Forse gli storici del futuro dedicheranno più di una pagina al colpo di stato turco del 16 luglio 2016, parlandone come di uno degli avvenimenti che ha segnato una cesura, dopo di che nulla è stato come prima.
La Turchia non è la Russia, la Germania o gli Usa, d’accordo, ma è comunque un paese di 75 milioni di abitanti (con l’Egitto il più popoloso paese islamico del bacino mediterraneo), con l’esercito più forte dell’area ed è, almeno sinora, uno degli emergenti di seconda schiera.
Ma, soprattutto è l’erede dell’ultimo Califfato. Per di più si trova all’incrocio fra Russia, Europa e Medio Oriente, in una posizione maledettamente strategica. Dunque una casella fra le più delicate dell’intero scacchiere mondiale. Un mutamento dei suoi orientamenti di politica estera o lo scoppio di una guerra civile interna possono mettere in moto un effetto domino di conseguenze imprevedibili.
Iniziamo da una cosa: se è vero che non è stata una dimostrazione di massa ad aver fermato l’incauto colpo di stato gulenista (ma, poi, gulenista sino a che punto?) è però vero che le manifestazioni di massa ci sono ora e rivelano una Turchia molto meno laica e molto più islamista di quanto non sospettavamo. Ed è evidente che (salvo le minoranze nazionali o le opposizioni residue) Erdogan ha dietro di sé il paese. Se si votasse oggi sarebbe un plebiscito. Anche l’esercito, già precedentemente epurato ora lo sarà del tutto e seguirà il nuovo Sultano o, forse, la strana coalizione fra lui e quel “Qualcuno” che ha operato nell’ombra indirizzando il golpe verso l’esito attuale. Comunque sia, il progetto neo ottomano di Erdogan diventa una cosa molto più concreta ora di quanto non lo fosse prima.
E dobbiamo porci il problema dell’effetto che questo avrà sul movimento jihadista. Infatti, il progetto neo ottomano non ha molte prospettive se non attira nella sua orbita il radicalismo islamico, anche perché, se esso coincide con l’idea di un nuovo Califfato (la nuova grande potenza islamica) la cosa funziona solo se la galassia jihadista (o gran parte di essa) si riconosce in esso. Certo la Turchia non è un paese arabo e ci sono le vecchie storie della rivolta araba che portò allo smembramento dell’impero, ma stiamo giusto celebrando il secolo da quei fatti e non è detto che la barriera fra arabi e turchi sia ancora del tutto funzionale.
C’è da capire come si mette la vicenda del Califfato di Abu Bakr Al Baghdadi e gli scenari possibili sono questi: la Turchia decide che questa entità non gli è più funzionale, per cui blocca i suoi traffici e cerca di far morire soffocato l’Isis, oppure entra pesantemente in gioco con il suo esercito spazzando via in due settimane Daesh. La prima strada non inasprirebbe i rapporti con la galassia jihadista e permetterebbe alla Turchia di presentarsi con un più credibile progetto califfale che parte da un forte stato già esistente e riconosciuto. La seconda avrebbe più effetto nei confronti del sistema internazionale, presentando Istanbul come chi ha cavato la castagna dal fuoco, ma potrebbe avere un effetto negativo nel rapporto con la galassia islamista.
Oppure, all’opposto, la Turchia potrebbe trovare la strada di un accordo con il Califfato proteggendolo o magari offrendosi come retrovia in caso di occupazione di Raqqa, ovviamente a condizione che l’Isis entri nella sua orbita. Ipotesi meno probabile della prima.
In questo quadro si pone il problema dell’equilibrio fra Russia ed Usa. La Turchia è stata l’alleato più fedele degli Usa nella Nato, ma ora le cose sono precipitate. Partiamo da una cosa: è credibile che Gulen sia stato dietro al golpe? Non credo: i gulenisti sono una specie di Opus Dei islamica, ramificati anche in Iraq ed Egitto, hanno denaro, organizzazione, rapporti con mezzo mondo, non è credibile che siano caduti in una trappola così elementare. Avendo molto da perdere, se si fossero mossi, non si sarebbe trattato del golpe delle quattro ore. In secondo luogo, sarebbe stato oltremodo strano che Gulen ordisse una tale trama senza che gli americani, di cui è ospite, ne avessero almeno sentore e, di conseguenza, dovremmo dedurre che erano d’accordo. Anche qui non pare probabile che gli americani abbiano potuto compromettersi con una cosa così sgangherata, mettendo in pericolo i rapporti con Ankara. Peraltro la stessa reazione di Obama, così tardiva e sfavorevole ai golpisti, lascia pensare ad una amministrazione americana presa in contropiede. Insomma, non mi pare che questa ipotesi possa funzionare e, pertanto, Erdogan sa perfettamente che Gulen non c’entra nulla con questo golpe-farsa, dunque, se pianta una grana del genere con gli Usa per riavere Gulen, vuol dire che sta utilizzando un pretesto per rompere con gli americani o, per lo meno, per iniziare un braccio di ferro con loro.
E questo porta ad un’altra considerazione: Ankara può permettersi di reggere contemporaneamente un confronto con gli Usa e con la Russia con cui, almeno formalmente, è ancora aperto il conto dell’abbattimento del Sukhoi a ottobre? Difficile pensarlo, dunque è plausibile che ci sia un qualche parallelo riavvicinamento con Mosca con la quale, peraltro, i rapporti erano molto buoni sino all’inconsulto incidente di ottobre. E questo con due possibili esiti: o Erdogan riesce a stabilire una equidistanza da Usa e Russia ed imporre ad entrambe di fare i conti con lui per regolare lo scenario mediorientale, oppure rompe decisamente con gli americani ed, allora, non gli resta che stringere con Mosca. Se la rottura dovesse diventare definitiva, questo significherebbe l’uscita della Turchia dalla Nato, perché restarci significherebbe correre il rischio di un vero colpo di stato ispirato dalla Nato e stavolta non si tratterebbe di un golpe delle quattro ore.
Su cosa potrebbe basarsi l’accordo fra Ankara e Mosca? In primo luogo la ripresa dei rapporti commerciali, poi una soluzione negoziata a due della crisi siriana e della questione Isis, tenendo fuori gli americani che subirebbero la più cocente sconfitta politica dalla guerra in Vietnam. Peraltro, la Turchia potrebbe essere un appoggio interessante anche nella questione della Crimea. D’altro canto, un nuovo Impero Ottomano indipendente e forse ostile a Washington non è detto che debba dispiacere tanto a Mosca nel contesto attuale che non è quello del XIX secolo e delle guerre russo turche.
Insomma, non mancano le ragioni per attrarre Istanbul verso Mosca. Ci sono dei segnali da osservare: l’eventuale ripristino della pena di morte, l’insistenza sull’estradizione di Gulen, qualche gesto distensivo verso Mosca, una improvvisa crisi sulla questione dei profughi, con flussi incontrollati verso l’Europa ecc. sarebbero tutti segni di un allontanamento della Turchia dall’Occidente.
Ed anche le vicende nostrane di terrorismo islamista potrebbero essere giocate in termini opposti: se Ankara prendesse le redini del movimento islamista potrebbe giocare la carta del terrorismo (come peraltro quelle degli affari o dell’immigrazione) per condizionare l’Europa. Senza contare la partita dei gasdotti e quella della via della seta.
Comunque vada, un mutamento della posizione internazionale della Turchia, se ci fosse, avrebbe implicazioni geopolitiche di primaria importanza tali da far pensare che gli Usa non staranno a guardare, anche se, per ora, possono fare ben poco nell’ultimo semestre di presidenza Obama. Dopo vedremo chi sarà il nuovo presidente e cosa vorrà e potrà fare.
Per ora siamo solo agli inizi di questo terremoto. Una cosa sembra ragionevole attendersi: mettiamo nel conto un bagno di sangue in Turchia.
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