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“Erdogan non ha in mano il paese come voleva far credere”
Alberto Negri sul Sole 24 Ore di oggi
Erdogan ha vacillato ma è ancora in sella, anzi secondo alcuni osservatori potrebbe uscire da questa prova, non del tutto terminata, ancora più forte. Potrà quasi sicuramente vantarsi di avere retto l’urto dei militari golpisti, di essere il portabandiera della democrazia e probabilmente troverà ancora più spianata la strada per le modifiche costituzionali necessarie a trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale.
Ma questa vicenda con dozzine di morti rivela che il presidente non aveva in mano il paese così saldamente come voleva far credere. Erdogan in questi anni – da premier e poi da presidente – si è presentato ai turchi come l’uomo forte che si proponeva di essere il nuovo Ataturk in salsa islamica proiettando il paese alla guida del mondo musulmano. Ma ha anche trascinato la Turchia in una guerra per procura contro Assad facilitando il passaggio di migliaia di jihadisti verso la frontiera siriana: una mossa che con il terrorismo islamista si è rivoltata contro lo stesso Erdogan destabilizzando una pedina fondamentale della Nato.
Non solo. Ai confini del Paese i curdi siriani, sostenuti da quelli turchi del Pkk, hanno guadagnato terreno e credibilità nella lotta al Califfato ponendo le basi per un possibile stato autonomo. L’irredentismo curdo è un vero incubo geopolitico per la Turchia e le forze armate del Paese hanno sempre combattuto e osteggiato ogni forma di autonomia.
L’ostilità di una parte anche se minoritaria delle forze armate esplosa in queste ore è stata generata da questo pericolo, dagli attacchi alla laicità e dal drastico ridimensionamento del ruolo dei generali nella vita della repubblica secolarista fondata da Kemal Ataturk.
Sappiamo che i piani di Erdogan in Siria sono affondati con l’intervento della Russia che nel settembre dell’anno scorso ha completamente cambiato le carte in tavola sul fianco sud-orientale della Nato, di cui proprio la Turchia era stato il bastione e il guardiano per oltre mezzo secolo. Il presidente turco è stato quindi costretto a fare marcia indietro: prima ha riallacciato le relazioni con Israele e poi anche con Putin. Nelle ultime settimane Erdogan era apparso indebolito, piegato dalla realpolitik mediorientale e delle grandi potenze. In fondo questo golpe, se davvero verrà soffocato, potrebbe rilanciarlo in maniera insperata.
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“I sopravvissuti alle purghe tra i militari hanno cercato di passare all’azione”
Di Vittorio Da Rold sul Sole 24 Ore di oggi
Il presidente turco Rcep Tayyip Erdogan ha accusato i militari golpisti di essere guidati dal suo acerrimo nemico Fethullah Gulen, un predicatore islamico in esilio volontario negli Stati Uniti. Fethullah Gulen ha respinto le accuse affermando di essere contrario a operazione contro lo stato democratico ma è probabile che alcuni militari gulenisti associati probabilmente con qualche residuo seguace kemalista, i sostenitori laici del fondatore della Turchia moderna Kemal Ataturk, ancora nei ranghi dell’esercito dopo le decine di purghe avvenute negli ultimi 15 anni, hanno avuto notizia della decisione del Governo turco di procedere a una epurazione nelle prossime due settimane e sarebbero passati all’azione anche se il piano non era ancora ben definito nei dettagli.
Secondo alcune fonti, i militari golpisti avrebbero deciso di passare all’azione per evitare l’ennesima epurazione del governo filo-islamico delle forze kemalista e guleniste presenti ancora nell’esercito turco e che il governo fosse pronto ad introdurre altri passi legislativi verso l’islamizzazione del paese (la famosa agenda segreta) o la sharia, la legge islamica dopo aver eliminato il divieto di indossare il velo islamico negli uffici pubblici e le università.
I militari turchi, i seguaci di Kemal Ataturk e i difensori della laicità del Paese sul Bosforo, dopo essere stati messi all’angolo cinque anni fa da una serie di sentenze della magistratura che aveva mandato in galera in massa i vertici delle forze armate poi tutti liberati dalla Corte di cassazione, hanno probabilmente tentato senza successo di riprendere l’iniziativa politica e sul terreno.
Ma a questo punto il presidente Erdogan utilizzando FaceTime è riuscito ad apparire da uno smartphone e da questo ripreso alla tv NTV dimostrando di essere scampato alla fase iniziale del golpe e a quel punto ha ribaltato la situazione a suo favore chiamando le masse all’azione e grazie all’appello degli imam e dei muezzin che hanno chiamato la gente a non rispettare il coprifuoco e a scendere in piazza contro i militari ribelli. A quel punto i golpisti hanno perso la partita. Il Paese della Mezzaluna bastione Nato del fronte caldo sud-orientale è comunque nel caos.
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“La società è molto polarizzata, andiamo verso la guerra civile”
Intervista di Marta Ottaviani a Yavuz Baydar su La Stampa di oggi
Lo Stato Maggiore ha perso la pazienza a causa della situazione nel Sud-Est del Paese e della crisi siriana. Yavuz Baydar, analista turco, prova a riannodare i fili di una serata che ha sconvolto gli equilibri in Turchia.
Yavuz Baydar, quarto colpo di Stato per la Turchia. Da dove trae origini? E perché?
«Il presidente Erdogan ha esagerato e i militari hanno detto “basta”. Il Sud-Est del Paese è a fuoco e fiamme da mesi. I rapporti con gli alleati della Nato sempre più critici a causa della politica estera seguita per anni dal leader dell’Akp. I soldati morti sono a centinaia. Non potevano più stare a guardare».
Crede che Erdogan se lo aspettasse?
«Se non aveva contemplato l’ipotesi di una ribellione, è stato veramente un ingenuo. Da mesi arrivavano segnali che i militari erano stanchi di sopperire alla drammatica situazione sul confine siriano. La sentenza della Corte di Cassazione di qualche mese fa che riabilitava le persone finite sotto processo per Ergenekon (la presunta organizzazione clandestina turca kemalista e ultra nazionalista, ndr) era un segnale».
Cosa succederà ora?
«Difficile da dire. La società è molto polarizzata. Andiamo verso la guerra civile. Per ricomporre questa frattura ci vorranno anni».
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“Già a marzo erano cresciute le voci di un potenziale golpe”
Di Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera di oggi
Una Turchia più fortemente legata alla Nato e decisamente contraria ad aprire nuovi motivi di scontro con gli Stati Uniti. È questo che i militari turchi chiedono da tempo (e non ottengono) dal presidente Recep Tayyip Erdogan, oltre ad un ruolo molto più importante nel condurre gli affari del paese. Ancora non sappiamo cosa davvero stia succedendo in Turchia. Ma diversi giornalisti e osservatori occidentali residenti a Istanbul e Ankara venerdì sera parlavano apertamente di «un nuovo colpo di Stato militare». Non è chiaro se abbia avuto successo o meno e quali unità dell’esercito siano passate con i generali golpisti. Venerdì notte la censura governativa ha bloccato i social media, a partire da Twitter. Secondo la Cnn turca, Erdogan sarebbe incolume «in un posto sicuro».
Ciò che possiamo provare a capire è cosa vorrebbe dire un ritorno dei generali alla guida del Paese e la conseguente defenestrazione del presidente che voleva diventare Sultano, anche a costo di inimicarsi l’esercito. La prima osservazione è che i militari negli ultimi tredici anni sono stati metodicamente allontanati dagli affari di Stato. Erdogan si era presentato come l’uomo capace di «democratizzare» il suo esercito e risolvere la questione curda. Nulla di tutto questo è avvenuto. Già in marzo ad Ankara erano cresciute le voci di un potenziale golpe. Anche se il più importante tra i generali turchi, Hulusi Akar, aveva fatto di tutto per rassicurare il pubblico e gli alleati americani. «I militari sono gli unici centri di potere oggi in Turchia ancora in grado di limitare le ambizioni autoritarie di Erdogan», dichiarava ai primi di maggio al Wall Street Journal Can Kasopglu, commentatore del Centro studi turco per gli Affari economici e la Politica Estera. Voci incontrollate affermano oggi che lo stesso ex primo ministro Ahmet Davutoglu, licenziato brutalmente da Erdogan due mesi fa, potrebbe essere coinvolto nella rivolta dei militari.
Un golpe significherebbe nell’immediato il tentativo di ridare un carattere laico al Paese contro la svolta decisamente islamico-conservatrice voluta con insistenza da Erdogan. La conseguenza più importante potrebbe essere la decisione di rompere senza indugio il legame con Isis e con i gruppi della resistenza sunnita come Al Nusra che combattono contro il presidente siriano Bashar Assad. Ciò potrebbe condurre ad un riavvicinamento tra Ankara e la Siria di Bashar, riannodando gli ottimi rapporti che vigevano prima delle rivolte contro il regime di Damasco nel 2011. Va sottolineato che negli ultimi mesi Erdogan aveva scelto questa strada. Ma tanti tra i generali pensavano fosse una scelta troppo tardiva. Rompere con i gruppi dell’estremismo sunnita favorirebbe tra l’altro la cooperazione con le polizie occidentali e la lotta comune contro il terrorismo. I militari probabilmente lavorerebbero anche per il processo di riavvicinamento ad Israele.
Una giunta militare al potere inoltre inasprirebbe la repressione anti-curda. È sempre stato uno dei principi portanti di Kemal Atatürk, il padre fondatore della Turchia moderna quasi un secolo fa sulle ceneri dell’Impero Ottomano sconfitto nella Prima guerra mondiale. Erdogan invece tre anni fa aveva scelto il dialogo con il Pkk (il Partito dei lavoratori Curdi in Turchia accusato di terrorismo anche dagli Stati Uniti), oltre a favorire le già ottime relazioni con l’enclave curda semi-indipendente in Iraq. Esattamente un anno fa era poi giunta la rottura assieme all’inizio della ripresa della repressione militare contro i curdi in Turchia. Ma i militari condannano con durezza gli ondeggiamenti di Erdogan. Lo accusano di essere all’origine della destabilizzazione del Paese. L’ondata di gravissimi attentati che da un anno spaventa l’opinione pubblica non fa che peggiorare la situazione. L’ultimo contro l’aeroporto Atatürk di Istanbul, che ha causato una cinquantina di morti, non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco del malcontento. Erdogan si presenta come l’uomo forte, il padre-padrone legittimato dai successi dei suoi primi anni al governo e dal boom economico. Ma oggi il suo è un Paese spaventato, timoroso del futuro, consapevole di essersi fatto troppi nemici attorno: dalla Russia, all’Iran, alla Siria di Bashar, al peggioramento delle relazioni con l’Europa. Senza peraltro coltivare nuovi alleati. Per quanto forte sia il suo esercito («il più potente della Nato dopo gli Stati Uniti», usava dire Erdogan), la Turchia non può stare da sola di fronte ai focolai di crisi che sconvolgono il Medio Oriente. I militari colgono l’occasione del momento di debolezza per provare a defenestrare il Sultano. È troppo presto per capire se ci sono riusciti. Per la Turchia si apre un periodo di crisi ancora più difficile.
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