Peccato che siano gli stessi imprenditori a smentire tale visione idilliaca ed edulcorata dei rapporti produttivi, ricorrendo a ogni mezzo, lecito e illecito, pur di ristabilire la propria preponderanza. È ben noto, infatti, che i coraggiosi capitani d’industria, quando si trovano di fronte a una classe lavoratrice restia a sottomettersi, non esitano a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di schiacciare le rivendicazioni degli operai e ricondurli a miti consigli. Come racconta il Corriere della Sera,
«Ci hanno aggredito con bastoni e pistole elettriche. Erano una quindicina, tutti di una società che si occupa di sicurezza nei locali notturni». Così la testimonianza di un gruppo di lavoratori di tre cooperative di facchinaggio che forniscono i loro servizi a una società del Gruppo Faro collegata a Zara, brand spagnolo del patron Amancio Ortega, sesto fra i più ricchi del mondo con un patrimonio di 62,7 miliardi di dollari, secondo Forbes. Dall’inizio di marzo in tutta Italia sono cominciati stati di agitazione e scioperi nel settore del facchinaggio, gestito da altre società. A Roma, mercoledì mattina, momenti di tensione si sono registrati in un magazzino di merce in lunga sosta nella zona di Castel Giubileo. I lavoratori hanno denunciato un’aggressione da parte dei buttafuori fatti intervenire dal proprietario per allontanarli. Sul posto alcune pattuglie della polizia e le ambulanze del 118. «Quattro lavoratori sono finiti in ospedale, fra loro uno con un’abrasione a un braccio e un altro con la frattura di una mano», spiegano i sindacalisti della Cgil che poi nel pomeriggio hanno incontrato i rappresentanti dell’azienda nei loro uffici all’Esquilino. «Anche qui si sono portati dietro i buttafuori. Una situazione surreale», raccontano. Intanto la polizia indaga per ricostruire i fatti accaduti qualche ora prima. Alcune persone sono state identificate dagli agenti.Questa notizia testimonia, laddove ve ne fosse ancora bisogno, che siamo davanti a un fenomeno molto pericoloso: un vero e proprio salto di qualità nell’atteggiamento dei padroni verso le rivendicazioni dei lavoratori. Essi si sono sentiti in diritto di impartire a delle guardie private l’ordine di utilizzare armi vietate allo scopo di difendere i propri profitti messi a repentaglio da uno sciopero per condizioni di lavoro più degne. Siamo su una china sulla quale il concetto di ordine pubblico tende a diventare molto labile, in favore di un pericoloso concetto di ordine e disciplina che ricorda, molto da vicino, il fascismo.
Prova di questo cambiamento di rotta e di una sostanziale acquiescenza del Governo nei confronti di tali episodi è il disegno di legge di riforma della legittima difesa, che tra pochi giorni sarà, con tutta probabilità, legge dello Stato e che potrebbe portare questa tendenza verso episodi di repressione ancora più pesanti. La riforma in questione, infatti, tende a legittimare sempre più l’uso della violenza per la difesa della proprietà privata. Pubblicamente si parla di difesa contro furti e rapine, ma è facile immaginare che questo approccio fai da te alla giustizia possa essere esteso anche a picchetti, scioperi e occupazioni.
Si badi bene: non si tratta di allarmismo, ma della naturale conseguenza di quella che è stata l’evoluzione delle norme sulla legittima difesa. L’attuale formulazione, infatti, sulla quale la riforma dei giorni nostri va a incidere rendendo più larghe le maglie della presunzione di legittima difesa (e, al contempo, rendendo più difficile l’applicabilità delle norme sull’eccesso colposo di legittima difesa), è figlia di un processo che era già iniziato negli anni scorsi, per la precisione nel 2006, ai tempi del terzo governo Berlusconi. All’epoca, attraverso le legge 59/2006, fu aggiunto, tra le altre cose, un comma (il terzo) all’articolo 52 del codice penale per fare in modo che le norme che consentono ai soggetti di esercitare la legittima difesa in caso di violazione del proprio domicilio valgano anche “all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. Come una fabbrica, un centro commerciale o, per l’appunto, un magazzino merci.
Sebbene la riforma attuale non vada a incidere sulla possibilità, già prevista, da parte degli imprenditori, di utilizzare armi a difesa dei mezzi di produzione, essa testimonia l’affermarsi, complici le roboanti dichiarazioni di Salvini, di una temperie culturale che valuta il diritto alla difesa della proprietà privata allo stesso livello (se non a un livello più elevato) del diritto all’incolumità dei lavoratori e della lotta per i diritti sociali ed economici.
L’episodio di Castel Giubileo sembra purtroppo andare proprio in questa direzione. Gli autori dell’aggressione (o, più probabilmente, i loro mandanti) dovevano infatti essere convinti di avere una qualche legittimità nelle loro azioni. L’uso del taser (un’arma potenzialmente letale) dopo pochi mesi dalla recente approvazione dell’utilizzo di tale arma, in via sperimentale, presso le forze dell’ordine, non può non aver risentito della campagna mediatica sull’argomento, evidentemente considerata come un “via libera” alle azioni, anche violente, a difesa della proprietà e dei privilegi delle classi dominanti.
Questa escalation repressiva pone in maniera preoccupante l’attualità del fascismo, inteso come sistema di repressione e controllo di ogni forma organizzata di dissenso da parte delle classi subalterne nel capitalismo. Bisogna, infatti, fare una riflessione sul fascismo inteso non solo come razzismo o violenza di strada, ma sulla vera molla storica del fascismo come progettualità repressiva, cioè la reazione violenta e spaventata della classe padronale in conseguenza delle mobilitazioni dei lavoratori. Per reprimere scioperi e sovversivi, negli anni ‘20 furono usate le camicie nere per portare la repressione dove le forze dell’ordine non riuscivano ad arrivare, utilizzando modalità e livelli di violenza che le forze dell’ordine non potevano apertamente applicare. Il fascismo storico fu l’apice di questa tendenza in un periodo di estreme tensioni sociali e di concreto pericolo di un’evoluzione rivoluzionaria in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia. Il neofascismo stragista, nell’epoca delle tensioni sociali esplose dopo l’autunno caldo del 1969, fu ancora lo strumento di repressione usato dal capitale per sedare il conflitto sociale.
Il fascismo, è bene ricordarlo, è il cane da guardia rognoso e idrofobo della borghesia. Normalmente questa lo tiene in gabbia, dandogli magari in pasto qualche avanzo da rosicchiare, ma, non appena sente il bisogno di stroncare sul nascere le rivendicazioni dei lavoratori, scioglie il guinzaglio.
Al di là delle metafore è importante tenere a mente quanto fascismo e capitale siano legati. Al di là dei proclami bellicosi e del culto della violenza fine a sé stessa, la vera natura del fascismo è intrinsecamente legata alla difesa reazionaria dei privilegi dei ricchi, contro ogni cambiamento o progresso sociale, e alla violenza mirata contro i lavoratori. Ai nostri giorni, l’aspetto più immediato spesso espresso dalle varie sfaccettature del neofascismo è rappresentato dall’odio e dalle spedizioni punitive contro tutti coloro che sono considerati deboli o emarginabili, come immigrati o omosessuali. Oggi si parla spesso di questo tipo di aggressioni, sulle quali c’è un minimo livello di sensibilità nella società. La questione è, tuttavia, più ampia e l’azione di fanatici estremisti che se la prendono con i diversi o i diseredati della terra ha un aspetto complementare nel ruolo che i fascisti giocano a difesa degli interessi economici dei padroni.
Non si può prescindere infatti dall’aspetto reazionario più generale del fascismo sia come fenomeno storico sia come rigurgito effettivo o potenziale espresso, in forme nuove, nel contesto della società contemporanea. Combattere il fascismo nelle sue diverse espressioni implica in primo luogo comprenderne la natura più profonda e gli scopi. I fascisti non sono semplicisticamente il nemico di alcuni emarginati. I fascisti, in quanto manovalanza repressiva agitata dal capitale al bisogno, sono nemici di tutti i lavoratori e di tutti coloro che vorrebbero migliorare il mondo in cui viviamo.
Antifascismo non significa indignarsi leggendo sul giornale le bravate di alcuni “ragazzi di destra”; non significa celebrare, a scadenze predefinite e in maniera ipocrita, le tappe storiche della Liberazione. Antifascismo significa lottare attivamente contro le azioni fasciste, l’oppressione e l’emarginazione; significa solidarietà tra lavoratori e tra lavoratori e studenti. Criticare una sola faccia del fascismo, dimenticandone l’altra, è inutile, se non deleterio.
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