Nel mese di ottobre, per un paio di settimane, i media italiani hanno messo al centro dell’attenzione la nascitura manovra finanziaria del governo spagnolo. La genesi e la composizione di quest’ultimo (un monocolore socialista con l’appoggio esterno di Podemos, nato dopo una mozione di sfiducia al precedente governo di centrodestra) più alcune delle misure annunciate avevano scatenato non pochi entusiasmi, tra i più ottimisti.
Alla prova dei fatti questa manovra, verosimilmente, non vedrà mai la luce. Per essere approvata avrebbe, infatti, come minimo bisogno anche dell’appoggio delle diverse forze autonomiste ed indipendentiste presenti nel parlamento spagnolo. I partiti catalani hanno, tuttavia, messo in chiaro da diverse settimane che non hanno nessuna intenzione di votare alcunché, fino a quando la loro agibilità politica – attualmente impedita dalla presenza in carcere di diversi loro esponenti, a seguito del referendum del 1° ottobre 2017 – non sia ristabilita e garantita.
Al margine della discussione, senza dubbio rilevante, sui contenuti che la manovra finanziaria spagnola avrebbe potuto presentare se fosse andata in porto, è interessante provare a fare un passo indietro ed analizzare con attenzione cosa sia accaduto all’economia spagnola negli anni più recenti: la Spagna ha sperimentato, infatti, tassi di crescita relativamente alti, accompagnati da un bilancio pubblico persistentemente in deficit. Questi due elementi ci impongono una riflessione sui margini di azione esistenti, nella gabbia europea, nel definire le politiche economiche di un Paese e sulla direzione che queste ultime, al di là delle apparenze più immediate, possono realmente prendere.
Negli ultimi anni la Spagna è stata raccontata, in particolare dai politici locali ma anche dai media nostrani, come uno dei Paesi europei più dinamici ed in salute, in particolare se raffrontata con i suoi vicini (ad esempio l’Italia...).
È fuor di dubbio che la crescita del PIL sia stata più rapida in Spagna (+3.7% nel 2017, per esempio) che negli altri grandi Paesi europei (Germania 2.1%, Francia 1.6%, Italia 1.5%, Regno Unito 1.2%).
Apparentemente, i sacrifici e la sofferenza degli spagnoli per gli anni di austerità e riforme strutturali, ‘raccomandate’ dalla Troika e messe in atto dai Governi tanto del PSOE (il Partito Socialista, partito di centrosinistra di orientamento liberale) quanto del PP (il Partito Popolare, destra conservatrice e liberista), hanno dato i loro frutti. Non a caso l’ex presidente del Consiglio, il popolare Mariano Rajoy, non ha mancato, in numerose occasioni, di compiacersi per l’operato del proprio governo e per il successo delle sue politiche di austerità.
Ma cerchiamo ora di capire quale sia stata la chiave del presunto successo dell’economia spagnola negli ultimi anni. La narrazione ufficiale, del governo e delle istituzioni internazionali che impongono e applaudono le politiche di austerità e deflazione interna, è la seguente: grazie alla riduzione del deficit e alle riforme del mercato del lavoro, l’economia spagnola è riuscita ad incentivare gli investimenti, contribuendo così alla riduzione della disoccupazione. Inoltre la Spagna è passata dall’essere un Paese importatore netto ad avere un avanzo nella bilancia commerciale, ovvero una situazione in cui le esportazioni di un paese eccedono le importazioni. Si tratta tuttavia di una narrazione tossica che proveremo a smentire, tassello per tassello, nelle righe che seguono.
Come possiamo vedere nella figura 1, la riduzione del rapporto deficit/PIL è un fatto, così come lo è il cambio di segno nel bilancio del settore estero (per semplificare, quando questo è negativo – come succede a partire del 2012-2013 – le esportazioni sono maggiori delle importazioni). Ciononostante, se compariamo la posizione di bilancio del settore pubblico che ci viene descritta dalla figura 1 con la figura 2 – dove vediamo il contributo dato alla crescita dalle diverse componenti della domanda aggregata – possiamo notare che quando l’economia spagnola torna a crescere, nel 2014 e negli anni seguenti, la spesa pubblica ha un ruolo ed un impatto positivo sulla crescita del PIL. Dal 2014 la spesa pubblica in termini reali è aumentata, grazie anche alle concessioni fatte dalla Commissione Europea al partito allora al Governo, il Partito Popolare, attribuibili in parte alla fedeltà neoliberista del Governo sulle riforme del lavoro e verosimilmente anche al tentativo di contrastare la forte crescita nei consensi di Podemos. Dal 2014 in avanti, quindi, l’austerità indubbiamente retrocede e, anche se in misura minima, la spesa pubblica aumenta. La riduzione del rapporto deficit/PIL degli ultimi anni è frutto della maggiore crescita del PIL, non di certo della riduzione della spesa pubblica.
Figura 1: Bilancio finanziario dei settori istituzionali in % del PIL (2000-2018)
Fonte: INE (Istituto Nazionale di Statistica)
Figura 2: Contributo alla crescita delle componenti del PIL e crescita del PIL (2000-2018)
Fonte: AMECOPer quanto riguarda l’avanzo delle partite correnti (in sintesi, di quanto le esportazioni sono maggiori delle importazioni) che vediamo, a partire dal 2013, nella figura 1, la versione ufficiale ci racconta che le cause sono da ricercare nelle controriforme del mercato del lavoro e nella compressione salariale, che avrebbero reso l’economia spagnola più competitiva. Possiamo tuttavia notare che, da quando l’economia spagnola è tornata a crescere, solamente nel 2016 la bilancia commerciale ha dato un contributo rilevante alla crescita del PIL. Di fatto, dal 2014 il contributo medio della bilancia commerciale è nullo. Quindi, anche se la Spagna risulta un Paese esportatore netto, ciò non implica che la crescita vada attribuita necessariamente a questa circostanza. In secondo luogo, se guardiamo all’evoluzione di esportazioni ed importazioni nella figura 3, scopriamo che le esportazioni sono cresciute ad un ritmo simile a quello precedente gli anni della crisi. L’avanzo della bilancia commerciale è quindi dovuto in gran parte alla caduta delle importazioni negli anni di recessione economica. La caduta del PIL comporta, infatti, una riduzione dei consumi, una parte dei quali riguardano beni importati, negativamente influenzati da un andamento negativo dell’economia. Inoltre, anche l’andamento del prezzo di alcune materie prime fondamentali, tra cui il petrolio, contribuisce a spiegare la flessione delle importazioni. Il prezzo del petrolio è stato in calo dal marzo 2012 (118 dollari al barile) fino al principio del 2016 (28 dollari al barile): è stato stimato che a fronte di un aumento di 10 dollari nel prezzo di un barile di petrolio, le importazioni aumentino di 0.7 punti rispetto al PIL, e che si riduca il contributo dato dalla bilancia commerciale alla crescita di 2 decimi percentuali.
Figura 3: Andamento di investimenti, export, import e PIL (2010 = 100)
Inoltre, l’aumento continuo delle esportazioni non è automaticamente legato alla caduta dei salari e alla maggiore competitività di prezzo dell’economia spagnola che ne sarebbe derivata. Da un lato, questa maggiore competitività discende verosimilmente dalla notevole svalutazione che l’euro ha vissuto a partire dal 2010. Dall’altro, l’unico settore economico in chiaro rialzo negli ultimi anni è stato il turismo. Quest’ultimo ha registrato un massimo storico nel 2017, con un aumento (rispetto al 2015) delle visite del 15% e delle spese per turista del 20% – e nel 2018 si è mantenuto sui livelli del 2017. È chiaro che le riforme del mercato del lavoro applicate dopo la crisi, oltre ad assicurare manodopera a buon mercato, rendono i lavoratori facilmente licenziabili dopo la stagione estiva e ciò risulta ‘ideale’ per un settore come il turismo che si nutre di lavoratori precari. È però innegabile che l’aumento delle visite turistiche in Spagna sia anche, principalmente, un sottoprodotto dell’instabilità che vivono Nord Africa e Turchia dal 2010. In ogni caso, l’aumento di esportazioni di servizi collegati al turismo ed ai viaggi è il fattore che ha spinto maggiormente verso una situazione di avanzo della bilancia commerciale. Allo stesso tempo, tuttavia, l’economia spagnola mantiene un deficit nelle esportazioni nette di beni e servizi qualora non si consideri il settore turistico.
Guardando il quadro nel suo insieme, si può concludere che l’aumento delle esportazioni ha poco a che vedere con una presunta maggiore competitività dell’economia spagnola nel suo insieme. Di fatto, con i prezzi delle materie prime e del petrolio di nuovo in aumento e i flussi turistici stabili, le previsioni attribuiscono alla bilancia commerciale un contributo nullo (o appena negativo) alla crescita del PIL per il 2018.
Può essere utile anche concentrarsi brevemente sull’evoluzione dell’occupazione giacché, secondo la retorica ufficiale, le riforme del mercato del lavoro e l’austerità avrebbero incentivato gli investimenti e la creazione di posti di lavoro.
Come possiamo notare dalla figura 3, gli investimenti (totali e residenziali) non hanno ancora recuperato i livelli pre-crisi. Di fatto anche il PIL ha recuperato il terreno perduto solamente nel 2017, mentre gli investimenti si accingono a farlo solamente quest’anno. Con una ripresa economica così lenta e investimenti stagnanti, non sorprende che la creazione di impiego continui ad essere piuttosto lenta. Bisogna ricordare che la maggior parte dei posti di lavoro creati negli anni precedenti la crisi erano collegati al mercato immobiliare e che proprio questo settore è stato colpito in maniera particolarmente feroce. Nessun altro settore, negli anni successivi la crisi, è stato capace di compensare la perdita di lavoro nell’edilizia e questo spiega come il tasso di disoccupazione si trovi ancora al 15% (dopo avere superato il 25% nel 2014), il secondo più alto dell’Eurozona dopo la Grecia. Anche solamente questo dato dovrebbe essere sufficiente a smentire la retorica trionfalista del passato Governo conservatore.
Questa breve disamina del processo di crescita dell’economia spagnola dimostra come la retorica ufficiale del successo delle politiche di austerità e delle riforme strutturali non sopravviva neanche ad un minimo scrutinio critico. La crescita economica spagnola, innegabile, è frutto sia dei deficit consentiti dalla UE a fronte di politiche neoliberiste sul mercato del lavoro, sia del temporaneo e contingente boom del precario settore turistico. Nonostante le narrazioni entusiaste, l’economia spagnola, di fatto, non è molto cambiata. Alti tassi di disoccupazione in epoche di crescita sono una caratteristica del Paese da ormai 40 anni. La sola cosa che è davvero cambiata, ed in peggio, è la qualità della vita dei lavoratori, immersi in un mercato del lavoro sempre più precario e con salari sempre più bassi.
Se ne può concludere che le politiche di marca neoliberista, anche dove accompagnate da politiche di bilancio in deficit e da modesti tassi di crescita, definiscono sempre e comunque un quadro socio-economico di precariato, bassi salari, compressione dello Stato sociale, indebolimento dell’industria e specializzazione produttiva in settori instabili ed a basso valore aggiunto come il turismo. La stessa tolleranza delle istituzioni europee sull’eventuale e temporaneo sforamento dei parametri di Maastricht è evidentemente condizionata, in Spagna come altrove, all’applicazione rigorosa di politiche di sfruttamento e precarizzazione del mercato del lavoro. L’eventuale crescita economica permessa nel perimetro dell’Unione Europea è crescita per pochi a danno dei molti, accompagnata da aumento delle disuguaglianze, deindustrializazione e povertà.
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