di Michele Paris
Dopo un lungo silenzio, in questi giorni la premio Nobel per la pace
Aung San Suu Kyi ha parlato finalmente della repressione in corso nello
stato occidentale di Rakhine, in Myanmar, condotto dalle forze
governative contro la minoranza musulmana Rohingya. L’icona della
democrazia nella ex Birmania non ha però condannato le operazioni che
stanno costringendo alla fuga nel vicino Bangladesh decine di migliaia
di persone, ma le ha giustificate in nome della lotta al terrorismo nel
paese asiatico di cui essa stessa è la leader di fatto assieme ai
vertici militari.
San Suu Kyi ha avuto un colloquio telefonico
con il presidente turco Erdogan nella giornata di martedì, durante il
quale ha fornito spiegazioni a quest’ultimo sui fatti dello stato di
Rakhine. Erdogan si è unito al coro di condanne internazionali contro il
governo del Myanmar, provenienti in particolare dai paesi musulmani,
giungendo a ipotizzare il pericolo di “genocidio” nei confronti di una
minoranza da tempo perseguitata. Per San Suu Kyi, al contrario, la crisi
sarebbe alimentata dalla diffusione di “fake news” e da una “campagna
di disinformazione” globale.
Quella a cui si sta assistendo è
solo l’ultima ondata di violenze interetniche nello stato di Rakhine,
scaturita il 25 agosto scorso dopo che un gruppo ribelle Rohingya aveva
attaccato alcune postazioni delle forze di sicurezza birmane. La
risposta è stata come di consueto durissima, con i militari che hanno
tra l’altro dato fuoco a villaggi abitati a maggioranza da musulmani,
costringendoli alla fuga.
A oggi, le Nazioni Unite stimano che
circa 125 mila persone di etnia Rohingya abbiano trovato rifugio in
Bangladesh per sfuggire a violenze, a esecuzioni sommarie, e alla
distruzione delle loro abitazioni. La posizione ufficiale del governo
del Myanmar è invece che l’intervento delle forze armate sia necessario
per reprimere gruppi ribelli che minacciano sia la sicurezza degli
abitanti di fede buddista dello stato sia l’unità del paese.
I
Rohingya in Myanmar sono più di un milione e vengono considerati
immigrati illegali “bengalesi” senza diritti, nonostante il loro
stanziamento nel paese a maggioranza buddista sia iniziato svariati
secoli fa. L’attitudine del governo e del resto della popolazione della
ex Birmania nei confronti dei Rohingya è generalmente ostile e negli
ultimi anni si sono verificati numerosi scontri ed episodi di violenza,
spesso scoppiati in seguito a resoconti ingigantiti di attacchi o
aggressioni commesse da musulmani contro buddisti.
I musulmani
Rohingya che hanno lasciato i propri villaggi si ritrovano in condizioni
drammatiche. Il governo del Bangladesh, anche se continua ad accogliere i
profughi dietro pressioni internazionali, minaccia spesso di
rimpatriarli e non ha i mezzi né la volontà di creare condizioni adatte a
un’accoglienza quanto meno dignitosa.
La situazione in Myanmar
ha raggiunto una gravità tale che il segretario generale dell’ONU,
Antonio Guterres, questa settimana ha insolitamente fatto appello al
governo centrale a cessare le discriminazioni nei confronti della
minoranza musulmana, a suo dire a rischio di “pulizia etnica”. A rendere
ancora più drammatico il quadro, come ha spiegato il direttore
esecutivo di UNICEF, Anthony Lake, l’80% dei Rohingya fuggiti e
bisognosi di aiuti sono donne e bambini.
L’interesse della stampa
e della comunità internazionale per la nuova crisi nello stato di
Rakhine si è concentrato in particolare sul comportamento di Aung San
Suu Kyi. Non solo la “consigliera di stato” e ministro degli Esteri del
Myanmar non ha finora mai pronunciato una sola parola a favore dei
Rohingya, ma la repressione nei confronti della minoranza musulmana si è
intensificata dopo l’approdo al governo del suo partito, la Lega
Nazionale per la Democrazia (NLD).
Il sostanziale allineamento di
San Suu Kyi alle posizioni dei militari, i quali conservano ampi poteri
anche dopo il ritorno formale al multipartitismo, testimonia quindi a
sufficienza della sua attitudine “democratica”, così come della natura
tutt’altro che disinteressata delle campagne occidentali, e soprattutto
americane, degli anni scorsi per promuovere la figlia del fondatore
della moderna Birmania.
È in ogni caso vero che in Myanmar le
questioni legate alla sicurezza interna restano di totale competenza dei
militari, i quali hanno anche una sorta di potere di veto sull’operato e
la sopravvivenza stessa del governo civile. San Suu Kyi e i vertici del
suo partito condividono tuttavia il nazionalismo buddista che
caratterizza le forze armate e, ancor più, non intendono mettere a
rischio gli equilibri politici che hanno consentito loro di condividere
il potere dopo decenni di esclusione e repressione.
Il
sostegno garantito da Washington alla NLD era collegato ai tentativi di
sottrarre un paese strategico come il Myanmar all’influenza cinese,
cresciuta a dismisura nel corso degli anni della dittatura militare
durante i quali esso era virtualmente isolato dalla comunità
internazionale.
Dopo la revoca degli arresti domiciliari di San
Suu Kyi e le elezioni vinte dalla NLD nel 2015, gli Stati Uniti hanno di
fatto interrotto le critiche al Myanmar per lo stato precario dei
diritti umani, malgrado persistenti problemi come quello dei Rohingya,
premiando un nuovo governo che si era subito mostrato disposto ad aprire
il paese all’influenza e al capitale occidentale.
Negli ultimi
tempi, però, la penetrazione occidentale in Myanmar ha fatto segnare un
netto rallentamento per varie ragioni e il governo di questo paese è
tornato a guardare in buona parte alla Cina per la realizzazione dei
progetti di sviluppo e di crescita economica promessi e mai attuati da
Washington.
Come quasi sempre accade con le crisi internazionali,
specialmente se umanitarie, alle vicende di popoli repressi o
perseguitati si incrociano questioni politiche, strategiche ed
economiche più ampie e, con ogni probabilità, non fa eccezione nemmeno
la sorte dei Rohingya. Mentre è innegabile che quelle in atto siano
violenze gravissime commesse dalle forze di sicurezza governative, i
fatti registrati tra lo stato birmano di Rakhine e il Bangladesh
rischiano di essere strumentalizzati dalle potenze internazionali.
Significative
a questo proposito sono le critiche che anche nei circoli ufficiali in
Occidente vengono rivolte sempre più a Aung San Suu Kyi. Il governo
americano ha in realtà finora mantenuto un atteggiamento molto cauto
sulla crisi, ma la stampa “mainstream” occidentale ha fatto ricorso a
toni piuttosto aggressivi verso il premio Nobel, indicando quindi un
possibile cambiamento di rotta nei suoi confronti.
Il Washington Post
ha ad esempio pubblicato mercoledì un vero e proprio attacco alla
leader birmana, titolandolo “il vergognoso silenzio di Aung San Suu
Kyi”. Il britannico Guardian ha parlato a sua volta di
“negazione di prove ben documentate” sui massacri dei Rohingya e
“impedimenti agli aiuti umanitari” da parte di quest’ultima.
A
dare un’idea delle ragioni che stanno generando ansia in Occidente è
stata ad esempio una dichiarazione di mercoledì del consigliere per la
sicurezza nazionale del Myanmar, Thaung Tun, il quale ha fatto sapere
che il suo governo sta negoziando con Cina e Russia – definite “paesi
amici” – per bloccare eventuali risoluzioni sulla crisi dei Rohingya al
Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
La situazione sul campo nello
stato di Rakhine è per certi versi altrettanto complessa degli scenari
strategici che si intrecciano alla vicenda. Il governo centrale non
consente infatti l’accesso alle aree dove vive la minoranza musulmana a
giornalisti stranieri e indipendenti, né sembra volere accettare
un’indagine internazionale.
Malgrado ciò o forse proprio per
questo, alcune notizie che circolano contribuiscono ad alimentare più di
un dubbio su alcuni aspetti della crisi. La pretesa del Myanmar di
combattere il terrorismo appare decisamente esagerata, essendo la
formazione di gruppi ribelli in larga misura di natura difensiva.
Tuttavia, non è da escludere del tutto che dietro a queste formazioni ci
possano essere quanto meno forze interessate a mettere in atto
un’agenda di più ampio respiro.
La testata on-line Asia Times
ha pubblicato nei giorni scorsi alcuni articoli che descrivevano la
nascita e le attività del principale gruppo ribelle attivo a favore
della minoranza musulmana, l’Esercito di Salvezza dell’Arakan Rohingya
(ARSA). Il suo leader, Ataullah abu Ammar Junjuni, sembra corrispondere
al ritratto del jihadista, essendo nato in Pakistan da una comunità
Rohingya ed educato in Arabia Saudita, dove ha operato come “imam
wahhabita” prima di giungere nella ex Birmania.
La Reuters
già nel 2016 aveva scritto che gli “insorti” musulmani in Myanmar
avevano legami finanziari con il Pakistan e l’Arabia Saudita, mentre
l’anno prima il quotidiano pakistano Dawn aveva spiegato come
l’influenza del fondamentalismo islamico avesse solide radici nelle
comunità Rohingya del paese centro-asiatico.
Se la repressione in
corso in Myanmar ha probabilmente ancora pochi legami con questi
aspetti, è comunque possibile che almeno in prospettiva vi siano forze
che intendano sfruttare le divisioni etniche per promuovere i propri
interessi strategici, visti soprattutto i precedenti legati all’utilizzo
delle forze integraliste anche da parte occidentale.
Il
Myanmar rappresenta d’altronde una componente importantissima della
strategia di crescita e di integrazione economica euro-asiatica della
Cina, interessata, tra l’altro, a fare di questo paese un punto di
transito delle rotte energetiche e commerciali provenienti dal Medio
Oriente, in modo da evitare le potenzialmente pericolose vie marittime
sud-orientali.
In questa prospettiva, non è difficile comprendere
come determinati attori internazionali abbiano tutto l’interesse ad
alimentare il caos nella ex Birmania, ostacolandone la stabilizzazione
attraverso il sostegno a un movimento ribelle sorto per ragioni
difensive e interamente legittime.
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