Le recenti parole di Angela Merkel sulla presunta fine della
relazione speciale tra Stati Uniti e Unione europea non devono essere
esagerate nella loro importanza, ma neanche sottovalutate. A differenza
dell’Italia o della Ue genericamente intesa, la Germania ha una sua
strategia di medio periodo. Una visione – proprio perché strategica –
capace di tenere insieme l’aspetto economico con quello politico e
militare. Delle due frasi riportate su ogni giornale, tutti si sono
concentrati sulla prima («I tempi in cui potevamo contare pienamente su
altri sono in una certa misura finiti», riferendosi agli Usa), mentre è
la seconda parte ad essere rilevante: «Noi europei dobbiamo veramente
prendere il nostro destino nelle nostre mani». Due fatti contribuiscono a chiarire il senso complessivo di queste parole. Il primo, economico. Su L’Economia, inserto economico del Corriere della Sera, Giuseppe
Bono – ad di Fincantieri – svela la necessità produttiva che soggiace
al progetto di costruzione europeista: «Abbiamo fatto quello che si
dovrebbe mettere in atto in tanti altri settori [Fincantieri ha appena
acquisito il controllo, salvo ritorsioni dell’ultima ora, dei cantieri
navali di Saint-Nazaire in Francia, divenendo il più importante gruppo
cantieristico navale d’Europa]. Per reggere l’urto della competizione
con americani e asiatici dobbiamo consolidare, non c’è altra strada. E’
possibile, ad esempio, che in Europa ci siano in attività 68 compagnie
telefoniche mentre gli Usa e la Cina ne hanno tre ciascuno? […] Le
navi di cui parliamo costano un miliardo e ad esercitare il massimo
potere negoziale sono gli armatori, non chi le realizza materialmente. E
allora dico che, saltato il trattato di libero scambio con gli Usa, dobbiamo darci una strategia alternativa. Servono campioni europei. […] E del resto nell’auto con Opel-Peugeot non è successo proprio questo?».
In corsivo abbiamo evidenziato i passaggi decisivi del discorso.
Dall’interno della borghesia transnazionale europea ci si accorge di un
fatto: mentre negli Usa e in Cina la concentrazione dei capitali ha
raggiunto il livello di saturazione (almeno in alcuni settori
determinanti), in Europa i capitali sono ancora relativamente dispersi.
Detto altrimenti, fino a quando anche in Europa – quantomeno
nell’Eurozona – non ci saranno tre sole compagnie telefoniche in vece
delle attuali 68, il processo di concentrazione avrà la meglio sulle
resistenze ad esso. In Europa c’è uno spazio capitalistico che altrove
non c’è, o perché non ancora disponibile, o perché giunto al livello
massimo di saturazione. Il discorso ovviamente vale per tutto il resto
del panorama produttivo: impossibile, altro esempio, un mercato unico
dove sono presenti come adesso decine di case automobilistiche diverse.
Anche nel caso delle auto, la concentrazione non è solo un dato ormai
manifesto, ma sarà sempre di più la tendenza del futuro: ve li
immaginate gli Usa con venti o trenta produttori automobilistici diversi
e concorrenti? Il più forte, inevitabilmente, fagociterebbe il più
piccolo. Cosa che è avvenuta in America e che sta avvenendo in Europa,
come rammenta Bono: «nell’auto con Opel-Peugeot non è successo proprio
questo?».
In alcune circostanze la concentrazione massima è stata raggiunta o
sta per raggiungersi (pensiamo ai settori della logistica e della
distribuzione – Auchan o Carrefour, per dire; o alle reti autostradali, con la recente proposta di acquisto di Atlantia (Benetton) nei confronti di Abertis
(la società gestrice spagnola) da cui nascerebbe il leader mondiale del
settore). In altre c’è ancora molto spazio disponibile (l’automotive, i
trasporti, i media, le banche, eccetera). Quello spazio delinea la
necessità dei capitali privati di unificare il mercato europeo, perché
nella competizione globale le “68 compagnie telefoniche” non potranno
mai reggere le economie di scala e la valorizzazione capitalistica delle
tre compagnie continentali americane o asiatiche. Il capitalismo
europeo credeva di governare questa fase con il trattato di libero
scambio con gli Usa, il Ttip, aprendo le porte del mercato statunitense
alle aziende continentali. Fallito il quale, come ricorda Bono,
«dobbiamo darci una strategia alternativa: servono dei campioni
europei». E’ da questo punto di vista che vanno interpretate le parole
di Angela Merkel, che potrà starci antipatica ma che esprime
coscientemente il punto di vista della grande borghesia tedesca:
«dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani». Tradotto,
dobbiamo costruire un capitalismo continentale in grado di reggere la
competizione globale, dobbiamo cioè concentrare le risorse
economico-finanziarie, consolidare i settori industriali, spezzando
l’atomizzazione produttiva.
Questa necessità non ha possibilità di realizzazione fintanto che
permarrà la dipendenza militare dell’Unione europea nei confronti degli
Usa. Il destino da prendere nelle nostre mani passa anche dalla
ritrovata autonomia militare. Questo in Germania lo hanno chiaro da
tempo, ed è il secondo fatto che chiarisce il significato delle parole
della presidente tedesca. Da circa un anno Germania e Olanda hanno messo in comune gli eserciti.
Che, tradotto, significa che la Germania ha inglobato l’esercito (parte
di esso almeno) olandese. E’ un fatto a suo modo epocale, perché se
l’esercito nazionale rappresenta, volente o nolente, uno degli emblemi
della sovranità statuale, la cessione di questo strumento ad un altro
Stato descrive la dispersione di sovranità presente oggi nel contesto
europeo. Il programma però è andato avanti. Tre mesi fa anche gli eserciti di Romania e Repubblica Ceca
sono stati integrati nell’esercito tedesco. Al punto che oggi, senza
alcun clamore mediatico né dibattito pubblico, senza neanche quel
rispetto per la storia che pure dovrebbe manifestarsi quando si parla di
riarmo tedesco, la Germania di fatto governa gli eserciti di quattro
paesi. Ma nonostante il dato, più simbolico che davvero incisivo, ma
comunque dirompente, di un esercito europeo in via di costituzione
“informale”, rimane il fatto che senza l’atomica nessun esercito europeo
verrebbe preso sul serio o puntare a quell’autonomia dagli Usa e dalla
Nato che vagheggiano alcuni politici e imprenditori europei. L’atomica
nella Ue ce l’ha la Francia, ed è questo fatto a svelare il senso
ulteriore delle parole della Merkel: «dobbiamo veramente prendere
il nostro destino nelle nostre mani». Ossia: la necessità produttiva
che sta alla base della costruzione europeista deve dotarsi dell’arma
atomica, la Francia deve integrarsi nell’esercito europeo in via di
formazione mettendo a disposizione le sue capacità nucleari.
Senza deterrente atomico ogni progetto di reale indipendenza europea
va scontrandosi con i rapporti materiali che la vedrebbero subalterna
alle strategie di Usa, Cina e Russia. La politica tedesca mira
esattamente a dotare la Ue di questa concreta autonomia, che è una
necessità economica fondata sulla sovranità militare. Una traiettoria,
questa, che implica tempi lunghi, ovviamente. Ma è proprio questo che
differenzia l’attuale politica tedesca dal resto del continente: ha una
strategia di lungo respiro e metterà in campo tutta la sua forza
economica per attuarla.
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