di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Dopo l’uccisione dell’ex
dittatore Ali Abdullah Saleh, lo Yemen non ha tregua: i raid sauditi
sono proseguiti tutta la settimana, a copertura dell’offensiva terrestre
delle forze governative del presidente Hadi. L’ultima strage è di ieri:
23 civili uccisi nella provincia nord di Sa’ada, roccaforte Houthi.
L’escalation è realtà quotidiana. E in tale situazione stonano le
parole dell’amministrazione statunitense, la stessa che a maggio firmò
contratti di vendita con Riyadh per 110 miliardi di dollari in armi per
dieci anni e la stessa che sostiene attivamente l’operazione militare
contro il movimento Ansar Allah con intelligence e supporto logistico:
negli ultimi due giorni, prima il presidente Trump e poi il segretario
di Stato Tillerson hanno chiesto «moderazione» all’Arabia Saudita e la
fine del blocco imposto su porti e aeroporti controllati dagli Houthi.
Nelle stesse ore faceva la sua prima apparizione pubblica Ahmed
Abdullah Saleh, figlio dell’ex presidente, auto-proclamatosi suo
successore alle corti del Golfo. Del ruolo di Emirati Arabi e Arabia Saudita e delle prospettive del movimento Houthi abbiamo discusso con
Ali al-Ahmed, analista saudita tra i massimi esperti dei paesi del
Golfo, fondatore e direttore del think tank Institute for Gulf Affairs
di Washington.
Dopo la morte di Saleh e l’intensificarsi della reazione saudita, assisteremo alla fine del movimento Ansar Allah?
Non credo. Emirati Arabi e Arabia Saudita hanno compiuto gravi errori
e gli Houthi hanno un eccezionale supporto popolare. Abu Dhabi ha
tentato di trovare una via d’uscita dal conflitto coinvolgendo Saleh, ma
ha impiegato del tempo a convincere Riyadh. Quando ci è riuscita, era
troppo tardi. Nessuno ha compreso il radicamento dei ribelli nel paese,
nemmeno gli Stati Uniti che fino a poco tempo fa non prendevano in
considerazione il potenziale del movimento. Non hanno compreso la
trasformazione popolare dello Yemen: le vecchie logiche tribali sono
quasi del tutto scomparse, si è passati da una struttura sociale tribale
a una dettata dall’ideologia, che sia politica o religiosa.
Gli Houthi hanno raccolto consenso sia tra le giovani generazioni sia
tra gli adulti. Lo si è visto nel settembre 2014: hanno assunto il
controllo dell’intero paese senza trovare resistenza. Lo Yemen sta
tornando alla sua identità originaria, drogata nel secolo scorso dalla
pesante interferenza del wahhabismo sponsorizzato da Riyadh.
Dunque non si assisterà a significativi cambiamenti sul campo di battaglia?
Al di là dell’escalation militare, che non è una novità, le milizie
di Saleh non sono numerose, si sono ridotte con il crollo di consenso
verso l’ex dittatore. Si dice addirittura che a tradirlo sia stato il
figlio di uno dei suoi bracci destri. Le bombe saudite, poi, non fanno
che aumentare il sostegno popolare a chi resiste all’aggressione, ovvero
gli Houthi. Lo storico appoggio delle tribù a Saleh non è più
determinante, nei fatti la sua influenza politica era evaporata da
tempo. E gli Emirati lo sanno: quando il 2 dicembre Saleh ha annunciato
la rottura con Ansar Allah, il movimento ha lanciato per la prima volta
un missile verso Abu Dhabi. Un messaggio chiaro: il sistema missilistico
è in mano agli Houthi, non a Saleh.
Perché macchine da guerra come quelle saudita e emiratina non riescono a piegare la resistenza Houthi?
Riyadh non vince perché non ha uomini sul terreno. Non ci sono
miliziani in Yemen che combattono per Riyadh, eccezion fatta per le
forze governative, buona parte delle quali è in cerca solo di un salario
e non del raggiungimento di obiettivi politici. Lo Yemen è
geograficamente un paese difficile, montagnoso: chi ci combatte deve
conoscerlo bene. E gli Houthi lo conoscono.
La guerra potrebbe finire a breve visti gli alti costi per chi l’ha lanciata?
Non ci sono indicazioni in tal senso. La guerra non è iniziata solo
per gli interessi strategici, politici e petroliferi del Golfo, ma anche
su spinta di certe potenze occidentali. In primis Stati Uniti e Gran
Bretagna, principali venditori di armi a Riyadh e interessati a
destabilizzare la regione: un Golfo stabile sarebbe meno dipendente
dalle armi occidentali.
L’Iran è davvero presente al fianco degli Houthi?
Nel 2009, nel corso della sesta guerra di Sana’a contro gli Houthi,
Saleh chiese l’intervento saudita giocando la carta della minaccia
sciita. All’epoca l’Iran aveva contatti minimi, se non inesistenti, con
Ansar Allah. Ma da allora c’è stato un avvicinamento che si traduce oggi
in sostegno in termini di logistica, intelligence, denaro. Non di armi e
uomini, però: se si guarda alle armi usate dagli Houthi si vede che
sono molto simili a quelle utilizzate in Siria dal fronte pro-Assad, ma
non sono identiche. Perché Teheran non ne invia di proprie, ma addestra
gli Houthi a costruirsi i missili, inviando sul posto i propri tecnici.
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