Sono rimasti pochi presìdi credibili, nelle istituzioni italiane. Credibili per i partner e i mercati internazionali, ossia per l’Unione Europea, la Bce, il Fondo Monetario Internazionale, la banca Mondiale, gli Stati più solidi, ecc.
Tra questi presìdi, il più importante è certamente la Banca d’Italia, storica scuola di manager economici di grande livello tecnico, dunque spesso riserva strategica in cui pescare ministri o presidenti del Consiglio quando la crisi politica supera i livelli di guardia e degenera in paralisi. Guido Carli alla presidenza di Confindustria e Carlo Azeglio Ciampi a Palazzo Chigi sono solo gli esempi più noti.
Palazzo Koch è rimasto un esempio di cosa dovrebbe essere un’istituzione pubblica anche a dispetto del suo azionariato, ormai del tutto privato. Non sono infatti molti a sapere, e tanto meno a scrivere, che la Banca d’Italia è un “istituto di diritto pubblico” il cui pacchetto di controllo – fino al 2006 – doveva essere detenuto da soggetti pubblici. E tali erano prima d’allora le cinque banche di “interesse nazionale” (sostanzialmente pubbliche) che possedevano le quote di maggioranza. Ma con la privatizzazione totale delle cinque “Bin”, di fatto, sono soltanto le banche private a controllare l’azionariato (IntesaSanPaolo ha da sola il 30,3% , Unicredit il 22,1, tutti gli altri partecipanti quote irrilevanti o quasi). Ciò nonostante, Bankitalia è rimasta una fucina di competenze senza eguali nell’asfittico panorama italiano.
Premessa lunga, ma necessaria per affrontare la partita che si sta giocando intorno a via XX Settembre e sul merito delle rituali “Considerazioni finali” lette ieri dal governatore, Ignazio Visco.
Il quale ha fatto il punto delle criticità che zavorrano la capacità del sistema-paese di afferrare il vento di “ripresina” che caratterizza l’attuale congiuntura internazionale, peraltro minacciata seriamente dal “ritorno alla normalità” in materia di tassi di interesse praticati da Federal Reserve staunitense e Bce, in primo luogo.
Il suo “suggerimento” di politica di bilancio è ovviamente lacrime e sangue: tre anni di manovre finanziarie pari all’1,5% del Pil (25 miliardi circa) e un avanzo primario (rapporto entrate/uscite dello Stato, prima di calcolare gli interessi sul debito pubblico) pari al 4% annuo, da dedicare integralmente alla riduzione del debito pubblico. Un abbattimento magari minimo, ma in grado di dare “ai mercati” il segnale che da ora in poi l’Italia è avviata sulla “strada giusta”.
Ha detto anche altro, naturalmente, come la necessità di concentrarsi sulla creazione di posti di lavoro, perché dal suo osservatorio scientificamente privilegiato vede benissimo che la dinamica sociale disegnata dalle statistiche ufficiali non corrisponde affatto a quella reale, e che le misure “spot” dell’epoca renziana non hanno affatto migliorato il quadro.
Un discorso coerente con l’azione svolta in questi anni, anche in materia di vigilanza bancaria, rivendicata da Visco come assolutamente in linea con i compiti istituzionali e gli strumenti a sua disposizione. Una difesa che a tutti è apparsa come una risposta alle critiche di stampa – e soprattutto di Renzi – a proposito dei numerosi fallimenti degli ultimi anni (da Banca Etruria fin alle prossime, VenetoBanca e Popolare Vicenza); ed anche un’accusa diretta ai cda di questi istituti, che avrebbe spesso consapevolmente truffato soci e correntisti (specie sui titoli obbligazionari).
In pratica, Visco ha ricordato ai suoi critici che la Vigilanza può intervenire solo quando i problemi di gestione delle singole banche private cominciano a diventare evidenti, altrimenti sarebbe come pretendere che Palazzo Koch si sostituisse ai vari cda nella gestione ordinaria (naturalmente si può sempre far notare che l’intervento della Vigilanza sia stato in qualche caso particolarmente tardivo, ma è un rilievo secondario, e che non può essere seriamente sollevato più di tanto da chi – come noi – “non conosce le carte”).
Ma la questione decisiva è in questo momento un’altra. Le critiche a Visco sono state fin qui “spinte” soprattutto dai renziani, che mal hanno sopportato un Governatore – durante i tre anni di protagonismo del giglio magico – restio a unirsi al coro dei laudatori, distillando semmai frequenti osservazioni critiche su singole scelte di Renzi in materia di politica economica. Critiche ancora più nette pronunciate ieri, senza far nomi, in pieno stile istituzionale, come l’invito alla classe politica a confrontarsi su “programmi chiari, ambiziosi saldamenti fondati sulla realtà”. Anziché sulle promesse un tanto al chilo per comprare consenso elettorale.
Visco è a fine mandato, dunque potrebbe sembrare lo sfogo di chi non ha più nulla da perdere. Ma davanti a lui, in platea, per la prima volta nella storia, c’era anche il presidente della Banca Centrale Europea, ovvero il suo predecessore nella carica di Governatore e il suo “superiore in grado” nell’architettura sovranazionale. E tutti – ma proprio tutti, tranne Repubblica – hanno capito che questa presenza inconsueta era di fatto un appoggio esplicito “dell’Europa” all’ipotesi di riconferma.
L’esatto contrario di quel che Renzi vorrebbe, come sempre tentato dalla voglia di fare un colpo di teatro, favorendo la nomina di un personaggio che non abbia una “storia interna” alla Banca d’Italia. Come aveva provato a fare Giulio Tremonti proponendo Bini Smaghi, per uscire sconfitto pesantemente.
I poteri sovranazionali, insomma, hanno tenuto a dire che si fidano di Bankitalia ma non della classe politica italiana, fanfarona, arraffona, dilettante e piaciona.
Il ritorno di Renzi a Palazzo Chigi, visto da lassù, non è affatto una buona notizia. E hanno cominciato a mettere paletti visibili. Se poi davvero si dovessero sciogliere le Camere, e andare al voto a ottobre, avremmo un solo risultato certo: la “legge di stabilità”, contenente la manovra per il prossimo anno, verrà scritta a Bruxelles e Francoforte. Con il sistema elettorale in via di definizione, infatti, sarà necessario un certo periodo di “elaborazione” per arrivare a un governo di coalizione tra lo stesso Renzi e Berlusconi. Quanto di peggio possono immaginare ai piani alti della Troika...
Un periodo di interregno in cui, a scanso di equivoci, è preferibile poter contare su presìdi credibili, al riparo degli impazzimenti di peones in cerca di una poltrona e di qualche prebenda con cui nutrire le clientele...
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