Se il golpe dei militari è fallito miseramente, pare proprio che quello guidato dal presidente Erdogan stia invece funzionando davvero bene. Approfittando del clima creato nel paese dal ‘fallito golpe’ del 15 luglio e mentre le piazze turche si riempiono di centinaia di migliaia di sostenitori del regime – gli islamisti conservatori dell’Akp ma anche i nazionalisti di destra dell’Mhp, eredi del paramilitarismo fascista dei ‘Lupi Grigi’ – il governo è passato all’incasso avviando una gigantesca campagna di arresti e purghe.
Intanto gli strascichi del maldestro putsch sono durati ben oltre la ripresa del controllo da parte di Erdogan e dei suoi uomini. Alcune ore fa circa 700 soldati che si trovavano nel quartiere generale delle Forze armate di Ankara si sono spontaneamente consegnati alla polizia, mentre altri 150 sono rimasti barricati nell’edificio per trattare delle garanzie per la resa.
Purghe e arresti di massa
Si fa fatica a stare dietro alle cifre degli arresti. Finora sarebbero ben 6000 le persone arrestate, quasi tremila tra soldati e ufficiali e migliaia tra professori universitari, poliziotti, funzionari, giornalisti, esponenti politici. Tra gli arrestati anche una quarantina di generali, tra i quali ci sono personaggi influenti come Erdal Ozturk, comandante della terza armata e Adem Huditi, comandante della seconda armata di stanza a Malatya. Inoltre stamattina è stato arrestato Ozhan Ozbakir, il comandante della guarnigione di Denizli, nella parte occidentale della Turchia, e con lui 51 soldati. Nelle ultime ore un conflitto a fuoco si è verificato nel quartiere stambuliota di Besiktas dove ha sede il comando dell’intelligence.
Per tutti ovviamente l’accusa è di aver partecipato al colpo di stato dell’altro ieri o quantomeno di aver tramato insieme ai golpisti – ‘sovvertimento dell’ordine costituzionale’ – ma appare evidente che molte delle vittime del controgolpe non hanno nulla a che fare con lo sventurato tentativo di prendere il potere da parte di una parte dell’esercito. I loro nomi sono sulle liste nere di Erdogan da tempo e la rilegittimazione del ‘sultano’ ha semplicemente fornito al regime l’occasione per regolare i conti.
«Le operazioni di pulizia sono in corso. Il numero degli arrestati crescerà, potrebbe anche raddoppiare» ha avvertito stamattina il ministro della giustizia, Bekir Bozdag. Le purghe stanno prendendo di mira, oltre alle forze armate e all’apparato statale, anche e soprattutto la magistratura. Stando agli ultimi dati quasi 3000 giudici sono stati rimossi dal loro incarico, e alcuni di loro arrestati. Destituiti anche cinque membri del Consiglio superiore dei giudici e dei pubblici ministeri, organo presieduto dal ministro Bozdag e recentemente istituito da Erdogan per controllare in modo ferreo la magistratura, mentre due dei 17 membri della Corte Costituzionale, Alpaslan Altan e Erdal Tezcan, sono finiti in manette, anche loro con l’accusa di complottare insieme a Fethullah Gulen, l’imam/imprenditore ex alleato di Erdogan e da alcuni anni in rotta col capo di un regime che ha contribuito a lungo a formare e cementare prima della rottura.
Un mandato di cattura è stato spiccato inoltre nei confronti di 140 membri della Corte di cassazione e di 48 membri del Consiglio di Stato.
Da Atene intanto oggi le autorità hanno annunciato che gli otto militari turchi atterrati ieri mattina all’aeroporto greco di Alexandroupolis a bordo di un elicottero Blackhawck – già restituito ad Ankara – saranno presto estradati. Lo ha annunciato il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu dopo aver parlato con il collega greco Nikos Kotzias.
Le autorità affermano che nello zaino di uno dei comandanti della caserma della Gendarmeria di Bursa (polizia militarizzata) è stata ritrovata una lista con 400 nomi di persone che avrebbero dovuto gestire lo stato d’assedio in caso di vittoria della sollevazione militare. Nella lista ci sarebbero anche alcuni addetti militari aggregati alle ambasciate turche all’estero.
Cresce il bilancio delle vittime. Torna la pena di morte?
Tra le misure che il regime potrebbe introdurre c’è anche la pena capitale, abolita nel paese solo nel 2004. “Il parlamento turco potrebbe presto discutere l’introduzione della pena di morte per far sì che non si verifichino mai più eventi come quelli della scorsa notte” ha fatto sapere il presidente turco. Chiarendo che l’eventuale misura “non ha bisogno della sua autorizzazione” Erdogan ha sostenuto che “è un diritto di un paese democratico valutare, discutere e dibattere ogni richiesta”.
Cresce intanto il bilancio delle vittime. Secondo fonti ufficiali i morti provocati nei combattimenti scoppiati nel corso del tentativo di colpo di stato sarebbero 265, ai quali vanno aggiunti anche 1200 feriti. Tra i deceduti ci sarebbero 104 soldati golpisti uccisi negli scontri a fuoco con la polizia, i reparti lealisti dell’esercito e le milizie dell’Akp e dei Lupi Grigi. In alcuni casi le squadracce dei partiti di destra che sostengono il regime hanno letteralmente linciato i sondati catturati o arresisi alla folla, e si segnalano addirittura casi di decapitazione. Gli episodi più efferati si sono verificati nel centro di Istanbul, dopo che i soldati che avevano bloccato i ponti sul Bosforo con i loro carri armati si erano arresi alzando le braccia.
Altri 161 morti sarebbero da annoverare tra i poliziotti, i soldati e i civili presi di mira dai reparti golpisti, che in alcuni casi hanno anche sparato sulla folla che gli sbarrava la strada.
La rottura con gli Stati Uniti
Il regime, uscito estremamente rafforzato dal fallimento del tentativo di golpe, punta il dito contro gli ex alleati statunitensi. Secondo la BBC il ministro del lavoro turco ha addirittura affermato che dietro l’operazione ci possano essere gli Stati Uniti, che in effetti nelle prime concitate ore dopo l’annuncio del ‘Comitato della pace’ che coordinava gli ammutinati si sono ben guardati di prendere esplicitamente le difese del capo dello stato turco. Il membro del governo turco è stato subito ammonito dal segretario di Stato John Kerry che ha messo in guardia Ankara dal diffondere quelle che ha definito “pubbliche insinuazioni”.
Ma Ankara e Washington sono ai ferri corti e la tensione tra i due paesi rischia di salire alle stelle. La rottura tra i due paesi, che covava da alcuni anni dopo che Erdogan ha cominciato a mettersi di traverso rispetto agli interessi e ai desiderata statunitensi nella regione, è ormai consumata.
D’altronde Fethullah Gulen, che Erdogan accusa di essere a capo di uno ‘stato parallelo’ e di aver ispirato la sollevazione dei militari, vive dal 1999 proprio negli Stati Uniti, per la precisione in Pennsylvania, da dove dirige il suo impero religioso ed economico valutato in decine di miliardi di dollari.
«Non riesco a immaginare un paese che possa sostenere quest’uomo, è il leader di un’organizzazione terroristica, soprattutto dopo la scorsa notte. Un paese che lo sostenga non è amico della Turchia. Sostenerlo sarebbe persino un atto ostile nei nostri confronti» ha dichiarato il primo ministro turco, Binali Yildirim, lanciando espliciti strali contro gli Stati Uniti.
A Yildirim che ricordava di aver già inviato a Washington una richiesta di estradizione l’amministrazione Obama, ancora una volta per bocca di John Kerry, ha replicato che per sostenere una tale accusa devono produrre inconfutabili prove del coinvolgimento del leader della confraternita ‘Hizmet’ nel tentato golpe e nelle attività terroristiche che il regime turco gli addebita.
Molto tagliente, invece, la reazione del predicatore e magnate Gulen che, in una rara intervista concessa fuori dalla sua residenza a Saylorsburg, ha dato voce al pensiero di molti: “C’è la possibilità che il golpe di stato in Turchia sia stata una messa in scena per continuare ad accusare i miei sostenitori. Non penso che il mondo possa credere alle accuse del presidente Erdogan. Ora che la Turchia ha intrapreso il sentiero della democrazia non può tornare indietro”, ha affermato secondo quanto riportato dal britannico Guardian.
Ci sono ancora molti interrogativi sull’identità politica dei militari golpisti, e sembra ridimensionarsi l’ipotesi di una prevalenza nelle loro fila di elementi kemalisti, cioè nazionalisti laicisti. Escludendo questa fazione, a meno che negli ultimi anni non sia emersa una nuova fazione ribelle nei confronti del ‘Sultano’ e dei suoi disastri in politica interna ed estera, solo i gulenisti, ancora abbastanza forti negli apparati militari, giudiziari ed economici turchi, avrebbero potuto essere in grado di guidare un tentato putsch, e la smentita dello stesso Gulen, da questo punto di vista, vale quel che vale.
Secondo vari analisti però, difficilmente gli ambienti fedeli a Gulen avrebbero potuto da soli avere la forza di lanciare un assalto a Erdogan per quanto sgangherato come quello fallito in neanche quattro ore la notte del 15 luglio. E da parte sua l’esperto turco di questioni militari Burak Bekdil ha sottolineato quanto sia strano che i potentissimi servizi segreti del paese non avessero quantomeno intercettato notizie sul fatto che il piano stesse per scattare. “Una possibilità è che il Mit fosse al corrente del complotto ma che abbia lasciato fare per permettere al governo di trarne poi vantaggio politico” ha sottolineato Bekdil.
Duello Usa/Turchia sulla base aerea di Incirlik
Ma che Gulen sia o meno coinvolto nel tentativo di putsch il vero duello in corso è tra Stati Uniti e Turchia, e si incentra per ora sulla strategica base aerea di Incirlik, nel sud del paese, da dove dopo un lunghissimo braccio di ferro Washington ha ottenuto di far decollare i suoi caccia diretti a operare bombardamenti in Siria contro le postazioni dello Stato Islamico, ampiamente tollerato e finanziato invece dal regime islamista turco.
Un importante generale, Bekir Ercan Van, è stato arrestato insieme ad altri ufficiali operanti proprio nella base aerea che sorge a pochi chilometri dalla città meridionale di Adana. Il generale è stato interrogato dalla polizia e accusato di aver concesso al pilota di un caccia controllato dai golpisti di rifornirsi di carburante durante il tentativo di putsch. Come se non bastasse – a dimostrazione che il vero obiettivo sono i militari statunitensi che operano nella base accusati seppur indirettamente di aver collaborato al tentato golpe – le autorità turche hanno anche imposto il blocco totale della base aerea. «Le autorità locali impediscono i movimenti da e per Incirlik. È stata anche tolta l’energia elettrica» ha informato un comunicato ufficiale del consolato di Washington che sorge ad Adana, a circa 15 km di distanza dalla base militare.
Da parte sua, in quella che appare una esplicita ritorsione, la Federal Administration Aviation statunitense ha vietato tutti i voli a stelle e strisce da e per la Turchia, e anche qualsiasi volo verso gli Stati Uniti dalla Turchia. “Alle compagnie aree americane è vietato volare da e per gli aeroporti di Istanbul e Ankara. A tutte le compagnie aeree è vietato volare per gli Stati Uniti dalla Turchia con voli diretti o con stop” recita uno stringato ma esplicito comunicato dell’organismo governativo statunitense, mentre Obama ha convocato il Consiglio di Sicurezza Nazionale.
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