di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Prima la rimozione delle
macerie, poi la riapertura delle strade, di alcune scuole, forni,
stazioni di polizia. Aleppo prova a ricostruirsi a un anno e mezzo dalla
fine della battaglia che ne ha devastato le reti sociali prima che
quelle infrastrutturali.
A est, dove le opposizioni jihadiste erano arroccate, è esercizio
quasi futile cercare di rintracciare la bellezza che fu, quella che
l’Unesco intese proteggere nel 1986 inserendola nella lista dei
patrimoni dell’umanità.
Per anni quell’umanità ha assistito, con sdegno intermittente, alla
sua distruzione. La «grigia», la capitale del nord, cuore dell’economia
siriana, ha fatto da impotente sfondo alla fuga di centinaia di migliaia
di persone. Oggi, a 19 mesi dalla vittoria governativa, con le
famiglie che lentamente rientrano, parte anche la prima ricostruzione,
la più immediata: 3-4 mesi sono serviti per rimuovere le macerie,
ripulire le strade, ristrutturare incroci, rotonde; poi è toccato agli
edifici pubblici, mentre le reti idriche e fognarie venivano rattoppate per permettere la ripresa della vita quotidiana.
Ma i lavori più imponenti non sono partiti, eccezion fatta per la
ristrutturazione del ponte al-Haj che collega la zona ovest a quella est
e all’aeroporto. Finora tutto è stato fatto dalla macchina
governativa – con una lunga esperienza, è la Siria che ha aiutato a
rimettere in piedi Beirut dopo la guerra civile – e dalla Chiesa
(ad Aleppo ha ricostruito circa 1.200 case) senza interventi di
compagnie straniere. Ma per farne ripartire l’infrastruttura economica
ci vorranno tempo e investimenti consistenti.
Non solo ad Aleppo, ma anche a Homs, Hama, nella stessa
Damasco, nel nord a maggioranza curda, mentre una parte della Siria è
ancora campo di battaglia: a occidente, nella provincia di
Idlib controllata dai gruppi jihadisti lì ammassati dagli accordi di
evacuazione tra islamisti e governo di Damasco; e a oriente, al confine
con l’Iraq, dove incombe ancora la minaccia dell’Isis.
La guerra non è finita ma di ricostruzione si parla già, un bottino stimato tra i 400 e i 500 miliardi di dollari.
Sopra, gli occhi di tanti: delle potenze regionali e globali, ma anche
del governo del presidente Bashar al-Assad, accusato dagli oppositori di
voler utilizzare la ricostruzione come grimaldello demografico.
Come ad Homs, «la capitale della rivoluzione», dove Damasco avrebbe
avviato progetti residenziali nella zona sud dove far trasferire
famiglie alawite, a lui fedeli, per ridimensionare la comunità sunnita. In
via di ricostruzione sono soprattutto i quartieri cristiani, lavori
supervisionati dal patriarcato siriano, le chiese, le cappelle, ma anche
la moschea di Khalid ibn al Walid, simbolo dell’iniziale protesta popolare, poi trasformata in luogo di ritrovo e magazzino di armi dei gruppi islamisti.
I rischi settari sono enormi, con una ricostruzione troppo mirata il
pericolo è di esacerbare le divisioni esplose negli anni della guerra
civile. A Homs, come dice la parlamentare Sanaa Abu Zeid, «il presidente
Bashar al-Assad sta personalmente seguendo i lavori». Che comprendono
anche la cancellazione dei graffiti e gli slogan sui muri, inneggianti
alla rivolta contro il governo.
Una rivolta che, a differenza di quanto detto da molti, non ha radici settarie, o almeno non solo: le
prime proteste, nella primavera 2011, partirono dai sobborghi e non dai
centri storici, dai quartieri sorti quasi spontaneamente dagli anni '70, crocevia di un’umanità diversa dalla quella cittadina.
Sono i quartieri che più di altri hanno subito la crisi economica e
la campagna di parziale privatizzazione lanciata da Bashar:
Ghouta est e Basateen al Razi a Damasco, Baba Amr a Homs, già oggetto di
una prima ricostruzione insieme a Harasta (Ghouta est), per cui il
governo ha stanziato 35 milioni di dollari dopo la ripresa della zona
strappata ai gruppi islamisti che la controllavano dal 2013.
La stessa Aleppo è specchio di una realtà molto più
composita, fatta di rivendicazioni socio-economiche oltre che politiche e
di un tessuto urbano borghese contrapposto allo sviluppo di zone
informali, residenza dei migranti dalle campagne: come spiega Giovanni Pagani su Jadaliyya in
un articolo del novembre 2016, dagli anni '70 la popolazione di
Aleppo è quadruplicata, toccando i 2,4 milioni negli anni pre-bellici,
per l’arrivo di contadini in cerca di lavoro e in fuga da campagne
povere.
Una povertà in contrasto con la ricchezza della borghesia aleppina,
che ha saputo sfruttare gli spazi aperti dal partito Baath in termini di
opportunità commerciali e speculazione edilizia. Sarà quello strato
sociale a garantire al governo sostegno dal 2011, contro una
fetta di popolazione che guardava alle opposizioni non perché sunnita
(la maggioranza nella città di Aleppo) ma come speranza di miglioramento
sociale. Che non arriverà, soffocato subito dalle priorità di gruppi
sponsorizzati e guidati dai regimi esterni e più interessati alla
fondazione di emirati religiosi più che alle riforme richieste da chi
scese in piazza nel 2011.
Le legittime ambizioni dei siriani sono state quasi immediatamente
dirottate dall’esterno, dal fronte anti-Damasco interessato a dividere
il paese: non è un caso che già dal 2011 quelle richieste siano scomparse
e la guerra sia diventata uno scontro politico-strategico.
Il processo di ricostruzione dovrebbe seguire linee di pacificazione
sociale, economica e politica, dovrebbe rivalorizzare le città e
rilanciare le campagne, oggetto di marginalizzazione nel secolo scorso e
oggi svuotate: con 5 milioni di rifugiati e 7 milioni di sfollati
interni, intere comunità restano fantasma. Se ad Homs sono rientrate
21mila famiglie nel 2018, nello stesso periodo oltre 900mila siriani
sono fuggiti da Afrin a nord e Deraa a sud.
È in tale contesto che la scorsa primavera
il governo ha approvato la legge 10 che impone la presentazione dei
documenti che attestano la proprietà della casa entro 30 giorni
dall’individuazione da parte delle autorità delle cosiddette zone di
sviluppo (ovvero destinate alla ricostruzione). Così il
proprietario può reclamarla per sé. Chi non lo fa la perde, ricevendo in
cambio una compensazione in denaro o un alloggio alternativo.
Una possibilità affatto peregrina con 12 milioni di persone sfollate
interne o rifugiate all’estero, con abitazioni distrutte insieme al loro
contenuto e con mezzo milione di morti, di cui molti padri di famiglia a
cui erano intestati i beni. Amnesty ha definito la legge
«un’operazione di ingegneria sociale», indicando come prime vittime i
residenti nelle aree che furono in mano alle opposizioni e fuggiti dai
conseguenti scontri.
La situazione politica attuale non aiuta: di opposizioni politiche
credibili non ce ne sono e il governo immagina la ricostruzione come
strumento di rafforzamento. E a pesare sono le mani delle grandi
imprese e degli Stati che si allungano già su un affare
multi-miliardario, ostacoli permettendo: al momento la Siria resta
schiacciata dalle sanzioni internazionali e dall’incapacità di
sfruttare le (limitate) riserve energetiche di cui gode. Ma Russia,
Cina, Arabia Saudita, Iran, Emirati sono tutti alla porta.
A Mosca Assad ha già promesso la parte del leone; Pechino ha saputo
mantenersi neutrale per potersi infilare nel business con la Nuova Via
della Seta; Teheran ha investito miliardi di dollari e forze militari
per tenere in sella il presidente e ora cerca una ricompensa non solo
politica; Riyadh ha già fatto visita a Raqqa fiutando l’affare; e Abu
Dhabi sta mettendo da parte il ruolo di incendiario e tentando un
fruttuoso riavvicinamento a Damasco. Stati Uniti e paesi europei stanno
alla finestra.
Perché dove prima c’era un paese stabile ora ci sono macerie. Prima
del 2011 la Siria cresceva a una media del 4% l’anno, offriva scuola e
sanità gratuite, registrava un tasso di disoccupazione all’8,6%. Il
tasso di povertà era superiore al 28%, ma era attutito dal radicamento
delle reti sociali e familiari; oggi sfonda l’80%. A dare il
primo colpo sono state le sanzioni internazionali che hanno mangiato un
terzo del Pil nei mesi immediatamente successivi allo scoppio del
conflitto.
Poi è seguito il resto: la distruzione di fattorie, fabbriche, di un
terzo delle abitazioni private e della metà delle strutture sanitarie e
di quelle educative. L’export è crollato del 92%, le riserve di valuta
straniera dai 21 miliardi del 2010 a un miliardo, il budget nazionale
ridotto all’osso (5 miliardi di dollari) e il Pil è passato da 60
miliardi a 15 nel 2016. Mezzo milione di posti di lavoro si perdono ogni
anno. Il prezzo dei beni di prima necessità come riso e farina è
raddoppiato, quello del carburante è dieci volte quello del 2010.
La Siria è tornata indietro di mezzo secolo: la vita media è crollata da 76 anni nel 2011 agli attuali 56.
Senza dimenticare che un’intera generazione, quella dei bambini nati
subito prima e durante il conflitto, ha conosciuto solo guerra.
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