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26/03/2019

Di fronte agli affari con la Cina la Ue scopre di non essere “unione”


Stanno saltando molte “narrazioni” intorno alla “comunità europea”. Tante delle formule retoriche stese a protezione del reale contenuto dei trattati, delle “regole” e delle direttive di Bruxelles (o della Bce) vanno svaporando di fronte al venire alla luce degli interessi sottostanti.

La Francia di Macron ha firmato insieme al presidente Xi Jinping l’ordine di acquisto di oltre 300 aerei Airbus (una joint venture industriale franco-tedesca, da cui l’Italia è rimasta fuori, all’epoca della fondazione, per compiacere l’alleato americano). L’ordinativo, siglato formalmente dalla holding dell’aviazione cinese Casc, è molto più cospicuo del previsto. Complice la crisi di immagine dei Boeing 737Max (ne sono precipitati due, nuovi di fabbrica, con centinaia di morti) il quantitativo è passato dai 184 aerei, inizialmente annunciati nel gennaio 2018, a 290 Airbus A320 e 10 A350.

Un assegno da quasi 30 miliardi di euro, accompagnato da accordi per altri 10 miliardi, ha fatto passare la Cina – nelle definizioni ufficiali di Macron – da “rivale sistemico” a “partner strategico”.

Per salvare la faccia, il piccolo banchiere francese ha avuto l’impudenza di presentarsi come interprete delle “preoccupazioni europee per i diritti fondamentali in Cina”. Lui, che a forza di decreti emergenziali sta trasformando la Francia in una Cayenna governata dalla polizia per proteggere se stesso, il suo governo e il grande business transalpino dalla protesta popolare di gilet gialli e dei sindacati “non complici”.

Oggi si affiancherà alla Merkel per chiedere – un po’ tardivamente – di affrontare i rapporti commerciali con Pechino con una “comune visione europea”.

Fin qui non era sembrata necessaria, visto che la più grande fetta di questo rapporto era stato appannaggio proprio di Francia e Germania. Da almeno un paio d’anni, per esempio, Duisburg è diventato il terminale ferroviario della Via della Seta; e nessuno aveva provato a chiedere una “condivisione comunitaria” per autorizzare questo prezioso asset infrastrutturale.

Ma il tour europeo di Xi Jinping sta sancendo che ogni paese dell’Unione si può e deve rapportare con Pechino con una forte attenzione alle possibilità di crescita economica che – guarda caso – sono invalidate dalle politiche di austerità imposte (soprattutto da Berlino) come “politiche europee”.

Ognun per sé, ben poco insieme (quando c’è da guadagnare). Ma fin quando gli accordi extra “motore franco-tedesco” erano stati siglati da Grecia (il porto del Pireo è stato venduto ai cinesi per ripagare parte del debito contratto con Ue e Fmi) e Portogallo, nessuno si era preoccupato troppo. Quando lo ha fatto un membro del G7 come l’Italia sono suonati tutti gli allarmi possibili e immaginabili.

Se la Cina investe davvero nel Mediterraneo – e lo sta facendo con cifre colossali – allora c’è la possibilità (o il rischio, vista dal Nord Europa) che il baricentro strategico dell’Europa si sposti verso la sponda meridionale, privando i soliti noti di una comoda rendita di posizione. Riaprendo, di fatto, anche spiragli sfruttabili per immaginare e perseguire differenti assetti sociali, fin qui “vietati” dalla struttura coercitiva dei trattati ordoliberisti.

Nelle stesse ore in cui in Francia si siglavano maxi-accordi, il commissario europeo al bilancio Guenther Oettinger, solo casualmente democristiano e tedesco, è stato protagonista di un’inaudita sortita censoria per l’Italia: «Vedo con preoccupazione che in Italia e in altri Paesi europei importanti infrastrutture strategiche – come reti elettriche, linee di alta velocità e porti – non sono più in mano europea, bensì cinese». Secondo lui i governi degli Stati membri non si rendono sufficientemente conto di quelli che sono «gli interessi nazionali ed europei». E quindi ritiene che «sarebbe opportuno pensare a uno strumento come il diritto di veto europeo oppure un dovere di assenso europeo, esercitato attraverso la Commissione» a qualsiasi tipo di accordo con Pechino.

Il terreno di sperimentazione di questo “diritto di veto” è al momento la possibilità di imporre a Huawei – colosso tecnologico delle reti, al momento in grande vantaggio sul wireless 5G – un “approccio comune” di gestione, per limitare i rischi dell’utilizzo della tecnologia cinese nelle reti 5G. Su questo, oggi, dovrebbe esserci già una “raccomandazione” della Commissione europea.

“La tecnologia Huawei è buona ed è economica, il solo problema è che è cinese“, ha affermato un diplomatico europeo parlando della posizione dei 28, quindi “l’approccio sarà vediamo come in qualche modo possiamo gestire i rischi di sicurezza, questa è chiaramente la direzione verso cui stiamo andando”.

E’ appena il caso di ricordare che , “grazie” alle politiche di austerità e alla storica sudditanza tecnologica nei confronti degli Usa, al momento non c’è alcuna società europea – né pubblica, né privata – che sia in grado di proporsi come alternativa credibile per l’infrastrutturazione e gestione delle reti 5G.

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