In una cittadina del New Jersey, Paterson, scorre monotona la vita di
una coppia, autista di autobus lui, casalinga lei.
Paterson (che è
anche il nome del protagonista) passa le sue giornate sempre uguali
trovando l’unico momento d’evasione nelle poesie che scrive nei ritagli
di tempo. La moglie, Laura, impiega la noia quotidiana cucinando
biscotti, arredando il salotto, imparando nel frattempo a suonare la
chitarra tramite un corso accelerato in dvd. Ogni giorno segue identico,
anonimo eppure impreziosito dai piccoli incontri quotidiani del
protagonista. In apparenza poco stimolante, Jarmusch ci regala un
intelligente film sull’alienazione umana, antiretorico e volutamente
anti-epico. L’indagine sull’alienazione piccolo borghese è uno dei topos
letterari e cinematografici moderni.
Eppure qui siamo lontani tanto dal linguaggio surrealista à la Buñuel, tanto dall’iperrealtà di Dillinger è morto di Ferreri, quanto, infine, dalla comicità à la Tatì di Playtime (tre
registi che hanno fatto dell’alienazione piccolo-borghese la traccia
del proprio discorso artistico). Il regista statunitense utilizza un
minimalismo esasperato, ma non esasperante. Emerge così un racconto
dell’alienazione non forzato ma proprio per questo più convincente. Il
risultato è il vuoto esistenziale che circonda la vita dell’americano
medio, disperato perché senza orizzonti alternativi, costretto a vivere
la quotidianità come massimo obiettivo praticabile. La monotonia viene
riempita dall’insopportabile moglie secondo il manuale della perfetta
casalinga colma di disperata soddisfazione: vendere biscotti al mercato
cittadino è il massimo risultato raggiungibile, festeggiato come
traguardo, proprio perché nei fatti questo rappresenta nella vita dell’american dream. Ma
mentre l’alienazione della moglie è volta alla massima integrazione in
un modello di vita mercificato, le poesie di Paterson ne rappresentano
al contrario un tentativo d’evasione. In questo senso, sebbene
mortificato e mortificante, il protagonista conserva un margine
d’umanità, che gli consente di sognare qualcosa invece di subire “sogni”
indotti dalle relazioni sociali dominanti. Una vita inutile, insomma,
da cui Paterson prova (inconsciamente) a fuggire scrivendo poesie. Fino
al piccolo evento finale che potrebbe modificare non tanto il “corso
degli eventi”, quanto la percezione di sé del protagonista. Non è detto,
e infatti il film non offre soluzioni finali, quanto un’opaca speranza.
Certo, non si può gridare al capolavoro. Ma l’intelligenza con cui
Jarmusch tiene in equilibrio le redini di una non storia va apprezzata,
perché sedimenta, alla fine, una consapevolezza della vita nelle società
post-moderne. La non storia è, in fondo, la sineddoche di una non vita,
quella di chi non ha altro da chiedere al proprio avvenire che la
monotonia del presente.
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