Le fortune dei film spesso sono la risultante di più fattori, molti
dei quali variabili indipendenti che riescono a mettere in moto un
meccanismo di accelerazione improvvisa capace di portare una pellicola
alla ribalta. Un aneddoto che riguarda uno dei protagonisti, una
dichiarazione azzeccata del regista, un dibattito critico nato intorno
alla sessa produzione o la scomparsa del regista: tanti film hanno
incontrato le proprie fortune a partire da eventi simili, su strade poco
battute o lastricate di criticità. Altri, invece, hanno potuto
sfruttare la casualità del timing perfetto, ossia la capacità di
trovarsi al posto giusto nel momento giusto, senza che vi fosse però una
necessaria correlazione tra le intenzioni del regista e il mondo reale,
lì fuori. In Guerra di Stéphané Brizé ne è prova tangibile: un
film che mette al centro la lotta operaia per il lavoro nel Sud della
Francia e che ha timbrato il cartellino delle nostre sale proprio nei
giorni in cui la protesta dei gilet jaunes tiene banco in ogni
notiziario. Certo, non stiamo parlando di una diretta relazione tra le
due narrazioni – troppo diversi sono contesti e protagonisti: da una
parte operai di una fabbrica che sbarcano il lunario per superare i 1000
euro mensili, dall’altra gli interessi a trazione borghese alla radice
della protesta che infiamma la Francia – salvo poi quest’ultima essersi
trasformata in lotta di popolo generalizzata e in rigurgito anti-UE e
anti-Macron. Brizé, però, non si è inventato davvero nulla di nuovo; anzi, è un film che in termini di plot
non aggiunge nulla ad altri (simili) che lo hanno preceduto e che a
vario titolo hanno toccato il tema della crudeltà del mercato del
lavoro. Ha semplicemente preso di petto la realtà, ha confezionato una
pellicola dal tratto squisitamente documentario come fosse stato un
collage di notiziari. Prendete una fabbrica in chiusura e gli operai in
lotta; aggiungete la quotidianità dei TG che raccontano del braccio di
ferro, della trattativa, della distensione e poi della degenerazione,
della violenza proletaria e dell’infamia padronale. Brizé non è pioniere
di un nuovo genere cinematografico, ma ha saputo sentire la pancia
della gente, conscio del fatto che avrebbe toccato le corde giuste e
avrebbe parlato di quello che vediamo intorno a noi ogni giorno. E per
questo motivo lo reputiamo familiare, immediatamente riconducibile al
nostro microcosmo. Lo reputiamo nostro, e nostra è anche la rabbia che
sperimentiamo nell’empatizzare con gli operai in agitazione.
La Perrin è un’azienda di proprietà tedesca che opera nel settore
automobilistico. Nella sede francese del gruppo operai e dirigenza
firmano un accordo nel quale viene chiesto uno sforzo salariale per
salvare l’azienda, ovvero un monte ore che gli operai devolvono
gratuitamente all’azienda per rilanciarne la competitività e
scongiurarne la dimissione. Il sacrificio prevede, in cambio, la
garanzia del mantenimento dell’occupazione per almeno 5 anni dalla
stipula dell’accordo. Due anni dopo l’azienda annuncia di voler chiudere
baracca e burattini e di dover procedere ad un licenziamento di massa,
facendo divampare la rabbia di 1100 operai e dando inizio ad una
durissima protesta e a un braccio di ferro sindacale condotto dal
portavoce Laurent Amédéo (Vincent Lindon).
La pellicola si cimenta nel difficile compito di documentare e al
contempo dare una visione politica dei fatti, attraverso un’altalena di
immagini e ritmi di scena scanditi da una colonna sonora che ci ha
lasciati favorevolmente impressionati per l’audacia (c’è spesso un fitto
gioco di bassi, talvolta duri da digerire) di Bertrand Blessing. La
narrazione proposta da Brizé non trascura nessun particolare: c’è
l’affermazione della dignità del lavoro e della realizzazione dell’uomo
nella lotta per il lavoro, c’è la critica politica alle fredde logiche
del mercato e la meschinità della delocalizzazione; c’è la
riqualificazione della fabbrica, la vertenza sindacale e
l’autorganizzazione dei lavoratori. Ci sono poi due importanti
protagonisti cui il regista decide di dare (giustamente) ampio spazio.
Da un lato la fratricida dinamica della divisione dei lavoratori,
stremati da 2 mesi di lotta e dall’incubo di non ottenere neanche la
buonuscita. Si instilla il dramma del tradimento, del crumiraggio: il
trionfo del divide et impera del padrone, l’annosa questione
della divisione molecolare che attanaglia ogni lotta (o ciò che ne
rimane) delle organizzazioni politico-sindacali nel mondo del lavoro.
D’altro canto, poi, c’è la questione della “violenza”: la questione del
suo uso e del suo significato, il labile confine tra l’aggressione
fisica e la violenza psicologica, assassina dell’abuso di potere, del
diktat padronale. La violenza come terreno di scontro non tra le classi
ma nella classe: la classe operaia in sciopero che si spacca
in seguito all’aggressione perpetrata da alcuni dai fedelissimi di
Amédéo ai dirigenti della Perrin (immagine mutuata dalla nota
aggressione ai dirigenti di Air France nel 2015).
Ebbene, anche nei momenti di pathos in cui la forza del meccanismo
collettivo viene messa a repentaglio dalla spaccatura del fronte operaio
e dalla guerra intestina tra le sigle sindacali che agitano la
protesta, Brizé mantiene la camera sulla dimensione collettiva, fuggendo
la tentazione di scendere nel dettaglio personale, nel tratteggio
biografico di anche uno solo dei protagonisti. Una scelta urlata in
maniera ancora più forte nel duro finale che il regista ha scelto per la
lotta di Amédéo e dei suoi compagni, dove il gesto del singolo è parola
collettiva, dove la disperazione individuale lascia spazio alla
reazione di massa. Un esperimento che Brizé ha avuto il lusso di
permettersi grazie ad un eccezionale interpretazione di Lindon, valore
aggiunto di un film che – al netto delle produzioni che spesso infestano
le nostre sale cinematografiche a 8 euro a sera – vale sicuramente la
pena vedere.
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