Se bussi alla porta con la dovuta energia c’è una probabilità più alta che la porta si apra. O almeno si incrini la lastra d’acciaio eretta contro la mobilitazione e i bisogni popolari.
Tutti i media mainstream stanno dado in queste ore un’anticipazione: il primo ministro francese Edouard Philippe annuncerà una moratoria di alcuni mesi sull’aumento delle tasse sui carburanti, goccia che aveva fatto traboccare il vaso del malcontento e fatto scattare la mobilitazione generale sotto il segno dei gilet gialli.
L’annuncio viene dopo tre giornate di blocchi e scontri in tutta la Francia (qui in Italia si è parlato solo di Parigi, ma a Marsiglia è morta una donna anziana colpita dai lacrimogeni dentro casa, a Tolosa c’è un manifestante in coma) e in seguito all’annullamento di un incontro – anch’esso annunciato – tra il primo ministro e la cosiddetta “ala dialogante” dei Gilets Jaune.
L’aumento delle tasse su benzina e diesel sarebbe dovuto scattare dal primo gennaio, ma ora il governo dovrebbe rinviare – non annullare – la decisione a “tempi migliori”.
Diciamo che si tratta di una classica mossa per uscire dall’angolo (oltre l’80% della popolazione vede positivamente i gilets) senza concedere nulla. Il rinvio, infatti, è un modo per far sbollire la rabbia, far emergere le anime più “dialoganti”, sedare la mobilitazione dando l’impressione che si accetti di fare marcia indietro. E nel frattempo preparare meglio la seconda ondata dell’offensiva.
A questo punto si potrà misurare il livello di maturità politica del movimento nel suo insieme. Nel corso di queste settimane, infatti, la lista delle rivendicazioni si è molto arricchita, prendendo la forma di una complessiva piattaforma sociale (salario, welfare, casa, integrazione, trasporti pubblici, ecc), in gran parte condivisibile da qualsiasi altro movimento del Vecchio Continente.
Anche i pestaggi della polizia, con centinaia di feriti e arresti, hanno fatto maturare una volontà di scontro politico più alta, riassunta nella richiesta principale del movimento: le dimissioni di Macron.
Ma può valere anche l’opposto, come in ogni conflitto seri che si rispetti. Il primo “cedimento”, se il movimento francese riuscirà a mantenere la sua capacità di allargarsi a tutti i settori popolari mostrata in queste settimane, può trasformarsi in una ritirata progressiva (o rapidissima, dipende da molte condizioni) dell’establishment macroniano. Ossia nella prima seria sconfitta del “neoliberismo europeista” ad opera di un movimento che ha molte anime, ma dove è ormai chiaro che non ha alcun serio peso il “populismo nazionalista”.
Come ha sottolineato qualcuno che non appartiene affatto al fronte progressista, e anzi simpatizza con Macron, si tratta della “prima aggregazione transpartitica dai tempi della rivolta della farina di fine Settecento, quando esplose la Rivoluzione Francese”. Anche in quel caso per uno dei tanti “aumenti dei prezzi” decisi da un’autorità centrale (la monarchia di Luigi XVI).
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