trovavano
negli USA, alcuni dirottatori dell’11 settembre erano in contatto con, e
avevano ricevuto supporto da, individui che potevano essere legati al
governo dell’Arabia Saudita”. Secondo l’FBI, alcuni di questi
“individui” erano agenti dell’intelligence saudita.
Tra i nomi
che emergono dal rapporto vi è quello di Omar al-Bayoumi, uno degli
agenti segreti del regno sunnita attivi in territorio americano. Bayoumi
era in stretto contatto con due futuri attentatori, Nawaf al-Hazmi e
Khalid al-Midhar, fin dal loro arrivo a San Diego all’inizio del 2000.
Ai
due membri di al-Qaeda di nazionalità saudita, Bayoumi fornì denaro e
aiuto nel trovare un alloggio in California, dove avrebbero poi preso
lezioni di volo. Bayoumi, sempre secondo il rapporto del Congresso,
riceveva uno stipendio per un lavoro che non svolgeva da una compagnia
collegata al ministero della Difesa saudita. La somma passata a Bayoumi
era salita vertiginosamente proprio in seguito all’arrivo di Hazmi e
Midhar negli USA.
Non solo, la moglie di Bayoumi riceveva 1.200
dollari ogni mese dalla consorte dell’allora ambasciatore saudita negli
Stati Uniti, Bandar bin Sultan, successivamente capo dell’intelligence
del Regno e talmente vicino alla famiglia Bush da conquistarsi il
soprannome di “Bandar Bush”.
La
moglie di Bandar elargiva un fisso mensile, questa volta attorno ai
duemila dollari, anche alla moglie di un altro agente saudita citato dal
rapporto, Osama Bassnan, il quale, come scriveva l’FBI, già nel 1998
aveva incassato un assegno da 15.000 dollari direttamente
dall’ambasciatore saudita.
Per il governo americano, Bassnan era un “estremista e sostenitore di
Osama bin Laden”, ma nel 2000 viveva nella stessa strada di San Diego
dove avevano trovato un appartamento i due attentatori citati in
precedenza. Bassnan sembra avesse messo in contatto questi ultimi con un
pilota di aerei in California, con cui avrebbero discusso di come
“imparare a pilotare un Boeing”.
Tra le notizie più interessanti
contenute nel rapporto c’è anche il riferimento a una rubrica telefonica
appartenuta ad Abu Zubaydah, esponente operativo di al-Qaeda tuttora
detenuto a Guantanamo. In essa erano riportati i numeri di telefono, non
disponibili pubblicamente, di compagnie che si occupavano del servizio
di sicurezza presso la residenza in Colorado dell’ambasciatore Bandar e
di una guardia del corpo dell’ambasciata saudita a Washington.
Saleh
al-Hussayen è un altro cittadino saudita indagato dall’FBI e citato nel
rapporto del Congresso. Hussayen lavorava per il ministero dell’Interno
di Riyadh e si trovava nientemeno che nello stesso hotel della Virginia
dove alloggiavano tre dei dirottatori, tra cui Hazmi e Midhar, la notte
prima degli attentati dell’11 settembre. Durante un successivo
interrogatorio con agenti dell’FBI, Hussayen simulò un malore e, dopo
alcuni giorni in ospedale, avrebbe lasciato indisturbato gli Stati
Uniti.
Le informazioni contenute nelle 28 pagine non esauriscono
le indagini condotte dall’FBI e da altre agenzie federali americane sul
ruolo dell’Arabia Saudita nella preparazione degli attacchi del 2001. Ad
esempio, come aveva rivelato recentemente la stampa USA, lo stesso FBI
sarebbe in possesso di 80 mila documenti segreti sull’argomento,
attualmente al vaglio di un giudice federale in Florida che presiede a
una causa intentata da tre reporter che ne chiedono la pubblicazione.
In
queste carte potrebbero esserci ulteriori dettagli scottanti sul
contributo di uomini legati al regime saudita ai fatti dell’11
settembre. L’aspetto decisivo della vicenda consiste però nel fatto che
le 28 pagine appena pubblicate, così come l’intero rapporto sugli
attentati, occultano deliberatamente le responsabilità del governo e dei
servizi segreti americani.
Ciò appare evidente, ad esempio, nel
caso dei dirottatori Hazmi e Midhar, in relazione ai quali si citano gli
appoggi ottenuti negli USA grazie a esponenti dell’intelligence
saudita. Nulla viene detto invece sulle responsabilità americane che
consentirono l’ingresso negli Stati Uniti ai due uomini di al-Qaeda dopo
l’atterraggio del loro volo a Los Angeles il 15 gennaio del 2000.
Hazmi
e Midhar erano infatti noti alla CIA, la quale chiese alle autorità
della Malaysia di tenerli sotto sorveglianza durante un meeting tra
membri di al-Qaeda organizzato a Kuala Lumpur ai primi giorni del 2000.
Dopo il vertice nella capitale malese, ai due futuri attentatori fu
consentito di organizzare il loro viaggio in California tramite
un’organizzazione yemenita che la CIA sapeva fungere da supporto
logistico per al-Qaeda.
Questi e altri episodi che hanno
facilitato l’ingresso negli USA degli attentatori dell’11 settembre sono
stati in seguito ricondotti puntualmente a “errori” o “sviste” della
CIA e delle altre agenzie che operano nell’ambito della sicurezza
nazionale. Gli stessi “errori” hanno rappresentato anche in anni più
recenti la giustificazione ufficiale proposta in seguito ad attentati
terroristici condotti da individui ben noti all’intelligence americana,
come nel caso delle bombe alla maratona di Boston nell’aprile del 2013.
A
ben vedere, il moltiplicarsi di indizi e rivelazioni simili dopo il
2001 ha sollevato fortissimi dubbi sul ruolo del governo americano, non
solo negli ambienti del cospirazionismo. Le ultime informazioni rese
pubbliche grazie alle 28 pagine del rapporto del Congresso sull’11
settembre descrivono ad esempio attività condotte da agenti sauditi
che, visti anche i legami con Riyadh, è difficile credere avvenissero a
totale insaputa dell’intelligence USA.
Queste perplessità sono
alimentate anche dall’insistenza con cui vengono messe in luce le
responsabilità saudite negli attentati da parte di esponenti politici
negli Stati Uniti che, nonostante l’immagine propagandata dalla stampa
ufficiale, a fatica possono essere considerati “outsider”.
Tra i
più noti sono l’ex senatore Democratico della Florida, Bob Graham, e
l’ex segretario della Marina, il Repubblicano John Lehman, entrambi già
membri della commissione d’inchiesta sull’11 settembre. I due sono
spesso citati da coloro che continuano a ritenere ci sia un’altra verità
dietro l’11 settembre, anche se per altri la loro presenza nello
schieramento di coloro che contestano la versione ufficiale sarebbe
precisamente la conferma dell’esistenza di ben altre responsabilità di
quelle attribuite all’Arabia Saudita.
In
altre parole, l’insistenza sulla necessità di far luce sul ruolo dei
sauditi potrebbe servire a sviare qualsiasi indagine proprio sul
comportamento dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti
che avrebbe facilitato gli attentati del 2001. L’interpretazione a cui
conducono le 28 pagine è esattamente quella della collaborazione
nell’organizzazione degli attacchi di elementi del regime saudita,
quanto meno in maniera indipendente se non sotto gli ordini dei vertici
del Regno.
In questa prospettiva, gli Stati Uniti, che hanno
tutt’al più mancato di vigilare a sufficienza sulla sicurezza del paese,
sarebbero stati vittime di terroristi senza scrupoli e di un alleato
che, nella migliore delle ipotesi, non ha saputo tenere sotto controllo
alcune mele marce al proprio interno.
Se la recente pubblicazione
dell’ultima parte del rapporto sull’11 settembre che era ancora segreto
non ha spazzato via le nubi sui tragici fatti di quasi 15 anni fa, quel
che è certo è che la verità non potrà mai venire a galla nel quadro di
un sistema di potere che, sia pure non sapendo ancora in che misura, ha
responsabilità dirette negli attentati e, soprattutto, grazie a essi ha
potuto mettere in atto i propri piani strategici su scala globale allo
studio da tempo che nulla hanno a che vedere con la “guerra al terrore”.
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