di Michele Paris
Nella logica dell’escalation del confronto promossa dagli Stati Uniti
come unica soluzione alla crisi nella penisola di Corea, mercoledì le
forze armate americane hanno condotto una nuova esercitazione con i
militari sudcoreani in risposta al forse cruciale test missilistico
condotto dal regime di Pyongyang in concomitanza con i festeggiamenti
del 4 luglio a Washington.
L’operazione congiunta dei due alleati
ha visto il lancio di missili balistici dalla costa orientale della
Corea del Sud, accompagnato da dichiarazioni particolarmente minacciose
da parte di entrambi i governi. Il presidente sudcoreano, Moon Jae-in,
ha spiegato che Seoul e Washington dovevano mostrare le proprie capacità
“difensive con le azioni e non solo con le parole”.
I vertici
delle forze USA di stanza in Corea del Sud sono stati ancora più
espliciti, avvertendo che mercoledì si è avuta la dimostrazione delle
capacità dell’alleanza di colpire con precisione “qualsiasi obiettivo in
qualsiasi condizione atmosferica”.
La reazione americana al test
missilistico nordcoreano di martedì era stata proporzionata a quello
che il governo di Washington e la maggior parte dei media ufficiali
hanno definito un evento destinato a cambiare gli equilibri dello
scontro nella penisola di Corea.
Il missile nordcoreano
Hwasong-14 aveva seguito una traiettoria prevalentemente in altezza
prima di precipitare nel Mare del Giappone ma, se proiettata verso un
bersaglio reale, avrebbe consentito all’ordigno di raggiungere una
distanza superiore ai 6.500 km, entro la quale si collocano l’Alaska e
le Hawaii, anche se non gli Stati Uniti continentali.
L’ostentazione
da parte di Pyongyang del presunto ottenimento delle capacità tecniche
per armare con una testata atomica un missile intercontinentale in grado
di colpire ovunque nel mondo e per consentire a quest’ultimo il rientro
in atmosfera hanno poi fatto il resto nel creare un clima di isteria e
le condizioni per un possibile attacco militare americano.
Il
drammatico aumento delle tensioni sulla Corea del Nord si inserisce
inoltre in un clima già inasprito dalle recenti iniziative
dell’amministrazione Trump, dirette soprattutto contro la Cina.
Nell’ultima settimana la Casa Bianca aveva autorizzato una fornitura di
armi a Taiwan, una “visita” di una nave da guerra americana all’interno
del limite territoriale di un’isola controllata da Pechino nel Mar
Cinese Meridionale e sanzioni punitive contro alcune banche cinesi che
fanno affari con Pyongyang.
In previsione di una riunione di
emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, richiesta da
Washington per mercoledì, il segretario di Stato USA, Rex Tillerson, ha
chiesto poi una “azione globale” contro la Corea del Nord, mentre ha
minacciato qualsiasi paese fornisca aiuti di ogni genere al regime di
Kim Jong-un o si rifiuti di implementare le risoluzioni ONU.
Al
Palazzo di Vetro, l’ambasciatrice americana Nikki Haley ha detto che il
suo paese è pronto a usare la forza per fermare la minaccia nordcoreana,
anche se rimane preferibile la strada della diplomazia. Gli Stati Uniti
proporranno nuove sanzioni contro Pyongyang già nei prossimi giorni.
Quella
militare resta un’opzione che gli Stati Uniti intendono considerare
contro la Corea del Nord. All’interno del governo di Washington,
nonostante i preparativi bellici ben avanzati, vi sono però disaccordi
su una decisione che rischierebbe di scatenare un conflitto
violentissimo, nel quale potrebbero molto probabilmente essere coinvolte
anche Cina e Russia.
Un articolo pubblicato martedì dal New York Times
a firma del giornalista con legami nell’apparato della sicurezza
nazionale americana, David Sanger, ha elencato le scelte che il
presidente Trump ha a disposizione per risolvere la crisi in atto. La
più percorribile, per l’autore dell’analisi, sarebbe quella del
negoziato, a testimonianza che una parte della classe dirigente USA
ritiene inaccettabile in questo momento una guerra nella penisola di
Corea, sia per le conseguenze che essa comporterebbe sia per
l’opposizione ancora molto diffusa tra l’opinione pubblica
internazionale.
Allo stesso tempo, però, l’attitudine
dell’amministrazione Trump ha messo gli Stati Uniti in un vicolo cieco
dal quale appare difficile uscire. Per cominciare, la collaborazione tra
Washington e Pechino per neutralizzare la minaccia nordcoreana,
lanciata con clamore dallo stesso Trump nel mese di aprile dopo la
visita in Florida del presidente cinese Xi Jinping, non ha portato alcun
frutto.
Senza
concessioni da parte americana, perciò, sembra di fatto impossibile
aprire un percorso diplomatico con la Corea del Nord. Sia la Cina che la
Russia sono tornate infatti a chiedere un passo indietro a Washington
per favorire il dialogo. Durante un vertice a Mosca tra Putin e Xi, i
due paesi hanno condannato l’ultimo test missilistico del regime di Kim,
per poi chiedere a quest’ultimo di congelare il proprio programma
nucleare in cambio di uno stop alle esercitazioni militari tra Stati
Uniti e Corea del Sud.
Questa proposta era già stata avanzata
qualche settimana fa dal governo cinese, ma era stata seccamente
respinta dalla Casa Bianca, le cui condizioni per un ritorno al tavolo
delle trattative continuano a prevedere non solo la fine del programma
nucleare e missilistico nordcoreano, ma anche lo smantellamento delle
testate atomiche di cui Pyongyang sarebbe già in possesso.
Significativamente,
Cina e Russia hanno incluso nel già ricordato comunicato anche la
richiesta di rimuovere il sistema anti-missilistico americano THAAD dal
territorio della Corea del Sud. Questa struttura è stata recentemente
installata dalle forze armate USA ed è considerata una seria minaccia al
deterrente militare cinese e russo, anche se ufficialmente destinata a
intercettare eventuali missili lanciati dalla Nordcorea.
Il
riferimento al THAAD di Cina e Russia è il riconoscimento ufficiale da
parte dei rispettivi governi del fatto che l’escalation
diplomatico-militare promossa dagli Stati Uniti è diretta principalmente
proprio contro questi due paesi e non tanto contro un regime isolato e
impoverito come quello di Kim.
Ad ogni modo, le condizioni
dettate da Washington risultano inaccettabili per la Corea del Nord, il
cui comportamento è solo apparentemente irrazionale e provocatorio. Come
dimostrano i molti precedenti storici di paesi che hanno rappresentato
un ostacolo agli interessi strategici americani, il regime di Kim, per
quanto odioso, ha tutte le ragioni per sentirsi minacciato dalla
massiccia presenza degli Stati Uniti attorno ai propri confini.
La
reazione a uno stato d’assedio che risulta tutt’altro che immaginario
non può che essere, dal punto di vista di Pyongyang, una corsa alla
militarizzazione e all’ottenimento di armi nucleari efficaci per
difendersi da un nemico potentissimo che, innegabilmente, da oltre mezzo
secolo cerca di rovesciare il regime ed estendere il proprio controllo
su tutta la penisola di Corea.
Per questa ragione, l’unica via
d’uscita alla crisi e, probabilmente, a una guerra rovinosa, non può che
includere una riduzione dell’impegno militare degli USA in Asia
nord-orientale e la prospettiva di una pace vera e duratura. Il regime
nordcoreano, d’altra parte, per la propria sopravvivenza ha più volte
lasciato intendere di essere disposto a raggiungere un accordo con
Washington.
Proprio martedì, ad esempio, la testata nordcoreana con sede a Tokyo, Chosun Sinbo,
ha scritto che “lo scontro tra Pyongyang e Washington è entrato nella
sua fase finale” e che, “per evitare un conflitto armato”, la comunità
internazionale deve adoperarsi per promuovere “un negoziato
diplomatico”.
Lo stesso giornale ha ribadito poi che “non è la
Corea del Nord a dover cambiare, bensì gli Stati Uniti”, mentre poco
prima il leader nordcoreano Kim aveva affermato che il suo paese non
abbandonerà mai le proprie armi nucleari e i propri missili balistici, a
meno che gli USA “cessino la loro politica ostile e mettano fine alla
minaccia nucleare”.
Un’iniziativa per stemperare le tensioni da
parte americana non è però all’ordine del giorno e ciò non perché la
Corea del Nord e il suo programma militare rappresentino un reale
pericolo per gli Stati Uniti o i loro alleati. L’ex numero uno del
Pentagono, William Perry, in questi giorni ha spiegato infatti che i
timori “non riguardano un lancio preventivo di missili contro la costa
occidentale americana”, che equivarrebbe a un suicidio da parte del
regime nordcoreano, quanto le “capacità di rispondere” a un attacco da
parte degli USA.
In
altre parole, Washington intende annientare la minaccia della Corea del
Nord per evitare eventuali danni collaterali prodotti dalla ritorsione
di quest’ultimo paese in caso il governo americano, per ragioni
strategiche con ogni probabilità legate alla rivalità con la Cina,
decidesse di intervenire militarmente in Asia nord-orientale.
Essendo
la posta in gioco ben più alta della pace con il regime di Kim, dunque,
è estremamente improbabile che le prossime iniziative americane portino
nel breve periodo a una de-escalation del sempre più pericoloso scontro
in atto nella penisola di Corea.
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