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01/02/2017

Unicredit e così sia

A chi segue l’informazione finanziaria non sarà sfuggito il parere positivo di diversi analisti sul Guardian, prima di Natale, rispetto alla ricapitalizzazione di Unicredit. A parte i consueti giochi sull’effetto annuncio che rende appetibile un titolo, Unicredit è considerato un istituto di credito sistemico, il classico troppo grande per fallire. Per cui, in caso di seria crisi, ci sono sempre porzioni di stato sociale, di welfare, di beni pubblici da vendere all’incanto per salvare Unicredit. In poche parole chi sa investire nell’aumento di capitale di Unicredit, gestire le fluttuazioni del titolo, e magari anche influenzarne il Cda perchè ci mette i soldi da pezzo grosso, troverebbe delle garanzie sufficienti. Garanzie che diamo noi, tanto per capirsi.
 
A quasi due mesi dalle analisi sul Guardian qualcosa però è cambiato. Non tanto per il precipitare della crisi del Monte dei Paschi, per l’incertezza in cui versano diversi istituti di credito nel nostro paese tra cui, appunto, Unicredit. Banca che non ha visto deteriorare il proprio valore azionario come Monte dei Paschi, che ha perso quasi il 100% in dieci anni, ma che ha registrato significative perdite nei giorni scorsi. Il motivo è chiaro: la notizia di una significativa perdita di esercizio (oltre 11 miliardi) al di là delle aspettative per il bilancio 2016. La Bce a quel punto ha parlato chiaro o con la ricapitalizzazione, oltre alla vendita di diversi asset, Unicredit si rimette in pista entro la fine di febbraio o sarà bail-in. Tradotto in italiano: quello che abbiamo visto con la crisi di Banca Etruria, con i risparmiatori che fanno proteste infinite, moltiplicato per le dimensioni di un colosso che rappresenta la dodicesima banca europea, che possiede la quinta banca tedesca per capitalizzazione, operando in oltre venti paesi.

Ovviamente il problema di Unicredit è comune alle principali banche italiane. Si chiama crediti deteriorati, effetto delle crisi, di imprese fallite, di bancarotte di ogni genere, di ingegnerie finanziarie andate a male. Un decennio in cui l’Italia ha lasciato sul campo 10 punti di Pil non poteva non depositarsi sulle banche. Istituzioni di credito che già vivono problemi strutturali, corrose dalle innovazioni tecnologiche, dai bassi tassi di interesse e dalla concorrenza del sistema bancario ombra e da nuovi prodotti di credito. E si che Unicredit ha passato, con perdite, la crisi del 2008 e quella del debito sovrano del 2012 (arrivando anche a perdere il 63% per ogni azione). Passerà anche questa fase. Come capita ai troppo grandi per fallire. Ma bisognerà vedere cosa accadrà dopo e chi sarà che comanda nella banca.

Infatti sono in diversi a scommettere che Société Générale, la quinta banca europea per capitalizzazione, farà la parte del leone nell’operazione di ricapitalizzazione. Se sarà così il risultato sarà quello di aver un gruppo francese che investe in Italia avendo in testa la stessa strategia che Unicredit ha nei confronti dell’Austria e della Germania: rastrellare fondi per le esigenze della casa madre. Per non dire che Société Générale sa cosa vuol dire la finanza di ventura avendo dovuto ricorrere a quasi 4 miliardi di crediti dallo stato francese per essersi scottata con i subprime nel 2008. Insomma, Unicredit è oggi una banca sistemica per l’Italia che si candida, per domani, ad essere sistemica per qualcos’altro. Oppure sarà pagata da noi, chiamati dalla costituzione reale a “soccorrere” gli istituti sistemici. E sarà pagata con minor assistenza, scuola, sanità etc.

Il punto è che la politica bancaria è scomparsa, gli istituti di credito sono in preda ad una crisi di produzione di valore e ad una ristrutturazione epocale, le banche devono sopravvivere e lo fanno sganciandosi dalle esigenze riproduttive della società. Facendo anche pagare l’eventuale conto a quest’ultima. Quanto alle soluzioni, c’è da starne certi, non avverranno né con questo governo né con il prossimo qualsiasi colore esso assuma. Passeranno dalle borse, dalle operazioni speculative, dai grandi investitori e dai fallimenti. Così è finché non cambia.

Redazione, 31 gennaio 2017

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