di Michele Paris
Il clamoroso licenziamento del ministro della Giustizia (“Attorney
General”) ad interim, Sally Yates, da parte del presidente Donald Trump
nella serata di lunedì è finora il più grave segnale dello scontro
interno all’apparato di potere americano scatenato dalle prime
iniziative della nuova amministrazione Repubblicana. L’acuirsi di questo
conflitto è stato registrato dopo la firma del decreto presidenziale
che a partire da venerdì scorso ha sospeso l’ingresso negli Stati Uniti
di immigrati e rifugiati originari di sette paesi a maggioranza
islamica, provocando immediate proteste in tutto il mondo.
La
Casa Bianca ha sollevato dall’incarico Sally Yates dopo il suo rifiuto
ufficiale di difendere l’ordine esecutivo sullo stop ai migranti nelle
aule di tribunale dove sarà discusso in seguito alle istanze presentate
da svariati stati americani e da organizzazioni a difesa dei diritti
civili.
Nonostante l’ufficio legale del dipartimento di Giustizia
avesse approvato il decreto di Trump per quanto concerneva “il rispetto
della forma e della legalità”, la Yates aveva espresso le proprie
riserve, ricordando le responsabilità del suo ufficio nel “garantire che
le posizioni prese nei tribunali siano coerenti con il dovere di
perseguire la giustizia e ciò che è giusto”.
Com’è noto, Sally
Yates era stata nominata vice ministro della Giustizia da Obama nel 2015
e all’indomani dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca il nuovo
presidente le aveva chiesto di guidare provvisoriamente il dipartimento
in attesa della ratifica da parte del Senato della nomina del senatore
di estrema destra dell’Alabama, Jeff Sessions.
La presa di
posizione della Yates è stata criticata e giudicata come esclusivamente
“politica” dai repubblicani e dai media conservatori. A loro dire, il
ministro reggente non solo aveva l’obbligo di rispettare e difendere le
decisioni dell’esecutivo, ma la sua iniziativa ha avuto il preciso scopo
di trasformare la Yates in una sorta di eroe “liberal”. Infatti, il
licenziamento è giunto solo una manciata di giorni prima di un addio al
dipartimento di Giustizia che avrebbe inevitabilmente seguito l’arrivo
del nuovo ministro Sessions.
Al posto di Sally Yates è stato
comunque insediato già lunedì sera il procuratore del distretto
orientale della Virginia, Dana Boente, anch’egli nominato da Obama ma
subito affrettatosi a garantire il suo impegno a difendere quelli che ha
definito i decreti “legali del nostro presidente”.
La serietà
della vicenda è confermata dall’estrema rarità di provvedimenti come
quello preso da Trump nei confronti del ministro della Giustizia ad
interim. L’ultimo caso paragonabile risale al cosiddetto “massacro del
sabato sera” dell’ottobre del 1973 nell’ambito dello scandalo Watergate.
In
quell’occasione, il presidente Nixon aveva costretto alle dimissioni il
ministro della Giustizia, Eliot Richardson, per essersi rifiutato di
licenziare il procuratore speciale, Archibald Cox, colpevole di avere
ordinato alla Casa Bianca la consegna dei nastri con le registrazioni
delle conversazioni nello Studio Ovale per fare luce sul Watergate.
Al
posto di Richardson venne nominato il suo vice, William Ruckelshaus, ma
anche quest’ultimo si rifiutò di eseguire l’ordine di Nixon, finendo
anch’egli licenziato. Solo il numero tre del dipartimento di Giustizia,
Robert Bork, avrebbe alla fine allontanato Cox, senza evitare tuttavia
l’aggravamento della posizione del presidente e i procedimenti di
impeachment che avrebbero portato alle sue dimissioni nell’agosto del
1974.
Per quanto riguarda la vicenda attuale, non vi sono ragioni
per mettere in discussione la sincerità delle preoccupazioni di Sally
Yates per la legalità della misura ultra-reazionaria decisa da Trump.
Tuttavia, le celebrazioni del suo operato da parte di attivisti e stampa
“progressista” sono per lo meno fuori luogo.
La
Yates ha fatto parte, sia pure per un limitato periodo di tempo, di un
dipartimento di Giustizia che ha avallato, tra l’altro, le operazioni di
sorveglianza di massa dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) e
le deportazioni, anch’esse di massa fino a toccare numeri da record, di
immigrati “illegali”.
Proprio le iniziative di Obama nell’ambito
della lotta all’immigrazione e del controllo delle frontiere, d’altra
parte, Trump ha indicato come punto di partenza della sua escalation
concretizzatasi con i decreti dei giorni scorsi.
Inoltre, la
ragione principale per cui Sally Yates era rimasta al dipartimento di
Giustizia dopo il 20 gennaio era la necessità della nuova
amministrazione di avere un funzionario approvato nel suo incarico dal
Senato e con l’autorità perciò di approvare le richieste di sorveglianza
e intercettazione presentate dalla NSA e da altre agenzie governative.
La
Yates aveva accettato di buon grado questo ruolo, così come, ad
esempio, nel luglio del 2015 aveva testimoniato davanti alla commissione
Giustizia del Senato con il direttore dell’FBI, James Comey, auspicando
la creazione di un qualche meccanismo per consentire al governo di
penetrare le comunicazioni criptate degli utenti privati che utilizzano
dispositivi elettronici.
Soprattutto, al di là delle convinzioni
personali di Sally Yates, la sua volontà di sfidare Trump riflette le
posizioni di quella consistente sezione dell’apparato di potere
statunitense allarmata dall’evoluzione della nuova amministrazione. Le
preoccupazioni, in questo caso, sono però di natura diversa da quelle
che stanno animando le manifestazioni popolari anti-Trump in molte città
americane e non solo.
Esse hanno a che fare con il timore che
l’adozione di politiche apertamente razziste e xenofobe compromettano da
un lato ciò che resta dell’immagine degli USA come modello democratico,
e, dall’altro, i piani e le operazioni militari nelle aree del globo a
maggioranza musulmana, con possibili riflessi negativi sull’intera
strategia egemonica dell’imperialismo a stelle e strisce.
Le
ansie provocate dalle misure estreme di Trump sugli immigrati si
accompagnano a quelle da tempo espresse da molti per le tendenze
isolazioniste e di impronta fortemente nazionalista della Casa Bianca,
per non parlare dell’attitudine troppo accomodante nei confronti della
Russia di Putin.
Molte di queste posizioni fanno capo con ogni
probabilità alla figura più estrema della nuova amministrazione, il
neo-fascista ex Goldman Sachs ed ex direttore del sito web di
ultra-destra Breitbart News, Stephen Bannon, nominato da Trump “capo
stratega” e consigliere del presidente. Proprio il ruolo di Bannon è al
centro di pressioni, critiche e polemiche, espresse da settimane sui
media ufficiali che riflettono solitamente l’opinione delle varie
fazioni dei poteri forti americani.
Lo
stesso Bannon è stato protagonista di una recente decisione da parte di
Trump che ha ulteriormente alimentato l’opposizione interna agli organi
di governo americani. Il giorno successivo alla firma del decreto sugli
immigrati e richiedenti asilo, da cui sarebbe nata la vicenda di Sally
Yates, il neo-presidente ha disposto la presenza di Bannon alle riunioni
del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca. La mossa è
quasi senza precedenti e conferma il peso che avrà questo consigliere
nel processo decisionale dell’amministrazione Trump virtualmente in
tutti gli ambiti.
La presenza di Bannon potrebbe avere
conseguenze non indifferenti sui rapporti con il presidente dei vertici
militari e dell’intelligence, la cui presenza è di solito dominante nel
Consiglio. Tanto più che, in parallelo alla promozione di Bannon, Trump
ha deciso di ridimensionare drasticamente il ruolo del direttore
dell’Intelligence Nazionale e del Capo di Stato Maggiore in quello che è
a tutti gli effetti il principale organo dell’esecutivo
nell’elaborazione delle politiche relative agli affari esteri e alla
sicurezza nazionale.
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