Carlo Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo!, Meltemi, Milano, 2018, pp. 276, € 18,00.
Almeno da Utopie letali (2013), Formenti porta avanti la sua personale battaglia per l’affermazione di un populismo “di sinistra”. Se però il saggio del 2013, nonché La variante populista (2016) – malgrado il tono lapidario – lasciavano i ragionamenti in sospeso, alimentando un fecondo margine d’apertura verso chi, a sinistra, insisteva nell’ideologia post-operaista variamente (e inconsapevolmente) declinata, da un po’ di tempo questa propensione alla convergenza sembra essere venuta meno. Spostandosi di propensione e di prospettiva, anche le possibilità di dialogo si disperdono. Non rimane che accettare o rifiutare un discorso che si stringe sempre più in proposta politica, che però continua a mancare (nei fatti più che nelle aspirazioni). È un peccato, perché mai come oggi continua ad essere necessario l’incontro di ragioni più che la sua vicendevole eliminazione. Partiamo dalle cose che funzionano.
Quel che la “tradizione comunista” insiste a non cogliere, è che il futuro sembra scivolare verso una riproposizione sbilenca e sgangherata (e forse anche impotente) del 1789 e non del 1917. Prima di tornare alla «autonomia politica del proletariato», per dirla in termini solenni, sembra sempre più evidente che dovremmo reintrodurre margini minimi di democrazia tanto sostanziale quanto formale. Lo sviluppo contraddittorio ma travolgente del liberismo a livello planetario sta sempre più modellando società polarizzate oltre ogni limite di sopportazione. Vista dal basso, questa polarizzazione non si presenta come mero fatto di classe. Ne abbiamo costanti prove nelle vicende della politica di questo decennio. Da Trump alla Brexit, dai gilets jaunes al governo “gialloverde”, le sfide al potere liberale-liberista non provengono da uno specifico settore di classe, ma da una multiforme e frastagliata sommatoria sociale di sconfitti. Questi hanno poco in comune tra di loro, ma quel che li tiene insieme, almeno sul piano della protesta elettorale, è la critica al capitalismo globalizzato e ai suoi referenti politico-culturali. È in formazione un Terzo stato dalle caratteristiche quantitative similari a quello pre-rivoluzionario del XVIII secolo. Visto dall’alto, viceversa, un capitale definitivamente globalizzato trova personificazione in una borghesia transnazionale sempre meno numerosa e sempre più disancorata da riferimenti materiali: siano essi un territorio, un contesto produttivo, una lingua alternativa global english, una cultura radicata, eccetera. Una borghesia sempre più somigliante ad un’aristocrazia, persino nei legami parentali che la unificano. Dobbiamo liberarci del tiranno.
È dentro questa dimensione che bisogna ragionare, e l’unico modo per farlo – dice Formenti – è raccogliere la sfida del populismo, che si presenta come originale forma delle lotte di classe del XXI secolo in Occidente. Più che rifiutarlo, bisogna attrezzarsi ad attraversarlo, rischiando molto ma al tempo stesso rimanendo nel vivo del gioco. Non sapremo quando inizierà la prossima rivolta, che forma prenderà, quale direzione assumerà: sappiamo però che l’unico modo che abbiamo per “giocarci la partita” è stare dentro il conflitto, anche quando straniante, e non commentarlo da fuori e dall’alto della nostra esperienza rivoluzionaria (che, al momento, non ha più nessuno in Italia). Ancora: sempre seguendo il ragionamento di Formenti, abbiamo il dovere di affrontare i temi che il populismo innalza a sue bandiere ideologiche. Tutti temi che possono ridursi a uno: crisi economica e Unione europea hanno generato una nuova questione nazionale (che, come sempre, maschera una questione sociale), e su questa si avverte la mancanza di idee nella sinistra. Gli uni rifiutando ogni discorso che possa anche solo lambire idee come nazione e sovranità; gli altri, a destra, declinando questi temi in chiave direttamente reazionaria, confondendo nazione con nazionalismo e sovranità con sovranismo: in altre parole, confondendo i rapporti di produzione con i rispecchiamenti culturali.
Questo discorso di fondo, che attraversa i ragionamenti di Formenti da qualche anno a questa parte, non è però l’unica cosa utile che possiamo rintracciare nei suoi libri. Almeno un’altra battaglia va rivendicata come decisiva del nostro tempo e dentro la sinistra: quella che combatte il relativismo a-veritativo che fonda da decenni il punto di vista della sinistra radicale. Ci siamo abituati all’idea che la storia non lasci dietro di sé verità dialettiche, ma solo punti di vista confliggenti. È uno dei frutti avvelenati del pensiero operaista, che Formenti così argomenta:
La maggioranza di coloro che oggi si considerano progressisti sono convinti che non esistano fenomeni sociali oggettivi, dotati di realtà autonoma, ma solo “regimi di verità” generati dal linguaggio. La teoria degli atti linguistici è diventata la Bibbia delle scienze sociali, al punto che l’atto di denotare viene concepito come qualcosa che crea la realtà piuttosto che rappresentarla. Tale convinzione sta alla radice dell’orrore che intere generazioni di giovani intellettuali provano nei confronti del “sostanzialismo” del pensiero novecentesco, della sua fede nell’esistenza di fenomeni reali e oggettivi; per tutti costoro il pensiero moderno incarna la tirannia di categorie che inchiodano i soggetti individuali e collettivi a identità predefinite [p. 81].
Il comunismo non è però pensabile fuori dalla necessità storica. Questa, a sua volta, non è comprensibile senza cogliere l’uomo nella sua dimensione spersonalizzata, che lo inchioda – per dirla con Formenti – a una storia che prescinde dai soggetti e dunque dalle semplici volontà. Allo stesso tempo, nonostante le volgarizzazioni seguite dopo, Marx non mette in scena un mero evoluzionismo. Per Marx «non è la storia che utilizza l’uomo per realizzare i propri fini, come se fosse una persona indipendente: essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i propri fini». Allo stesso tempo, seguendo il Merleau-Ponty di Umanismo e terrore, «la storia umana non è la semplice somma di fatti giustapposti – decisioni e avventure individuali, idee, interessi, istituzioni – ma essa è, nell’istante e nella successione, una totalità, avviata verso uno stato privilegiato che dà il senso dell’insieme. […] La storia ha un senso solo se c’è una specie di logica della coesistenza umana, che se non rende impossibile l’avventura, per lo meno, come attraverso una selezione naturale, elimina alla lunga quelle che costituivano una diversione in rapporto alle esigenze permanenti dell’uomo».
Concludendo, la tesi centrale del marxismo è dunque l’identità del soggettivo e dell’oggettivo, che dilegua il volgare evoluzionismo positivistico di fine Ottocento ma, al tempo stesso, non fa discendere il comunismo da improbabili atti di volontà scollegati da una necessità storicamente rintracciabile. La verità è dunque il motore delle lotte di classe. Se questa verità è però sempre relativa non è più una verità, ma un punto di vista, di cui il motore è per l’appunto il soggetto, in lotta contro altri soggetti per l’affermazione di sé.
Questa digressione serve ad inquadrare e spiegare una delle difficoltà dell’attuale fase politica della sinistra: se l’autopercezione di sé è vincolata ai soggetti particolari che la compongono, come fare nell’inquadrare non solo il senso della realtà (evidentemente avrà un senso specifico per ogni soggetto, quindi, letteralmente, non avrà un senso) ma, a questo punto, il soggetto (sociale, politico, filosofico) attorno a cui organizzare una società alternativa?
È qui uno dei nodi dirimenti, ma che paradossalmente non viene sciolto dal paradigma populista fatto proprio dall’autore (il soggetto c’è anche in Formenti: il “popolo” – costruzione politica che assume le sembianze di chi la costruisce), ma persiste nella sua incomprensibilità.
Veniamo dunque ai conti che non tornano di questo suo ultimo libro.
Formenti proietta direttamente il modello anticoloniale della seconda metà del Novecento sui paesi occidentali di oggi. Il paradigma politico è noto: una lotta di liberazione nazionale portata avanti da un blocco sociale formato da strati popolari e borghesia nazionale, guidato o egemonizzato politicamente dalle forze della sinistra. Questa la proposta di fondo per i nostri giorni: esiste già un blocco sociale di fatto, quello degli sconfitti della globalizzazione, che in questi anni si è espresso sostanzialmente in contrapposizione elettorale allo status quo liberale-europeista. Il populismo è lo strumento ideale, perché non costringe tutta la realtà dentro uno scontro tra classi contrapposte (come vorrebbero le posizioni marxiste), ma unisce più ragioni sociali in nome della lotta all’aristocrazia liberale-liberista di cui sopra.
Lo strumento pratico dovrebbe dunque essere un movimento politico che si intesti i temi agitati dal populismo (in buona sostanza: il recupero della “sovranità nazionale” in funzione di difesa della “sovranità economica” con cui portare avanti politiche di redistribuzione) e li declini a sinistra. Il problema è che lo schema populista – la “rivoluzione” borghese a guida proletaria, per farla breve – non può essere replicato in contesti così distanti nel tempo e nello spazio. La borghesia nazionale dei paesi colonizzati era una borghesia dipendente dall’imperialismo, laddove la borghesia dei paesi occidentali è indipendente e protagonista delle politiche ancora oggi neocoloniali o, se vogliamo, direttamente imperialiste. Se “l’indipendenza della patria” è un fattore reale che teneva (e tiene) momentaneamente unite le ragioni tanto degli strati più popolari quanto delle borghesie accessorie, questa stessa indipendenza non ha alcun valore pratico-ideale per le borghesie dell’Occidente, che sono già indipendenti, e lo sono in quanto sfruttano altri Stati, altri popoli e altre borghesie. Di conseguenza, questa fatidica unione può anche prodursi su di un piano di multiforme critica all’ordine ordoliberale, ma si sfalda sul terreno della pars costruens. Se non si sfalda immediatamente, come vediamo nel caso italiano, è perché questa unione è idealizzata ma inesistente sul piano della pratica. I flussi elettorali del M5S, solo per accennare un esempio, non recuperano nulla nel bacino dell’astensione, ma attraggono (sempre meno) voti da ex elettori del Pd o della destra. Non per questo bisogna negare una certa composizione di classe dell’elettorato populista, ma è una composizione unicamente sociologica, che non produce attraverso “lotte populiste” una sua proposta politica (e una sua coscienza), limitandosi alla delega elettorale vinta, più che convinta, dalle demagogie antipolitiche o xenofobe.
Insomma, è sicuramente vero che “le periferie” votano per i partiti populisti (una verità peraltro parziale: in periferia, per lo più, vince l’astensione anche in presenza di forti affermazioni elettorali populiste), ma non bisogna innamorarsi di questo dato sociologico scambiandolo per ciò che non è e non può essere: una presa di coscienza.
Peraltro, quella che viene presentata come “novità”, e cioè la propensione all’alleanza tra proletariato e piccola-media borghesia, è piuttosto la costante politica dei partiti comunisti – occidentali e non – dalla Seconda guerra mondiale ad oggi. Solo per limitarci al caso italiano, il partito nuovo togliattiano non è altro che la dismissione dello scontro tra classi in vista di una guerra di posizione che, proprio perché lunga e mediata dal campo geopolitico d’appartenenza, prevede in nuce l’alleanza popolare di tutte le forze “contrarie alla reazione”: a Roma il Pci è il partito egemone tra i lavoratori autonomi e in nero, i tassinari, le maestranze edili e, soprattutto, la piccola borghesia intellettuale (per non dire dei lavoratori pubblici, anch’essi poco sovrapponibili alla profetica classe operaia). Senza fabbriche di rilievo al centro-sud, il Pci degli anni Cinquanta è già quel partito del popolo che dovrebbe guidare una riforma radicale dei rapporti di produzione attraverso un’alleanza, “di popolo” appunto, a guida proletaria e per mezzo delle elezioni. Uno schema, d’altra parte, che Togliatti recupera dall’esperienza spagnola della Guerra civile, che a sua volta risponde al cambio di prospettiva sancito nel VII congresso del Comintern del 1935. In sede di valutazione storica, il mitizzato partito della rivoluzione classisticamente inteso è un paragrafo circoscritto dell’esperienza politica del comunismo novecentesco, almeno nei paesi occidentali ma, favorito proprio dalle lotte anticoloniali, un po’ dovunque.
Se lo schema ideale è dunque discutibile (senza per questo rinnegarne il valore storico nonché l’idea-forza mitopoietica, questa sì importante da preservare, delle lotte anticoloniali contro l’imperialismo occidentale), ciò che invece appare più problematica è la cornice storico-filosofica entro cui acquisisce significato una lotta di questo tipo al capitalismo reale dei nostri giorni. Per Formenti la rivoluzione, lo stesso comunismo, rappresentano storicamente una critica della modernità, anzi, ancor più espressamente, una reazione ad essa:
Basta volgere lo sguardo alle rivoluzioni novecentesche: ognuna di esse ha incarnato il tentativo di opporre una strenua resistenza all’invasione del moderno [...] Si è trattato di altrettanti tentativi, non di schiacciare l’acceleratore, bensì di tirare il freno a mano della storia, di sabotare il treno del progresso piuttosto che salirci sopra. [...] “Rivoluzioni conservatrici” tradite da quei partiti comunisti che hanno invece imboccato la via della modernizzazione in competizione con il capitale, finendone travolti [pp. 20-21].
Siamo qui in presenza di un ribaltamento radicale del marxismo, filosofia del disvelamento del cammino dell’uomo nella storia quale processo dialettico verso l’autocoscienza. Marx è stato, e non poteva non essere, un’interprete critico della modernità, passaggio obbligato dell’uomo verso il progresso. Il comunismo stesso è pensabile unicamente per mezzo dello sviluppo tecnologico e delle risorse produttive, che altro non è che il frutto fecondo e progressivo della cooperazione umana. Se questo storicamente si presenta disancorato dalle reali necessità dell’uomo, se un certo quantum di tecnologia viene utilizzato contro, e non per, l’uomo stesso, se questo, infine, assume le sembianze di strumento di dominazione e non di liberazione, è dovuto all’incompiutezza di tale processo, non al processo in sé. La modernità è problematica perché è (ancora) poco moderna, non perché lo è troppo rispetto ai rapporti umani precedenti. Disconoscere questo fatto vuol dire disconoscere il percorso della filosofia classica tedesca di cui Marx, o per meglio dire il proletariato, è erede e non avversario.
Le conseguenze di questa impostazione appaiono subito più che problematiche. Lo scivolamento è evidente sia riguardo alla tecnologia: «Il movimento operaio non ha mai saputo cogliere l’elemento demoniaco della tecnica, la sua non neutralità rispetto ai rapporti di forza fra le classi (tutte le rivoluzioni tecnologiche, dall’Ottocento a oggi, si sono risolte in un rafforzamento del dominio/controllo del capitale sulla forza lavoro) [p. 21]», e ancora: «lo straordinario avanzamento tecnologico promosso dalla società capitalistica va contrastato in quanto è ecologicamente e antropologicamente distruttivo»; sia riguardo al significato della rivoluzione: «insomma: chi vuole opporsi al capitalismo non può non essere conservatore [p. 89]».
Attaccare le fondamenta filosofiche del marxismo non può, poi, che scardinarne quelle economiche, di cui sono una proiezione (checché ne pensi certo materialismo volgare, alla radice del marxismo c’è una visione del mondo, non uno studio dei suoi fattori produttivi). Nei fatti, se la lotta dell’uomo, per Formenti, è rivolta ad opporsi alla modernità (e quindi alla sua stessa storia, che procede in avanti e mai indietro), anche il piano economico perde di significato: «la chiave interpretativa del fenomeno delle crisi non [va] ricercata nelle dinamiche immanenti (nelle contraddizioni interne, come amano affermare i marxisti dogmatici) al modo di produrre, bensì nelle sue relazioni antagonistiche con altre sfere dell’attività umana. [p. 100]». Per giungere, infine, al completo rovesciamento del Capitale: «è arrivato il momento di accantonare il dogma immanentista che fa risalire le crisi alla contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione [p. 101]».
Conclusioni di questo tipo smentiscono i presupposti teorici a cui pure Formenti aveva ancorato la sua giusta polemica con l’attuale sinistra radicale. Se nei presupposti la realtà aveva dignità autonoma, era cioè il prodotto di una storia che è sì umana, ma non la semplice determinazione dei singoli comportamenti (il vero è l’intero, per dirla con Lukács), se dunque la storia possiede una sua intrinseca verità e quindi obiettività, nelle conclusioni ritorna il paradigma essenziale dell’italian theory, e cioè le determinazioni del soggetto. Il liberismo, la globalizzazione o, all’inverso, la crisi della sinistra, sono il frutto esclusivo di volontà politiche, per ciò stesse modificabili da altre volontà di segno opposto. Ma se la storia dell’uomo viene ridotta ad atto di volontà, da questa stessa storia non se ne potrebbe ricavare alcun senso, e con esso a non avere – letteralmente – senso sarebbe il comunismo stesso, comprensibile solo come processo dialettico (e probabilmente mai completo) verso la compiuta autocoscienza. Il comunismo senza necessità non è comunismo ma volontà di potenza (volontà di impotenza, visti i risultati). L’operaismo cacciato dalla porta rientra dalla finestra, e non a caso l’ancoraggio “nobile” avviene per mezzo dei soliti Schmitt e Tronti (un nazista e un parlamentare Pd: l’astuzia della ragione, chioserebbe Hegel). La rivoluzione operata da Marx (del resto allievo della filosofia tedesca da Kant a Hegel passando per Fichte e Feuerbach) sta nel determinare l’essenza del capitalismo a prescindere dalle volontà dei singoli capitalisti, e la necessità del comunismo a prescindere dalle capacità dei singoli rivoluzionari. Sgomberato il campo dalla necessità, messi in soffitta i rapporti di produzione, non resta che un esodo per giunta privo dell’ottimismo negriano e un campismo senza Stato guida. La lotta di classe è altrove.
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