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08/08/2018

Siria - Il business della ricostruzione

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Prima la rimozione delle macerie, poi la riapertura delle strade, di alcune scuole, forni, stazioni di polizia. Aleppo prova a ricostruirsi a un anno e mezzo dalla fine della battaglia che ne ha devastato le reti sociali prima che quelle infrastrutturali.

A est, dove le opposizioni jihadiste erano arroccate, è esercizio quasi futile cercare di rintracciare la bellezza che fu, quella che l’Unesco intese proteggere nel 1986 inserendola nella lista dei patrimoni dell’umanità.

Per anni quell’umanità ha assistito, con sdegno intermittente, alla sua distruzione. La «grigia», la capitale del nord, cuore dell’economia siriana, ha fatto da impotente sfondo alla fuga di centinaia di migliaia di persone. Oggi, a 19 mesi dalla vittoria governativa, con le famiglie che lentamente rientrano, parte anche la prima ricostruzione, la più immediata: 3-4 mesi sono serviti per rimuovere le macerie, ripulire le strade, ristrutturare incroci, rotonde; poi è toccato agli edifici pubblici, mentre le reti idriche e fognarie venivano rattoppate per permettere la ripresa della vita quotidiana.

Ma i lavori più imponenti non sono partiti, eccezion fatta per la ristrutturazione del ponte al-Haj che collega la zona ovest a quella est e all’aeroporto. Finora tutto è stato fatto dalla macchina governativa – con una lunga esperienza, è la Siria che ha aiutato a rimettere in piedi Beirut dopo la guerra civile – e dalla Chiesa (ad Aleppo ha ricostruito circa 1.200 case) senza interventi di compagnie straniere. Ma per farne ripartire l’infrastruttura economica ci vorranno tempo e investimenti consistenti.

Non solo ad Aleppo, ma anche a Homs, Hama, nella stessa Damasco, nel nord a maggioranza curda, mentre una parte della Siria è ancora campo di battaglia: a occidente, nella provincia di Idlib controllata dai gruppi jihadisti lì ammassati dagli accordi di evacuazione tra islamisti e governo di Damasco; e a oriente, al confine con l’Iraq, dove incombe ancora la minaccia dell’Isis.

La guerra non è finita ma di ricostruzione si parla già, un bottino stimato tra i 400 e i 500 miliardi di dollari. Sopra, gli occhi di tanti: delle potenze regionali e globali, ma anche del governo del presidente Bashar al-Assad, accusato dagli oppositori di voler utilizzare la ricostruzione come grimaldello demografico.

Come ad Homs, «la capitale della rivoluzione», dove Damasco avrebbe avviato progetti residenziali nella zona sud dove far trasferire famiglie alawite, a lui fedeli, per ridimensionare la comunità sunnita. In via di ricostruzione sono soprattutto i quartieri cristiani, lavori supervisionati dal patriarcato siriano, le chiese, le cappelle, ma anche la moschea di Khalid ibn al Walid, simbolo dell’iniziale protesta popolare, poi trasformata in luogo di ritrovo e magazzino di armi dei gruppi islamisti.

I rischi settari sono enormi, con una ricostruzione troppo mirata il pericolo è di esacerbare le divisioni esplose negli anni della guerra civile. A Homs, come dice la parlamentare Sanaa Abu Zeid, «il presidente Bashar al-Assad sta personalmente seguendo i lavori». Che comprendono anche la cancellazione dei graffiti e gli slogan sui muri, inneggianti alla rivolta contro il governo.

Una rivolta che, a differenza di quanto detto da molti, non ha radici settarie, o almeno non solo: le prime proteste, nella primavera 2011, partirono dai sobborghi e non dai centri storici, dai quartieri sorti quasi spontaneamente dagli anni '70, crocevia di un’umanità diversa dalla quella cittadina.

Sono i quartieri che più di altri hanno subito la crisi economica e la campagna di parziale privatizzazione lanciata da Bashar: Ghouta est e Basateen al Razi a Damasco, Baba Amr a Homs, già oggetto di una prima ricostruzione insieme a Harasta (Ghouta est), per cui il governo ha stanziato 35 milioni di dollari dopo la ripresa della zona strappata ai gruppi islamisti che la controllavano dal 2013.

La stessa Aleppo è specchio di una realtà molto più composita, fatta di rivendicazioni socio-economiche oltre che politiche e di un tessuto urbano borghese contrapposto allo sviluppo di zone informali, residenza dei migranti dalle campagne: come spiega Giovanni Pagani su Jadaliyya in un articolo del novembre 2016, dagli anni '70 la popolazione di Aleppo è quadruplicata, toccando i 2,4 milioni negli anni pre-bellici, per l’arrivo di contadini in cerca di lavoro e in fuga da campagne povere.

Una povertà in contrasto con la ricchezza della borghesia aleppina, che ha saputo sfruttare gli spazi aperti dal partito Baath in termini di opportunità commerciali e speculazione edilizia. Sarà quello strato sociale a garantire al governo sostegno dal 2011, contro una fetta di popolazione che guardava alle opposizioni non perché sunnita (la maggioranza nella città di Aleppo) ma come speranza di miglioramento sociale. Che non arriverà, soffocato subito dalle priorità di gruppi sponsorizzati e guidati dai regimi esterni e più interessati alla fondazione di emirati religiosi più che alle riforme richieste da chi scese in piazza nel 2011.

Le legittime ambizioni dei siriani sono state quasi immediatamente dirottate dall’esterno, dal fronte anti-Damasco interessato a dividere il paese: non è un caso che già dal 2011 quelle richieste siano scomparse e la guerra sia diventata uno scontro politico-strategico.

Il processo di ricostruzione dovrebbe seguire linee di pacificazione sociale, economica e politica, dovrebbe rivalorizzare le città e rilanciare le campagne, oggetto di marginalizzazione nel secolo scorso e oggi svuotate: con 5 milioni di rifugiati e 7 milioni di sfollati interni, intere comunità restano fantasma. Se ad Homs sono rientrate 21mila famiglie nel 2018, nello stesso periodo oltre 900mila siriani sono fuggiti da Afrin a nord e Deraa a sud.

È in tale contesto che la scorsa primavera il governo ha approvato la legge 10 che impone la presentazione dei documenti che attestano la proprietà della casa entro 30 giorni dall’individuazione da parte delle autorità delle cosiddette zone di sviluppo (ovvero destinate alla ricostruzione). Così il proprietario può reclamarla per sé. Chi non lo fa la perde, ricevendo in cambio una compensazione in denaro o un alloggio alternativo.

Una possibilità affatto peregrina con 12 milioni di persone sfollate interne o rifugiate all’estero, con abitazioni distrutte insieme al loro contenuto e con mezzo milione di morti, di cui molti padri di famiglia a cui erano intestati i beni. Amnesty ha definito la legge «un’operazione di ingegneria sociale», indicando come prime vittime i residenti nelle aree che furono in mano alle opposizioni e fuggiti dai conseguenti scontri.

La situazione politica attuale non aiuta: di opposizioni politiche credibili non ce ne sono e il governo immagina la ricostruzione come strumento di rafforzamento. E a pesare sono le mani delle grandi imprese e degli Stati che si allungano già su un affare multi-miliardario, ostacoli permettendo: al momento la Siria resta schiacciata dalle sanzioni internazionali e dall’incapacità di sfruttare le (limitate) riserve energetiche di cui gode. Ma Russia, Cina, Arabia Saudita, Iran, Emirati sono tutti alla porta.

A Mosca Assad ha già promesso la parte del leone; Pechino ha saputo mantenersi neutrale per potersi infilare nel business con la Nuova Via della Seta; Teheran ha investito miliardi di dollari e forze militari per tenere in sella il presidente e ora cerca una ricompensa non solo politica; Riyadh ha già fatto visita a Raqqa fiutando l’affare; e Abu Dhabi sta mettendo da parte il ruolo di incendiario e tentando un fruttuoso riavvicinamento a Damasco. Stati Uniti e paesi europei stanno alla finestra.

Perché dove prima c’era un paese stabile ora ci sono macerie. Prima del 2011 la Siria cresceva a una media del 4% l’anno, offriva scuola e sanità gratuite, registrava un tasso di disoccupazione all’8,6%. Il tasso di povertà era superiore al 28%, ma era attutito dal radicamento delle reti sociali e familiari; oggi sfonda l’80%. A dare il primo colpo sono state le sanzioni internazionali che hanno mangiato un terzo del Pil nei mesi immediatamente successivi allo scoppio del conflitto.

Poi è seguito il resto: la distruzione di fattorie, fabbriche, di un terzo delle abitazioni private e della metà delle strutture sanitarie e di quelle educative. L’export è crollato del 92%, le riserve di valuta straniera dai 21 miliardi del 2010 a un miliardo, il budget nazionale ridotto all’osso (5 miliardi di dollari) e il Pil è passato da 60 miliardi a 15 nel 2016. Mezzo milione di posti di lavoro si perdono ogni anno. Il prezzo dei beni di prima necessità come riso e farina è raddoppiato, quello del carburante è dieci volte quello del 2010.

La Siria è tornata indietro di mezzo secolo: la vita media è crollata da 76 anni nel 2011 agli attuali 56. Senza dimenticare che un’intera generazione, quella dei bambini nati subito prima e durante il conflitto, ha conosciuto solo guerra.

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