Per quanto alcuni dettagli della cronaca del golpe di ieri sera siano tutt’altro che secondari non possiamo qua lanciarci in un resoconto cronologico completo. Proveremo dunque ad effettuare una serie di considerazioni politiche e a lanciare qualche suggestione. Sembra che il colpo di stato nei confronti di Erdogan e del governo a guida AKP sia stato messo in atto da una parte dell’establishment militare preoccupato dalla possibilità di un’ennesima epurazione governativa, guidato da ufficiali destituiti lo scorso inverno. Possiamo dedurre dalle dichiarazioni della marina e dalle operazioni pro-Erdogan dell’aeronautica che l’iniziativa ha coinvolti settori specifici dell’esercito. Possiamo inoltre notare un’elevata partecipazione di ufficiali di grado inferiore, un tentativo di scalata ai vertici occupati da fedeli del Presidente. Ad oggi, 16 luglio, sono stati arrestati circa 3000 soldati: un numero non indifferente che però in relazione al numero totale dei militari turchi, rappresenta comunque una frazione minoritaria. Sempre che si tratti di soldati effettivamente coinvolti nell’impresa, e che Erdogan non abbia approfittato delle circostanze per effettuare l’ennesimo giro di vite contro i suoi oppositori politici. Alcuni, come l’ex Presidente della Repubblica, affermano che si sia trattato di un auto-golpe di Erdogan per riguadagnare una legittimità e un consenso perso con gli ultimi accadimenti soprattutto in materia internazionale, ambito nel quale dopo una serie di passi falsi nei confronti di Putin la Turchia ha creato una serie di forzature accentuando le frizioni tra Nato e Russia.
Una cosa che colpisce è che, nonostante le rivendicazioni dei golpisti si inseriscano a pieno titolo nella concezione tradizionalista kemalista che vede l’esercito quale custode ultimo della laicità e dello stato, non si riesce a capire a quale area politica interna costituita afferiscano questi militari. In poche parole, di quale appoggio interno possano aver goduto nel mettere in atto il loro piano d’azione. Tralasciando l’AKP, quando il colpo di stato sembrava riuscito praticamente tutti i partiti maggioritari al governo (MKP, MHP, CHP) hanno preso pubblicamente le distanze dai soldati in rivolta. Opportunismo o segno di una certa trasversalità rispetto ai segmenti partitici classici del bureau politico turco? Non è la prima volta che Erdogan accusa Fathullah Gulen, fondatore di uno dei più grandi movimenti socio-politici della Turchia, l’Hizmet. Questi si trova da anni sotto la protezione statunitense e rappresenta la guida politica della corrente islamista rivale a quella costituita dall’AKP, dai toni marcatamente più fedeli agli Usa e alla Nato per quanto riguarda la politica estera. Voci di corridoio lo definiscono un personaggio ambiguo estremamente facoltoso che gestisce un sistema clientelare e corrotto le cui ramificazioni attraversano lo stato turco. Potrebbe sembrare probabile, ma non certo, che il colpo di stato sia stato in qualche modo portato avanti da “gulenisti” e kemalisti ormai residuali all’interno dell’esercito, uniti nella causa contro l’Akp e l’accentramento di potere di Erdogan.
Un altro elemento di sospetto è rappresentato dall’ambiguo atteggiamento delle potenze occidentali, Usa in primis. Un paio d’ore dopo la diffusione della notizie del colpo di stato in atto, specificatamente intorno a mezzanotte, gli Stati Uniti hanno tergiversato dichiarando però di auspicarsi pace e continuità e dimostrando dunque una certa apertura. Con il passare del tempo, quando sembrava ormai chiaro che Erdogan stesse in qualche modo riprendendo il controllo, all’appello del Ministro degli Esteri russo contro un eventuale spargimento di sangue, ha fatto seguito una dichiarazione Usa di esplicito appoggio al governo costituito, cioè ad Erdogan. Così hanno cominciato ad esprimersi in tal guisa la Nato, l’UE e il resto dei paesi occidentali tra cui l’Italia: ma il silenzio e l’attendismo delle prime ore, così come la morbidezza iniziale nei confronti del colpo di stato, hanno un peso diplomatico e politico enorme. Non possiamo evitare di porci una serie di questioni. La prima riguarda la probabilità secondo cui è altamente difficile che la Nato non fosse al corrente di cosa stesse succedendo all’interno di una delle sue roccaforti medio-orientali, considerando anche il fatto che i golpisti avevano avvertito del colpo di stato le ambasciate mezz’ora prima di entrare in azione. Un altro elemento spinoso da considerare riguarda la base aerea americana di Incirlik ad Adana, nel Sud-Est del paese, e si basa su una serie di voci da verificare che però potrebbero trovare parziale conferma nelle azioni del governo turco di stamattina. Voci non confermate ma tuttavia interessanti, affermano che i velivoli utilizzati dai golpisti siano partiti proprio da questa base: risulta dunque strano, ma forse non troppo, il fatto reso noto dal Consolato americano in Turchia secondo cui le autorità turche in questo momento stiano impedendo qualunque movimento in entrata e in uscita dalla stessa e ne abbiamo tagliato la fornitura elettrica. Si tratta della stessa base da cui gli Stati Uniti lanciano le operazioni “contro” l’Isis. I toni tra la Turchia e gli Usa si stanno mantenendo piuttosto tesi: il Primo Ministro turco ha definito nemico del governo chiunque presti aiuto e supporti Gulen, il che potrebbe sembrare un’accusa all’America visto che questa ha persino rifiutato di concederne l’estradizione allo stato turco. Un altro elemento di tensione tra Usa e Turchia può essere costituito dalle forzature di Erdogan nei confronti della Russia di Putin e l’annuncio di una riapertura diplomatica nei confronti della Siria, nonostante la dichiarazione secondo cui il governo turco non è disposto a riconoscere il governo di Assad. Questi elementi potrebbero rappresentare un ostacolo o comunque un segnale di discostamento rispetto alla strategia messa in campo da Usa e petromonarchie per quanto riguarda la guerra civile siriana e non solo. Colpisce la dichiarazione del Ministro degli Esteri saudita di qualche giorno fa, il quale ha affermato che la Turchia sa bene che non può permettersi di tradire le aspettative dei “ribelli” siriani: il che, a fronte di numerose testimonianze, in pratica è quasi come dire che la Turchia non può rinunciare a sostenere il magma salafita in funzione anti-Assad e anti-curda all’interno della strategia di spartizione del medio oriente portata avanti da paesi occidentali, in parte Israele e stati arabi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in primis. Quello che è successo stanotte dunque potrebbe assumere quasi i tratti di un avvertimento sfociato in trattativa: vedremo nei prossimi giorni e nei prossimi mesi cosa comporterà tutto questo.
Un altro fenomeno che attira l’attenzione è l’evoluzione del comportamento dei media nel raccontare le vicende. Non appena Erdogan è sembrato fuori dai giochi, nel contesto in cui nessun paese si esprimeva a favore del governo in carica, i giornalisti hanno cominciato a riferirsi al Presidente della Repubblica turco definendolo “il dittatore”, evocando una narrazione tossica da primavera araba. Non perché Erdogan non sia effettivamente una minaccia per la classe lavoratrice turca e non solo, ma perché abbiamo imparato come la definizione borghese di dittatore si presti in modo opportunistico all’interpretazione del corso degli eventi in riferimento agli interessi economici del capitale. Nel momento in cui la situazione si è ribaltata paventando una vittoria di Erdogan e le principali potenze straniere, incoraggiate dalle dichiarazioni pro-governative degli Usa, hanno cominciato a emettere comunicati in sostegno delle autorità costituite, il Presidente Erdogan è tornato “semplicemente” ad essere un Presidente.
E’ con questa retorica che ora le principali testate affermano che ha vinto la democrazia, che il popolo è sceso in piazza a difendere il governo. Innanzitutto occorre puntualizzare che ieri notte in strada ci sono state manifestazioni che sarebbe difficile definire progressiste o di sinistra: coloro che si sono mobilitati ieri sono il frutto di anni di politiche di ritorno all’islamismo, di politiche repressive e coercitive, di provvedimenti economici dal taglio liberista che hanno mutato profondamente il volto della nazione. Erdogan, a quanto pare, nonostante il regime di accentramento del potere e di violazione dei diritti così come di persecuzione politica nei confronti di gran parte della popolazione, è riuscito a ritagliarsi e a mantenere una base di consenso su cui fare affidamento con cui probabilmente i golpisti non avevano fatto i conti. Chi ha manifestato ieri notte rappresenta lo zoccolo duro di quella società turca che in qualche modo ha beneficiato delle politiche di governo degli ultimi anni, le stesse che hanno escluso una grande fetta di popolazione attraversata da quelle contraddizioni che hanno poi portato alle contestazioni di Piazza Taksim. Due piazze metaforiche ben diverse in quanto a composizione politica e umana, diversamente rappresentative della società o per meglio dire rappresentative di diverse fette della società: in queste ultime ore assenti le sinistre e i progressisti, assenti le donne.
Per concludere, negli avvenimenti relativi a questo colpo di stato un protagonismo e una presa di coscienza popolare a favore della classe lavoratrice non ha avuto spazio. Che il golpe fosse riuscito o meno, non vi sarebbe stato un miglioramento per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori e ora che Erdogan ne uscirà rafforzato da tutto questo, men che mai. E’ importante mantenere un’ottica di classe per leggere quello che è successo in queste ultime ore e quello che succederà nei prossimi giorni in modo da non limitare l’interpretazione dello stato di cose presenti: in Turchia non esistono solo i curdi, sebbene questi rappresentino uno dei fattori determinanti attorno cui si articolano la questione di classe e il conflitto capitale-lavoro. E’ bene tenerlo a mente.
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