C’è
una teoria marxista della conoscenza? Ci sono brani di Marx che si
possono integrare in una teoria della conoscenza, c’è la concezione
materialistica della storia (quella espressa ad esempio nell’Ideologia tedesca) che ha anche aspetti rilevanti per una teoria della conoscenza, ci sono gli scritti engelsiani (l’Anti-Duhring e la Dialettica della Natura)
ma una vera e propria questione di teoria della conoscenza la abbiamo
con la polemica tra il realismo epistemico (conoscitivo) di Lenin (di
ispirazione engelsiana), il marxismo di ispirazione neokantiana di
Plechanov e l’empiriomonismo di Bogdanov (variante del cosiddetto
empiriocriticismo di Mach e Avenarius). A questa polemica hanno fatto
riferimento tutta una serie di scritti sia in Urss che in occidente, ma
da essa hanno tratto ispirazione anche pensatori del marxismo più o meno
eretico (si pensi ad Alfred Sohn Rethel, ad Adam Schaff e di
conseguenza agli studi incentrati sul linguaggio, sulla sua natura
sociale e sulle sue implicazioni cognitive di Ferruccio Rossi Landi
oppure si pensi alla conoscenza come pratica teorica di Althusser).
Nell’elaborare una teoria marxista della conoscenza e del lavoro
intellettuale bisogna tenere presente questi dibattiti che ci hanno
preceduto.
Passando
al merito sembra vero che un processo fisico come quello conoscitivo
debba consistere in una trasformazione e tuttavia questa trasformazione
dovrebbe consistere in un rispecchiamento altrimenti viene ad essere
messa in questione la nozione di verità. Se infatti la conoscenza è
trasformazione e le trasformazioni possono essere di qualsiasi tipo,
cosa distinguerebbe una trasformazione che ci dia una rappresentazione
vera della realtà da quella che ci darebbe una rappresentazione falsa
della realtà? Si dovrebbe ricorrere comunque ad un rispecchiamento che
sia criterio della verità o falsità della teorie che vorrebbero avere
rilevanza conoscitiva.
Il
punto è che, condizionando le visioni del mondo alla fase storica, il
materialismo storico ha una possibile via d’uscita relativistica. Questo
stare un po’ al limite tra realismo e relativismo è una caratteristica
del materialismo storico che oscilla possiamo dire tra Lenin e la
sociologia della conoscenza che rielaborano entrambi stimoli provenienti
da Engels. Esso può essere risolto dicendo ad es. che esista una verità
propria di ogni momento storico e il materialismo è la concezione vera
(e vera rispetto a tutte le concezioni passate) nel periodo che segna il
passaggio da capitalismo a socialismo ma che non possiamo
aprioristicamente dire quale sia la concezione vera nel futuro. Oppure
possiamo reinterpretare il processo conoscitivo come trasformazione in
modo da evitare il rischio del relativismo.
Si
potrebbe cioè ipotizzare che mentre le trasformazioni oggettuali sono
trasformazioni degli oggetti esterni seguendo un modello elaborato dal
nostro cervello, le cosiddette trasformazioni mentali sono
trasformazioni di rappresentazioni elaborate dal nostro cervello avendo
come modelli gli oggetti del mondo esterno. La differenza tra
trasformazioni mentali e trasformazioni oggettuali sarebbe solo nel
verso: le prime sono autoplastiche, le seconde alloplastiche, le prime
trasformano il nostro cervello, le seconde la realtà esterna. Entrambe
le trasformazioni sarebbero materialistiche e quelle conoscitive aventi
come modello la realtà esterna sarebbero anche rispecchiamenti (così
come quando si trasforma il colore sulla tavolozza in una
rappresentazione di un volto: la materia viene trasformata per
riprodurre un oggetto esterno al cervello).
Il
lavoro intellettuale a sua volta da un lato è materiale perché
materiali sono le forme in cui si esprime socialmente (la scrittura),
d’altro lato è materiale perché il lavoro dell’intelletto presuppone il
cervello e dunque il corpo materiale etc.
Si
tratta di due argomenti distinti: il primo evidenzia l’esito materiale
del pensiero che si deve esprimere e codificare tramite la materia; il
secondo evidenzia il presupposto materiale del pensiero, il processo
materiale di cui ha bisogno il pensiero per formarsi. Tuttavia ciò non
abolisce la distinzione né tra lavoro intellettuale e lavoro manuale ad
es. (l’attività intellettuale non coincide completamente con l’atto di
scrivere, tanto che uno può esprimere più o meno lo stesso contenuto sia
verbalmente che graficamente e dunque il contenuto si può distinguere
dalle forme in cui viene codificato) né tra lavoro materiale e lavoro
mentale (il lavoro materiale non è solo materiale perché ha bisogno del
cervello ma perché si realizza in un certo rapporto con gli oggetti
materiali).
Quello
che è vero è che non esiste un lavoro puramente materiale né un lavoro
puramente mentale, come pure non esiste un lavoro puramente
intellettuale né un lavoro puramente manuale. Tuttavia la tecnologia e
la divisione del lavoro permettono progressivamente di distinguere
sempre di più i due momenti (il professore può dettare il suo elaborato
ad una dattilografa, la fase progettuale può essere distinta dalla fase
esecutiva, un uomo che copia uno scritto può non comprenderne il
contenuto). Questo non va trascurato e non ci consente di liberarci di
queste distinzioni già a monte, quanto piuttosto ci costringe ad
immaginare una ricomposizione a valle.
Se
un lavoratore intellettuale esprime la sua conoscenza su foglio, essa
diventa oggettiva per lui come la conoscenza di un altro lavoratore
intellettuale. Ossia l’espressione di una conoscenza fa della conoscenza
stessa un oggetto rendendola disponibile agli altri ed anche a se
stesso (un lavoratore della conoscenza può dimenticare addirittura ciò
che ha elaborato e riceverlo come se fosse stato elaborato da altri: c’è
un bell’aneddoto sul logico e matematico Hilbert a tal proposito).
Piuttosto la distinzione va fatta tra la conoscenza che è già
oggettivata e quella che è risultante dalla sua elaborazione attuale,
elaborazione che non essendo ancora espressa in forme oggettivate assume
una colorazione soggettiva, ancora indefinita e piena di potenzialità
non ancora note (il filosofo Wittgenstein spesso si lamentava
continuamente del fatto che le sue tesi fossero fraintese: questo perché
diverse informazioni rimanevano implicite nella sua scrittura).
A
questo proposito bisogna fare attenzione, nell’analizzare la conoscenza
che usualmente viene considerata più affidabile (ad es. la conoscenza
matematica), a non confondere ad es. il valore di verità di 2+2=4 con la
rilevanza pragmatica di 2+2=4. Ovvio che per le società primitive 2+2=4
non tanto non sia vera, ma sarebbe un complesso di segni senza alcun
senso in quanto non ci sono le condizioni per cui esso vada statuito né di conseguenza c’è la comprensione del suo significato e la rilevanza
del suo utilizzo. Ciò però sarebbe conciliabile anche con una concezione
per cui le verità matematiche fossero verità assolute. Del resto anche
le cosiddette verità assolute hanno bisogno di un contesto di senso e
pragmatico perché ad esse sia riconosciuta la rilevanza del loro essere
vere o false (ma non necessariamente il loro essere vere o false). Il
caso di 23+2=1 si ha quando non si vuole calcolare qualcosa come il
numero di ore trascorso dall’origine dell’universo ad oggi, ma quando si
vuole misurare il tempo all’interno di un contesto che si interpreta
come ripetitivo (legandolo ad es. alla rotazione del pianeta intorno al
proprio asse e quindi al cosiddetto alternarsi del giorno e della notte)
in quanto ripetitivo è il processo lavorativo vincolato dalla
riproduzione della forza lavoro (la quale periodicamente deve riposarsi
per riprodursi). Possiamo dire che le proposizioni vere in un’analisi
legata al contesto storico-sociale in cui sono asserite, dovrebbero
essere espresse con enunciati molto più lunghi che esplicitassero il
contesto di senso nel quale sono immerse.
Bisogna
stare attenti cioè a non ridurre il formalismo matematico in un
rapporto tra segni senza tenere presente l’aspetto del significato. In
questo modo si confonde l’ambito sintattico delle cifre (che sono i
segni per indicare i numeri) e quello semantico dei numeri che sono i
significati delle cifre. Mutando il modulo, 23+2=25 non è in
contraddizione con 23+2=1, cosa che si verificherebbe se la verità fosse
relativa in questo caso. Tuttavia è giusto dire che i sistemi di cifre e
le operazioni che si fanno con essi siano relative ai bisogni di chi li
usa e dunque siano relative al contesto storico e sociale nel quale si
attuano. Non si discute qui il loro valore di verità (essi sono segni
che non hanno valore di verità se non li si connette ad un significato)
quanto piuttosto le forme con le quali si esprimono e le implicazioni
che da essi si fanno discendere, oltre all’interpretazione sulla loro
natura (possiamo dire che in una società aristocratica ci può essere la
tendenza ad es. a considerare la verità matematica come sintetica, mentre
nella società borghese la verità matematica tende ad essere analitica
in quanto si privilegia l’apporto conoscitivo legato al lavoro ovvero
quello empirico e tecnico-scientifico).
Non
si deve tanto discutere il valore di verità di 2+2=4, ma il sistema nel
quale è inserito all’interno di un contesto di classe. Tuttavia già il
fatto che 2+2=4 sia valido sia nella società schiavistica, che nella
società feudale che in quella borghese sarebbe da spiegare. Non tutte le
verità sono funzione del modo di produzione. Piuttosto il collegamento
tra enunciati riconosciuti come veri all’interno di più modi di
produzione e altri enunciati considerati stabilmente veri ma invece solo
ipotetici o contingentemente veri può configurarsi diversamente a
seconda del modo di produzione (Tolomeo può credere che 2+2=4 e che il
sole giri intorno alla Terra, ma Galileo deve invece sostituire una
delle credenze di questa congiunzione). Potremmo magari dire elaborando
la concezione di Lakatos (epistemologo ungherese, anticomunista ma
competente) che un nucleo di conoscenze rimane costante attraverso più
modi di produzione, un altro insieme di conoscenze cambia da un modo di
produzione all’altro e un altro insieme cambia all’interno dello stesso
modo di produzione. Ciò va spiegato nel senso che ci sono contenuti
compatibili con più contesti (o più compatibili con l’evoluzione
sociale) e dunque posti a livelli di conoscenza più profonda.
Marx
dice che il contenuto della scienza è un contenuto sociale sia perché
usa strumenti (quali il linguaggio) che sono sociali, ma anche perché
l’attività scientifica, sia pure svolta individualmente, ha un contenuto
che usa categorie che sono socialmente condivisibili. I rapporti tra gli
individui non sono sospesi nemmeno temporaneamente in quanto essi non
hanno sempre bisogno della compresenza corporea. La socialità in questo
caso non è data dalla contiguità fisica ma dal carattere sociale dei
contenuti del sapere e dagli effetti che questa loro ricerca avrà quanto
meno sulle loro relazioni con gli altri. Lo stesso funzionamento delle
sinapsi non è strettamente individuale in quanto l’unità della specie
umana rende comuni anche i processi neurobiologici che presiedono
all’attività conoscitiva.
Va
chiarito che, per realtà sociale, si intende anche la realtà naturale o
gli oggetti ad es. matematici nel momento in cui più individui hanno
accesso ad essi attraverso la percezione o attraverso le facoltà
razionali. Il contenuto logico e dunque comunicabile del sapere rende
questo sapere sociale per cui la dimensione individuale della conoscenza
è data dalla elaborazione originale di essa da parte di ogni individuo
senza però che tale originalità la renda socialmente non condivisibile.
Ogni nostra opinione può essere analizzata, esaminata, discussa,
accettata o rifiutata da altri anche se nessuno l’ha elaborata nello
stesso modo in cui la abbiamo elaborata noi.
Potremmo
dire che le conoscenze individuali riguardino più la facoltà di
atteggiarsi rispetto a processi (naturali o sociali) su cui non si ha
influenza (da cui la filosofia) e che vengono imposte da una classe
improduttiva a classi produttive come ideologia consolatoria e
giustificatoria, mentre le conoscenze collettive sono quelle che si
diffondono e si sistematizzano in quanto capaci di trasformare il
contesto naturale o sociale e sono potenzialmente utilizzabili anche
dalle altre classi sociali.
Il contenuto delle conoscenze individuali deve avere qualcosa in comune perché diventi condivisibile (e qui il pensiero va al logos
di Eraclito, a Platone e Aristotele). Tuttavia la condivisione di un
sapere che vale per gli individui (e vale per ogni individuo) è cosa
diversa da un sapere collettivo vero e proprio, ovvero da un sapere che
si consolida e si elabora collettivamente, come quello scientifico, ma
soprattutto come quello attinente alla politica che potrebbe essere la
rivoluzione epistemologica che avverrà con la transizione al socialismo.
Il
fatto che il sapere si materializzi nelle forze di produzione non
implica che queste forze di produzione siano di classe. Può darsi che
non tutto il sapere capitalistico sia appannaggio di una sola classe
(parte di esso potrebbe essere ereditato dalla classe successiva). Può
darsi che l’uso delle forze di produzione sia di classe ma non le forze
di produzione stesse. Rimane cioè uno spazio grande di approfondimento e
di discussione. Inoltre se i mezzi di produzione incorporano conoscenza
perché non lo potrebbero fare tutte le merci? In questo caso cosa
succede? Allora nessuna merce in linea di principio sarebbe neutra dal
punto di vista della classe? Le armi sono una merce solo capitalistica?
Cucchiai e forchette? Da un lato bisogna fare attenzione all’entusiasmo
eccessivo di Lenin per l’elettrificazione, dall’altro bisogna fare
altrettanta attenzione a considerare tutta la tecnologia sin qui
prodotta come parto del diavolo. La tecnologia e la scienza che essa
presuppone vanno studiate al loro interno, nella loro genesi e nella
loro struttura, nei loro rischi e nelle loro possibilità. Anche qui il
dualismo sereno e schematico dovrebbe svanire per fare posto
all’inquietudine e alla concretezza dell’ambivalenza. Il problema per il
marxista è in quale rapporto di produzione la tecnologia si
concretizza, quali possono essere le direzioni che la tecnologia prende
dati diversi modi di produzione e a quali ideologie può pervenire
l’analisi borghese della scienza e della tecnologia.
Ridurre
la realtà oggettiva a quella antropizzata pare limitante. Anche la
realtà naturale è una fonte di conoscenza e di informazione attraverso i
rapporti di causalità al suo interno. Inoltre il possesso degli
istituti e più in generale del supporto fisico della conoscenza non
implica che il capitale sappia le implicazioni di questa conoscenza e
sappia il rapporto esistente tra i mezzi impiegati e la conoscenza che
vorrebbe far usare. Bisogna a questo proposito domandarsi: la cultura
critica che demistifica l’ideologia capitalista è ben conosciuta anche
dai capitalisti stessi oppure essa smaschera anche quello che i
capitalisti credono in perfetta buona fede? I capitalisti hanno il
livello di consapevolezza di coloro che li smascherano?
Ciò
però presupporrebbe sempre che il capitale conosca tutte le
implicazioni delle conoscenze che promuove. In realtà, se da un lato
esso promuove le conoscenze più utili al profitto, al tempo stesso esso
genera conoscenze che gli si ritorceranno contro. Inoltre, bisogna
comunque considerare la resistenza dei lavoratori della conoscenza,
resistenza che da un lato si volge al mantenimento di privilegi
corporativi e alla perpetuazione di forme comunque desuete di sapere,
dall’altro prepara la ricerca di strumenti più adatti ad un passaggio
d’epoca. La lotta per il sapere disinteressato se da un lato è la
resistenza di forme idealistiche di strategie cognitive, dall’altro è la
consapevolezza della necessità di pianificare la formazione per il lungo
periodo e quindi la difficoltà di subordinare la produzione e la
formazione intellettuale per obiettivi a breve.
Possiamo
dire che il capitale incaricherebbe gli intellettuali organici del
capitale di promuovere la conoscenza funzionale al profitto e questi
lavorerebbero in questo senso perché sono convinti che il capitale sia
il migliore dei sistemi? In realtà i lavoratori della conoscenza
perseguono i loro interessi materiali e dunque si rendono disponibili a
chi li paga. Poiché gli Stati sono datori di lavoro (per altri motivi)
dei lavoratori della conoscenza questi non obbediscono solo alle imprese
capitalistiche. Spesso essi approfittano del fatto che il loro datore
di lavoro non conosce la materia per sviluppare anche ricerche che li
interessano soggettivamente e fanno in modo da rispettare i contratti
con i loro committenti in modo da avere tempo per dedicarsi ad altro.
Spesso essi usano la dissimulazione per non subordinarsi troppo al
committente. Infine, e questo è l’argomento decisivo, nemmeno essi
conoscono tutte le implicazioni cognitive e pratiche di quello che
pensano, progettano e realizzano. Dunque nemmeno essi sono in grado di
costituire una conoscenza completamente asservita.
La
conoscenza se può essere usata come strumento di dominio può anche
essere utilizzata per l’emancipazione, nei limiti possibili all’interno
del modo di produzione capitalistico. Mentre il prodotto materiale è un
oggetto individuale e dunque una volta che il capitale se ne appropria
esso non è più disponibile, il prodotto culturale è una sorta di
struttura comune che può essere fruibile con diversi supporti e ciò lo
rende meno facilmente appropriabile in maniera univoca e definitiva dal
capitale. Tuttavia il capitale tenta di concentrare la conoscenza su
macchine (in questo processo la teoria filosofica del funzionalismo ha
un ruolo anche ideologico) e di togliere ai lavoratori l’esercizio di
quelle funzioni che le macchine possono svolgere al loro posto. In
questo modo il lavoratore perde l’abitudine ad applicare i prodotti
mentali come mezzi di produzione per svolgere il proprio lavoro. Anche
in questo caso però con una diversa organizzazione sociale si potrebbe
guadagnare tempo per dedicarsi a funzioni intellettuali più alte e
raffinate e lasciare dietro di sé funzioni più ripetitive (ad es. quelle
legate al calcolo e alla classificazione).
Il
punto è che allo stato attuale delle cose noi abbiamo di fronte un
intreccio che, per effetto della crisi, si sta di nuovo scindendo
producendo però schieramenti imprevedibili e trasversali. L’ambiguità
dell’intreccio è in realtà molto più difficile da districare.
Bisognerebbe dire che ormai non siamo più in un regime capitalistico
puro (sempre se ha senso parlare in questi termini) ma siamo già in una
sorta di transizione (ciò spiegherebbe appunto l’intreccio tra due forme
di razionalità). Questo sarebbe positivo, ma andrebbe spiegato in che
senso e perché, invece, soggettivamente ci sentiamo ancora frustrati dagli
eventi storici che si sono verificati. Inoltre che s’intende per
conoscenza? Una rappresentazione vera della realtà? Qual è il ruolo
della verità in questo argomento? La non neutralità della conoscenza
equivale alla relatività storicista del vero? Qual è il rapporto tra
conoscenza vera o falsa e la natura di classe della conoscenza?
Infine
la caratterizzazione di classe di una conoscenza è difficile. Non si
può procedere in questo campo senza un approfondimento sulla natura del
dibattito epistemologico presente anche in ambito borghese. Il problema a
mio parere è anche quello per cui, quando una tecnologia incorpora nel
mezzo di produzione un sapere che prima era applicato dal lavoro vivo,
ci sia la possibilità per il lavoro vivo di occuparsi d’altro e di
applicare altro sapere senza dequalificarsi (o almeno ci sia una
riduzione d’orario che abbia ricadute anche creative). Pensiamo (fuori
del contesto immediatamente produttivo) il ruolo delle calcolatrici:
molti ragazzini alle elementari disimparano a fare le quattro
operazioni. Imparano dell’altro? Dunque magari la tecnologia in sé è
meno valutabile di un contesto più complessivo che comprenda invece la
tecnologia utilizzata.
Volendone
vedere le potenzialità liberatorie, più la tecnologia diventa potente
ed efficiente più i lavoratori si possono chiedere perché il loro lavoro
sia così faticoso o stressante: perché la catena di montaggio è così
veloce e noi dobbiamo adeguarci ad essa? Non possiamo rallentarla per
conciliarla con le nostre necessità? Perché il team deve sviluppare la
creatività e la solidarietà dei membri e queste belle cose devono essere
subordinate alla massimizzazione del profitto? Perché abbiamo
possibilità di curare tutte queste malattie e la possibilità di farlo
viene frustrata dai brevetti? Come si vede la finalizzazione del
progresso al profitto manifesta a pieno le contraddizioni nelle quali il
modo di produzione capitalistico si avvolge. Si può evidenziare come la
conoscenza venga subordinata al capitale ma non riteniamo si possa
dimostrare che la conoscenza prodotta nella fase capitalistica abbia una
struttura intrinsecamente capitalistica. Seguire invece questa
convinzione potrebbe significare incamminarsi su una deriva utopistica e
potenzialmente conservatrice (e subordinata al tempo senza essere in
grado di anticiparlo) in quanto porterebbe a criticare in maniera
indiscriminata qualsiasi progresso mentre bisogna elaborare strumenti
che in qualche modo consentano di evitare sia l’entusiasmo acritico sia
la paranoia reazionaria.
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