di Davide Grasso
In queste ore tutti parlano di Lorenzo Orsetti, nome di battaglia
Tekosher Piling, noto su Facebook come Orso Dellatullo. Orso era
combattente italiano delle Unità di protezione popolare (Ypg) inquadrate
nelle Forze siriane democratiche (Sdf). Il nostro heval, il nostro
amico, è caduto in uno scontro a fuoco ravvicinato nell’area di Baghuz,
in Siria, dove le Ypg contrastano le ultime resistenze del sedicente
“Stato islamico” (Isis). Di fronte a un esempio di coraggio e generosità
come il suo, incarnato dall’atto del martirio e illuminato dal suo
ultimo messaggio, tutti, pur in un momento storico dove la stima sociale
per i valori collettivi è al minimo, si sono fermati per un attimo e
hanno provato un sentimento di ammirazione per lo sguardo fiero, pulito e
ribelle di Tekosher. Gli stessi mezzi d’informazione nazionali, di
solito più che restii a valorizzare figure come la sua, non hanno voluto
o potuto esimersi dall’ammetterne il valore sulle pagine dei giornali o
sui servizi in TV.
Da molte espressioni di cordoglio o ammirazione per Lorenzo, nel
mondo dei media e in quello delle istituzioni, è come se trasparisse,
tuttavia, un certo imbarazzo, che è probabilmente destinato ad
aumentare. Perché? Lorenzo ha fatto qualcosa che, sebbene nobile,
secondo la politica e la sua appendice mediatica non si dovrebbe fare.
Diverse testate televisive, ad esempio, hanno affermato che, pur di
andare a combatte contro l’Isis, Lorenzo avrebbe “violato” e “sfidato”
le leggi dello stato italiano, sebbene questo non sia vero. Lorenzo non
ha violato alcuna legge italiana o internazionale, poiché non esiste una
norma che vieti di partecipare a un conflitto estero, se non in casi
specifici: le leggi bandiscono, ad esempio, l’adesione a organizzazioni
considerate terroristiche, all’estero come in Italia. Le Ypg, tuttavia –
con cui Tekosher combatteva – non sono nella lista delle organizzazioni
terroristiche compilata dall’Italia, dall’Unione Europea o dal
Consiglio di sicurezza dell’Onu. Perché, allora, i media insistono su
una diversa versione dei fatti, seppur falsa?
L’apparente squalifica giuridica della sua scelta cela quella reale,
che è politica. Lorenzo ha agito sul piano più alto: quello della
trasformazione della realtà, del cambiamento rivoluzionario; e lo ha
fatto senza essere inquadrato in alcuna struttura istituzionale del suo
paese: ciò che lo Stato, nel presente contesto storico, sembra non poter
sopportare. Vero è che le Forze siriane democratiche, di cui le Ypg
sono parte, sono alleate dell’Italia nella guerra contro l’Isis,
attraverso la Combined Joint Task Force istituita dagli Stati Uniti per
la missione internazionale Inherent Resolve, che mira a distruggere il
califfato. Ciononostante le Ypg, che delle Sdf detengono il comando, non
dipendono, né prendono ordini, dalla Coalizione internazionale. Sheid
Tekosher – “il martire Tekosher”: termine da intendere qui in senso
rigorosamente civile – si muoveva sotto un comando interamente
rivoluzionario, totalmente sottratto al controllo di qualsiasi Stato.
Il rapporto dei suoi comandi con la Nato è stato di collaborazione
nella provincia di Deir El Zor, contro l’Isis, ma anche di ostilità e di
guerra, nella fattispecie contro l’esercito turco pro-jihadista (che è
parte della Nato), ad Afrin, durante l’attacco turco alla città (un
attacco, quello sì, privo di qualsiasi legalità internazionale, in piena
violazione dell’integrità territoriale siriana). Lorenzo, sia pur
all’interno dei limiti della legge, si è mosso al di fuori delle
aspettative politiche di chi è al potere nel suo paese. Questa
“irregolarità politica” di Tekosher è, credo, espressione di una
“irregolarità” molto più profonda: un’irregolarità etica, che emerge
chiaramente dalla sua lettera. Come si è espresso sul suo conto, il
giorno seguente il suo martirio, l’antropologo Roberto Beneduce,
l’elemento etico che colpisce in Lorenzo consiste nell’aver scelto di
irrompere nella situazione politica mondiale “liberando il campo” da
tutta una serie di fardelli politici e geopolitici che l’abitante del
pianeta, oggi, eredita dalla storia e sente premere sulle spalle.
Lo ha fatto in Kurdistan, ha aggiunto Beneduce, poiché quest’ultimo,
in un mondo apparentemente bloccato, è oggi lo “spazio del possibile”.
Per irrompere all’interno di questo spazio Lorenzo ha messo in
discussione molto più delle aspettative dello Stato nei suoi confronti.
Ha rotto con molto di più.
Il primo fardello di cui Lorenzo si è liberato è il più potente del
secolo. Ha eccepito sulla bontà o necessità del capitalismo come modello
di civiltà, e sul famoso presupposto che non si possa ipotizzare, e
tanto meno mettere in pratica, un modo di lavorare, agire e collaborare
alternativo. Lorenzo provava disgusto per il sistema di sfruttamento del
mondo della ristorazione in cui aveva lavorato a Firenze e, in
generale, per il mercato del lavoro italiano con i suoi tratti di
brutalità e spietatezza: accettazione di orari inaccettabili e fatiche
disumane, competizione di tutti contro tutti, indifferenza per il
prossimo, disprezzo per l’altro in nome del profitto, annichilimento di
ogni spazio autonomo di vita in nome del dogma della connessione
necessaria e assoluta tra valore umano e prestazione lavorativa. Alzando
serenamente il dito medio di fronte a tutto questo lui ha preso un
aereo ed è andato dove la rivoluzione delle donne e delle comuni, nel
2017, aveva già costruito, in ampia parte della società e nella vita
comunistica delle Ypg, un modello di condivisione radicale, di
annullamento tendenziale dei privilegi e di edificazione di forme di
cooperazione orientati alla collaborazione piuttosto che al parassitismo
e allo sfruttamento.
Per far questo Lorenzo ha preso le armi. Ha accettato di proteggere
sé stesso e i civili che mettevano in atto queste riforme, le donne che
imponevano il loro protagonismo, i bambini che studiavano all’interno di
un sistema educativo nuovo. Agendo nell’ambito di un movimento
rivoluzionario ha spezzato un altro laccio, ha messo in discussione un
altro dogma: quello secondo cui i compiti di protezione collettiva
devono appartenere esclusivamente agli stati, o a forme illegali di
para-stato, pur sempre fondate sulla divisione di classe. Facendo questo
ha anche eccepito sul principio secondo cui usare la violenza è sempre
sbagliato. La lotta di questo Lottatore ha ricordato a tutti che non
esercitare la violenza ad Afrin, a Deir El Zor o a Baghuz avrebbe
significato lasciare impunemente la popolazione nelle mani di chi
l’avrebbe condannata (e ad Afrin, data la sconfitta, questo è accaduto) a
un destino dove la violenza diviene non eccezione amara benché
necessaria, ma pietra angolare di un sistema di dominio. Quale moralità,
dev’essersi chiesto Lorenzo, avrebbe chi si astenesse dal portare
soccorso a chi ha più bisogno per tutelare i capricci della propria
auto-rappresentazione, esteriore o interiore?
Non basta. Sheid Tekosher non ha avuto remore a battersi contro i
droni turchi pilotati a Washington che colpivano i civili di Afrin, ma
non ne ha avute neanche ad avanzare nel deserto con il sostegno
dell’aviazione statunitense. Non ha creduto che un’alleanza con gli
Stati Uniti fosse per forza sbagliata, e quindi neanche che qualsiasi
azione portata avanti dagli stati capitalisti debba essere boicottata
per principio. Ha mostrato una flessibilità mentale rara nei militanti
di sinistra e ha messo davanti a tutto tanto le preoccupazioni concrete
per il popolo quanto le necessità strategiche della rivoluzione – intesa
come cambiamento reale, però, come “spazio del possibile”, e non
come feticcio immaginario, patetico e inservibile. C’è di più.
Muovendosi, da anarchico, dentro un esercito rigorosamente disciplinato,
per quanto privo di gradi e mostrine, e accettando linee di comando
nitide e riconoscibili, ha mostrato di assegnare valore all’idea nella
misura in cui questa si mostra capace di imporre i suoi diritti sulla
realtà.
Da uomo bianco, europeo, figlio di un continente coloniale, caduto
sul campo assieme a siriani in una rivoluzione siriana, ha dimostrato
che non tutti gli europei, i bianchi, gli italiani sono necessariamente
animati dalla smania di sottomissione di altri popoli o da un disprezzo
malcelato nei loro confronti. Da militante di un’organizzazione curda in
un paese a maggioranza araba ha dimostrato che per sconfiggere
l’islamismo e le sue conseguenze, o per ristabilire la pace in Siria,
non è necessario sottomettersi al mito della superiorità di un’identità
nazionale egemone, quand’anche maggioritaria sul piano linguistico e
istituzionale nella storia della repubblica. Da combattente delle Forze
siriane democratiche, caduto al fianco dei suoi rafiq
(“compagni”) arabi ha mostrato che i rivoluzionari politicizzati come
lui, contrariamente ai meri rivoltosi o ai semplici combattenti, non
cedono alla tentazione di innamorarsi di una nazione tra le altre, per
quanto oppressa, poiché la convivenza è necessaria e il pluralismo è
opzione obbligata per una vita sociale degna.
Da combattente contro il fondamentalismo ha mostrato che il senso
etico più alto sorge con agio là dove vibra l’assenza della fede in un
Dio, e prevale la preoccupazione per una giustizia e un’uguaglianza che
sono beni dannatamente terreni per noi mortali, su questo piccolo
pianeta dove ancora i Lottatori come lui non si sottomettono, nonostante
i patimenti della finitezza umana, ad una presunta Rivelazione. Senza
Dio, apostata miscredente che ha preso le armi assieme a migliaia di
fedeli cristiani, musulmani, ezidi, in un paese dove il sentimento
religioso è traboccante, ha mostrato che non farsi imporre un credo non
significa non praticare il rispetto per i percorsi di vita diversi dal
proprio – al contrario. Rivoluzionario occidentale che ha trovato la sua
realizzazione piena in una rivoluzione d’oriente, non ha accondisceso
all’esotismo, smentendo anche il dogma secondo cui la comprensione del
mondo in questa epoca debba orientarsi secondo le linee di una
contrapposizione binaria tra “culture” e “civiltà” che si pretende
inevitabile o necessaria.
Ma il dogma, il laccio o il fardello che Tekosher ha rotto nel modo
più vertiginoso è il più difficile da rompere per un occidentale e per
un internazionalista. Tutte e tutti noi, che abbiamo partecipato per
qualche mese o per anni alla rivoluzione della Siria del nord, abbiamo
in forme e modi diversi accettato di mettere a rischio la nostra vita.
Mi sembra, se posso avanzare un’impressione che non è stata soltanto
mia, che Tekosher abbia accettato la possibilità della morte in modo per
certi versi differente. Pur non cercandola affatto, la possibilità
della fine era accettata da lui con una speciale serenità, che non va
confusa con l’indifferenza o la rassegnazione: tutto il contrario.
L’Italia intera adesso lo sa, poiché ha appreso le sue parole scritte e
quelle affidate, con autoironia e sfrontatezza, a una telecamera. La
causa comune lo rendeva felice. Era soddisfatto della lotta, e trovava
realizzazione in essa. La morte, benché irrimediabile, non era forse per
lui la peggiore tra tutte le prospettive; poiché con essa
anche il messaggio di un Lottatore, e non di un poeta o di un Dio,
avrebbe potuto giungere nella sua Firenze, e vincere ancora una volta di
mille secoli sul silenzio.
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