A chi segue
l’informazione finanziaria non sarà sfuggito il parere positivo di
diversi analisti sul Guardian, prima di Natale, rispetto alla
ricapitalizzazione di Unicredit. A parte i consueti giochi sull’effetto
annuncio che rende appetibile un titolo, Unicredit è considerato un istituto di credito sistemico, il classico troppo grande per fallire.
Per cui, in caso di seria crisi, ci sono sempre porzioni di stato
sociale, di welfare, di beni pubblici da vendere all’incanto per salvare
Unicredit. In poche parole chi sa investire
nell’aumento di capitale di Unicredit, gestire le fluttuazioni del
titolo, e magari anche influenzarne il Cda perchè ci mette i soldi da
pezzo grosso, troverebbe delle garanzie sufficienti. Garanzie che diamo noi, tanto per capirsi.
A
quasi due mesi dalle analisi sul Guardian qualcosa però è cambiato. Non
tanto per il precipitare della crisi del Monte dei Paschi, per
l’incertezza in cui versano diversi istituti di credito nel nostro paese
tra cui, appunto, Unicredit. Banca che non ha visto deteriorare il
proprio valore azionario come Monte dei Paschi, che ha perso quasi il
100% in dieci anni, ma che ha registrato significative perdite nei
giorni scorsi. Il motivo è chiaro: la notizia di una significativa
perdita di esercizio (oltre 11 miliardi) al di là delle aspettative per
il bilancio 2016. La Bce a quel punto ha parlato chiaro o con la
ricapitalizzazione, oltre alla vendita di diversi asset, Unicredit
si rimette in pista entro la fine di febbraio o sarà bail-in. Tradotto
in italiano: quello che abbiamo visto con la crisi di Banca Etruria, con
i risparmiatori che fanno proteste infinite, moltiplicato per le
dimensioni di un colosso che rappresenta la dodicesima banca europea, che possiede la quinta banca tedesca per capitalizzazione, operando in oltre venti paesi.
Ovviamente
il problema di Unicredit è comune alle principali banche italiane. Si
chiama crediti deteriorati, effetto delle crisi, di imprese fallite, di
bancarotte di ogni genere, di ingegnerie finanziarie andate a male. Un
decennio in cui l’Italia ha lasciato sul campo 10 punti di Pil non
poteva non depositarsi sulle banche. Istituzioni di credito che già
vivono problemi strutturali, corrose dalle innovazioni tecnologiche, dai
bassi tassi di interesse e dalla concorrenza del sistema bancario ombra
e da nuovi prodotti di credito. E si che Unicredit ha passato, con
perdite, la crisi del 2008 e quella del debito sovrano del 2012
(arrivando anche a perdere il 63% per ogni azione). Passerà anche
questa fase. Come capita ai troppo grandi per fallire. Ma bisognerà
vedere cosa accadrà dopo e chi sarà che comanda nella banca.
Infatti
sono in diversi a scommettere che Société Générale, la quinta banca
europea per capitalizzazione, farà la parte del leone nell’operazione di
ricapitalizzazione. Se sarà così il risultato sarà quello di
aver un gruppo francese che investe in Italia avendo in testa la stessa
strategia che Unicredit ha nei confronti dell’Austria e della Germania:
rastrellare fondi per le esigenze della casa madre. Per non dire che
Société Générale sa cosa vuol dire la finanza di ventura avendo dovuto
ricorrere a quasi 4 miliardi di crediti dallo stato francese per essersi
scottata con i subprime nel 2008. Insomma, Unicredit è oggi una banca
sistemica per l’Italia che si candida, per domani, ad essere sistemica
per qualcos’altro. Oppure sarà pagata da noi, chiamati dalla
costituzione reale a “soccorrere” gli istituti sistemici. E sarà pagata
con minor assistenza, scuola, sanità etc.
Il
punto è che la politica bancaria è scomparsa, gli istituti di credito
sono in preda ad una crisi di produzione di valore e ad una
ristrutturazione epocale, le banche devono sopravvivere e lo fanno
sganciandosi dalle esigenze riproduttive della società. Facendo
anche pagare l’eventuale conto a quest’ultima. Quanto alle soluzioni,
c’è da starne certi, non avverranno né con questo governo né con il
prossimo qualsiasi colore esso assuma. Passeranno dalle borse, dalle
operazioni speculative, dai grandi investitori e dai fallimenti. Così è
finché non cambia.
Redazione, 31 gennaio 2017
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