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23/03/2019

Non dimentichiamo nulla. Venti anni fa le bombe NATO sulla Jugoslavia


La notte tra il 23 e il 24 marzo 1999, la NATO dette inizio ai bombardamenti aerei sulla Serbia. I raid continuarono per 78 giorni, fino al 10 giugno, infliggendo danni per miliardi di dollari, distruggendo le strutture industriali, i ponti sul Danubio, i servizi essenziali del paese e causando la morte di centinaia di civili. Sabato 6 aprile se ne discuterà in un convegno nazionale a Bologna e ci saranno dibattiti in diverse città nei prossimi giorni.

Il motivo? Non essere complici dell’oblìo su quella guerra in Europa, voluta e attuata dalle potenze della Nato ed anche dall’Italia. Una guerra pretestuosa funzionale agli Usa e alla Ue per ridisegnare la mappa geopolitica non solo dei Balcani ma dei corridoi strategici che vanno da est a ovest, e viceversa.

In una pubblicazione di quelle settimane e cercando di chiarire la posta in gioco in quel conflitto, scrivevamo che:
I bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia, sembrano essere un passaggio brutale della guerra tra Stati Uniti ed Europa per la spartizione dei mercati dell’Est. Da un lato l’aperto ostracismo degli USA contro la Serbia ha ottenuto anche il risultato di interdire i progetti europei, dall’altro l’asse anglo-americano dentro la NATO non fa mistero delle sue ambizioni al controllo strategico dei punti vitali della regione balcanica.

Gli USA hanno sabotato il progetto originario del Corridoio nr.10 ponendo il veto sull’attraversamento della Serbia. A tale scopo hanno pagato 100 milioni di dollari alla Romania per convincerla a far passare gli oleodotti più a nord (in Ungheria) invece che sul territorio jugoslavo da dove sarebbero arrivati a Zagabria, in Slovenia e poi in Germania. L’obiettivo è duplice: tagliare fuori la Jugoslavia dalle nuove rotte dell’economia e ostacolare qualsiasi interesse della Russia nei Balcani del Sud.

In secondo luogo, l’ENI aveva previsto una pipeline da Pitesti (Romania) alla raffineria di Pancevo (Jugoslavia) per la raffinazione del greggio per farlo poi arrivare con un oleodotto di 250 chilometri al terminale di Trieste.

L’accanimento con cui la NATO (e gli aerei inglesi e americani) hanno distrutto la raffineria di Pancevo, confermano l’obiettivo statunitense di sabotare in ogni modo la funzione strategica di questo corridoio.
A chiarire gli obiettivi della NATO nell’area balcanica, è l’illuminante l'intervista rilasciata ad Alberto Negri da Sir Mike Jackson, il generale inglese che comanda la Forza di Reazione Rapida della NATO installata prima in Macedonia ed ora nel Kossovo.

Intervistato da Negri per ilSole24Ore dopo tre settimane di guerra, il gen. Jackson ha affermato testualmente:
“Sono cambiate le circostanze che ci hanno portato qui. Oggi è pressante la necessità di garantire la stabilità della Macedonia e il suo ingresso nella NATO. Ma resteremo sicuramente a lungo anche per tutelare la sicurezza dei corridoi energetici che passeranno attraverso questo paese”.
Il quotidiano economico italiano preciserà ulteriormente:
“E’ chiaro il riferimento di Sir Jackson all’Ottavo Corridoio, cioè all’asse Est-Ovest che dovrà convogliare con le pipeline le risorse energetiche dell’Asia centrale dai terminali del Mar Nero all’Adriatico, saldando l’Europa all’Asia. Questo spiega perchè grandi e medie potenze, in primo luogo la Russia, non vogliono essere escluse dal regolamento dei conti nei prossimi mesi nei Balcani. E’ evidente anche l’interesse della Turchia”.
Oggi, di fronte alle conseguenze delle guerre nel XXI Secolo, ed a quello a cui stiamo assistendo intorno al progetto della “Nuova Via della Seta”, alcune cose diventano drammaticamente chiare.

E’ importante ricordare che il primo progetto strategico sulla Via della Seta fu messo in campo dagli Stati Uniti nel 1997 (Il “Silk Road Strategy Act”) e con ambizioni decisamente opposte a quelle della Cina. Nello stesso anno, e due anni prima di quella guerra nella zona di passaggio tra Europa e Asia, Zbignew Brzezinski aveva profetizzato che:
“La capacità degli Stati Uniti di esercitare un’effettiva supremazia mondiale, dipenderà dal modo in cui sapranno affrontare i complessi equilibri di forza nell’Eurasia, scongiurando soprattutto l’emergere di una potenza predominante e antagonista in questa regione”.
In un altro capitolo Brzezinski sottolinea con decisione come:
“E‘ ormai tempo che gli Stati Uniti perseguano un coerente disegno geostrategico d’ampio respiro per l’intera Eurasia. Questa necessità sorge dall’interazione fra due realtà basilari: gli USA sono oggi l’unica superpotenza globale e l’Eurasia è il terreno sul quale si giocherà il futuro del mondo. L’equilibrio di forze che prevarrà su questo continente deciderà dunque il destino della supremazia americana e della sua missione storica. La durata e la stabilità di tale supremazia dipenderanno soprattutto da come gli Stati Uniti muoveranno le principali pedine del gioco su questa scacchiera, controllandone le zone cardine dal punto di vista geopolitico” (da “The Great Chessboard, tradotta in Italia da Rizzoli con il titolo “La Grande Scacchiera”).
In questo senso la guerra in Jugoslavia è stata ancora più strategica di quelle in Iraq e Afghanistan. E’ stata solo meno sanguinosa per gli Stati Uniti e le potenze della Nato, alimentando l’illusione che le guerre potessero essere tutte vinte, le aggressioni impunite, a costo zero e che la mappa del mondo poteva essere riscritta a proprio piacimento. I fatti ci dicono che non è andata così.

Il ruolo dell’Italia

Per l’Italia l’aggressione del marzo 1999 alla Federazione Jugoslava (costituita da Serbia e Montenegro) ha rappresentato invece uno spartiacque storico e politico.

In Italia D’Alema aveva sostituito Romano Prodi al suo primo governo nell’epoca di Berlusconi e dell’antiberlusconismo. Un governo costituito e sostenuto anche da un partito comunista con propri ministri – il PdCI – guidato da dirigenti come Cossutta, Diliberto, Rizzo e prodotto di una scissione dal Prc. L’autocritica per quella scelta di sostenere il governo del centro-sinistra anche nella e durante la guerra è arrivata, tardivamente, solo diversi anni dopo.

Prima di D’Alema (che gli farà le scarpe e gli tolse lo scranno di premier, ndr) l’allora capo del governo Romano Prodi, già ad ottobre 1998 aveva avviato “l’activaction order” per le basi Nato presenti in Italia. Piero Fassino, prima come viceministro degli Esteri e poi come Ministro del Commercio Estero sostemeva che:
“Troppi nel nostro paese – soprattutto nella classe politica – sottovalutano che l’Europa centrale e sud-orientale è per l’Italia un’area strategica di interesse vitale… Sono queste le ragioni per cui il governo Prodi ha individuato nell’Europa centrale e orientale e nei Balcani una priorità fondamentale della politica estera italiana, sviluppando una vera e propria “Ost-Politik” italiana che non solo corrisponde agli interessi del nostro paese, ma consente all’Italia di svolgere un’essenziale e riconosciuta funzione nella costruzione della nuova Europa”.
L’Italia di D’Alema, Fassino, Prodi scelse quindi consapevolmente di stare nella partita dell’aggressione alla Federazione Jugoslava come asset da giocarsi nelle relazioni europee.

Di fronte alla vergogna dei bombardamenti e della complicità attiva dell’Italia, l’allora segretario della Cgil Cofferati legittimò pienamente quei bombardamenti come una “dolorosa necessità” e rifiutò di far scioperare la Cgil contro la guerra. Cgil Cisl Uil revocarono uno sciopero dei trasporti già convocato, mentre solo i sindacati di base (allora RdB, Cobas, Cub) convocarono il 13 maggio un riuscito sciopero generale contro la guerra in Jugoslavia.

Contemporaneamente negli ambiti della sinistra di governo e dell’associazionismo collaterale prendeva corpo la legittimazione della “guerra umanitaria” ispirata dal suo ideatore Bernard Kouchner, allora presidente di Msf, diventato poi ministro degli Esteri con Sarkozy. Furono molte le Ong e l’associazionismo collaterale al centro-sinistra che si arruolarono in quella “guerra umanitaria”, fiancheggiando apertamente l’intervento militare della Nato, ad esempio attraverso la Missione Arcobaleno per gli “aiuti umanitari” in Kosovo, sulla quale anni dopo esplose lo scandalo e una inchiesta giudiziaria poi finita in prescrizione nel 2012.

Le manifestazioni di protesta. Sinistra e movimenti divisi

Immediatamente dall’inizio dei bombardamenti della Nato su Belgrado, a Roma una enorme manifestazione di rabbia e di protesta per la vergogna di quella aggressione militare contro la Serbia, sfilò per il centro, arrivando a lanciare delle frattaglie sulla sede di via delle Botteghe Oscure, allora direzione dei Democratici di Sinistra, il principale partito al governo. La manifestazione venne dispersa a colpi di lacrimogeni dalla polizia e tre compagni vennero arrestati. Ma non era l’unica vergogna da cui riscattarsi. Solo pochi mesi prima il governo D’Alema aveva consegnato ai servizi di sicurezza turchi il leader curdo Abdullah Ocalan, rifugiatosi a Roma, negandogli l’asilo politico in Italia. Il segnale di riscatto e indignazione di quella contestazione in via della Botteghe Oscure, simbolo della direzione del partito di governo, fu chiaro e forte e rimbalzò in tutti i telegiornali della sera e sui giornali del giorno successivo.

Nelle settimane successive, le diverse valutazioni nella sinistra sull’aggressione Nato contro la Federazione Jugoslava, divennero visibili. Furono organizzate ben tre manifestazioni nazionali in tre settimane diverse: la prima dell’associazionismo pacifista collaterale al governo centro-sinistra, la seconda da Rifondazione Comunista, la terza dai sindacati di base, dai movimenti sociali e dalla sinistra antagonista.

L’aggressione e i bombardamenti contro la Federazione Jugoslava (quella tra Serbia e Montenegro), furono l’ultima guerra del XX Secolo e la “prima guerra in Europa” alla vigilia del nuovo secolo. Non fu responsabilità solo degli Stati Uniti, perchè tutte le maggiori potenze europee (Germania, Italia, Gran Bretagna, Francia) presero parte attivamente all’aggressione attraverso una risoluzione della Nato che avevano aggirato ogni eventuale ostacolo da parte dell’Onu.

Questa aggressione porta la responsabilità di quello che fu definito “l’Ulivo mondiale”, infatti i capi di stato dell’epoca erano tutti dell’area liberal e socialdemocratica: Clinton, Schroeder, Jospin, Blair e D’Alema.

Per la nascente Unione Europea, l’aggressione alla Jugoslavia fu una sorta di “guerra costituente” nella quale le potenze europee – Germania e Francia soprattutto – non intesero lasciare tutto lo spazio di manovra agli Stati Uniti per una conflitto sostanzialmente alla periferia dell’Europa. In questo senso l’aggressione alla Jugoslavia diventerà uno spartiacque tra un prima e un dopo nelle relazioni transatlantiche (la cui crisi diventerà più leggibile quattro anni dopo con lo smarcamento di Francia e Germania dall’invasione Usa dell’Iraq).

I bombardamenti su Belgrado e le altre città serbe (tra cui i ponti sul Danubio, lo stabilimento della Zastava di Kragujevac presidiato dagli operai, il petrolchimico di Pancevo che inquinè per anni tutta la regione), furono preceduti e seguiti da una imponente – e umiliante per molti giornalisti onesti – campagna mediatica volta a demonizzare la Serbia e la popolazione serba, a far credere all’ opinione pubblica mondiale che i Serbi stessero ponendo in atto, scientemente e con premeditazione, un tentativo di genocidio ai danni della popolazione kosovara di etnia albanese.

Pochissime le eccezioni come la diretta Tv di Michele Santoro dai ponti di Belgrado, dove la popolazione si affollava offrendosi come bersaglio per impedire che venissero bombardati dagli aerei e dai missili della Nato, alcune corrispondenze Rai di Ennio Remondino, qualche sussulto di Mentana (allora a Mediaset). I cartelli e le spillette indossate dai civili serbi riproducevano l’immagine del “Target”, il bersaglio, che divenne ben presto il simbolo di chi si opponeva alla guerra.

La demonizzazione dell’avversario, la costruzione di prove fasulle, la manipolazione sistematica e spudorata della stampa e dei media in genere per ottenere il consenso nei confronti della politica aggressiva e imperialista, saranno una costante nella costruzione delle future aggressioni militari degli Stati Uniti in altri teatri (Afghanistan, Iraq, Siria) ma anche delle potenze europee (Libia).

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Per chi volesse approfondire

SCHEDA: Come è stata costruita l’aggressione Nato alla Serbia?

I colloqui di Rambouillet: un inganno per provocare la guerra

Il terreno politico, diplomatico e internazionale per i bombardamenti della Nato sulla Serbia, fu preparato con una vergognosa e falsificatrice campagna mediatica e con la farsa di colloqui che porteranno al trattato di Rambouillet. I colloqui iniziarono il 6 febbraio 1999 a Parigi e culminarono, al contrario, nell’aggressione alla Serbia del successivo 24 marzo.

Nella bozza di accordo presentata dal Gruppo di contatto, formato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Russia, non si accennò mai ad una possibile indipendenza del Kosovo ma solo ad un’autonomia che si sarebbe incarnata in un parlamento, un presidente, una costituzione e una corte costituzionale.

Il documento prevedeva ampi poteri ai verificatori dell’Osce, che sarebbero dovuti rimanere in Kosovo per un periodo di tre anni, il ritiro non totale delle forze di polizia e di sicurezza serbe, l’impossibilità per il Kosovo di avere un proprio esercito, una propria moneta e una propria politica estera (prerogative che sarebbero rimaste nelle mani del governo di Belgrado).

La bozza del Gruppo di contatto lasciò invece irrisolto lo status della Provincia del Kosovo allo scadere dei tre anni di “verifica”. Gli albanesi kosovari avrebbero voluto un referendum per l’autodeterminazione del Kosovo, i serbi insistettero che un’eventuale consultazione avrebbe dovuto riguardare anche i restanti abitanti della Federazione Jugoslava.

L’organizzazione armata kosovara, l’UCK, che inizialmente rifiutò il contenuto dell’accordo, dietro chiare pressioni statunitensi decise di accettarne una formula così limitata e la sua delegazione a Rambouillet assunse un’importanza ben superiore a quella dello stesso “moderato” Rugova.

Durante i 17 giorni dei colloqui svoltisi all’interno del castello, la rappresentanza serba non s’incontrò mai con quella albanese; la conferenza venne preparata a Londra in una riunione del 29 gennaio del Gruppo di contatto e da una successiva consultazione del 30 gennaio a Bruxelles, durante la quale il Consiglio Atlantico conferì al segretario generale della NATO, Javier Solana, l’autorizzazione ad interventi aerei contro la Serbia nel caso quest’ultima si fosse rifiutata di firmare l’accordo.

In Italia, occorre rammentare che già ad ottobre del 1998 il Presidente del Consiglio Romano Prodi (poi sostituito da D’Alema) avesse diramato “l’activation order” per le basi Nato presenti in Italia.

Gli albanesi presentarono ai colloqui una delegazione con 17 negoziatori, dei quali 9 appartenenti all’UCK e solo 4 del movimento “non violento” di Rugova.

Chi erano gli “accompagnatori” della delegazione kosovara ai colloqui di pace? Marshall Harris e Paul Williams (ex funzionari del Dipartimento di Stato americano), Morton Abramowitz (noto esponente dell’International Crisis Group), Filippo di Robilant (già portavoce di Emma Bonino in seno alla Comunità europea e rappresentante della Coalition for International Justice) e alcuni ufficiali della NATO in borghese.

La delegazione della Serbia, guidata dal suo presidente Milan Milutinovic, era composta da 15 persone, tra le quali sette rappresentanti della comunità islamica, turca e gorana, rom ed egiziana, insieme a due esponenti di piccoli partiti della minoranza albanese (l’Iniziativa democratica del Kosovo e il Partito delle riforme democratiche degli albanesi).

Come detto, le trattative si svolsero tramite canali separati, stante l’impossibilità di far comunicare direttamente delegati serbi ed albanesi (un impasse che però il presidente jugoslavo Milutinovic attribuì alla cattiva volontà dei mediatori). La delegazione jugoslava trovò inaccettabili alcuni allegati del Trattato (vedi più avanti) mentre alla delegazione albanese/kosovara non piacque il mancato riferimento ad un possibile referendum allo scadere dei tre anni.

Per firmare il documento, il capo militare dell’UCK, Hashim Thaci, indirizzò una lettera all’allora segretario di Stato Usa Madeleine Albright, in cui ribadì che ella doveva “comprendere che alla fine dei tre anni la popolazione del Kosovo eserciterà la sua volontà”. Si tratta di una precisazione molto importante, perché lasciò intendere che la consultazione popolare non avrebbe riguardato i restanti abitanti della Federazione Jugoslava.

Agli albanesi la diplomazia internazionale fece ulteriori concessioni, parlando della possibilità di emanare leggi senza l’autorizzazione di Belgrado, di legiferare in materia fiscale per instaurare programmi economici, scientifici, tecnologici, regionali e di sviluppo sociale.

Alle autorità di Pristina si ventilò la possibilità di sviluppare una politica estera all’interno delle sue aree di responsabilità, mentre all’esercito serbo si confermò la necessità di un suo ritiro dal territorio del Kosovo, ad eccezione di un limitato contingente militare di frontiera.

Al capo della Missione di Implementazione Civile sarebbe andata l’autorità di emettere direttive vincolanti alle parti su ogni argomento ritenuto importante, inclusa la nomina e la rimozione di ufficiali e aderenti alle istituzioni.

C’era poi la parte economica sul futuro del Kosovo, un vero e proprio capolavoro ultraliberista: “L’economia del Kosovo funzionerà secondo i principi del libero mercato. Non vi sarà alcuna restrizione alla libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali, ivi compresi quelli di origine internazionale”.

Mentre il 23 febbraio la conferenza di Rambouillet si concluse con un nulla di fatto, Hashim Thaci, venne riconvocato per nuovi incontri a Parigi fissati il 15 marzo, ma decise di recarsi prima in Kosovo nella valle della Drenica, dove, sotto scorta statunitense, riuscì a strappare l’assenso dei capi militari dell’UCK.

La rappresentanza serba, invece, rifiutò l’intesa anche a Parigi, fornendo il pretesto alla NATO per i bombardamenti che iniziarono il successivo 24 marzo.

Pochi giorni dopo la conclusione di Rambouillet, infatti avrebbe dovuto tenersi a Parigi una sessione non politica finalizzata a stabilire gli aspetti attuativi e organizzativi dell’accordo, ma la delegazione serba sin dall’inizio abbandonò le sedute rimettendo in discussione gli esiti di tutta la trattativa, dichiarando che non accettava più quella che considerava una indipendenza di fatto mascherata da autonomia. I Serbi si sentivano presi in giro e provocati.

Che cosa era successo? La parte Serba fu di fatto costretta ad abbandonare il negoziato a seguito di due elementi-chiave introdotti, su input degli Stati Uniti, alla vigilia della firma dell’accordo.

In primo luogo, il 22 febbraio, il Segretario di Stato USA, Madeleine Albright, (con il famoso “bacio di Madelein al rappresentante kosovaro Surroi) si impegnò, verso la parte kosovara, a garantire, entro tre anni, il distacco del Kosovo dalla Federazione; in secondo luogo, fu introdotto un’appendice (l’Allegato B) alla parte militare dell’Accordo che prevedeva, di fatto, l’occupazione militare dell’intera Federazione Serbia da parte della NATO.

Gli articoli 8-9-10-11 dell’Annesso B infatti recitavano:

Articolo 8

Il personale della Nato, i suoi veicoli, navi, aerei ed equipaggiamenti dovranno beneficiare di un libero passaggio e senza restrizioni all’interno della Rfj e di un accesso senza ostacoli allo spazio aereo e fluviale. Questo include il diritto dei bivacchi e delle manovre all’acquartieramento e l’utilizzazione delle aree necessarie per facilitare il sostegno e la realizzazione delle operazioni.

Articolo 9

La Nato sarà esonerata da tutti i dazi, le imposte e altre tassazioni, dai regolamenti e dalle ispezioni doganali, compreso quelle dell’approvvigionamento degli stock, e altri documenti doganali di routine, questo per il personale, i veicoli, le navi, gli aerei, gli equipaggi e gli approvvigionamenti entranti, uscenti o circolanti attraverso il territorio della Rfj, in appoggio alle operazioni.

Articolo 10

Le autorità della Rfj dovranno facilitare, accordandone la priorità e utilizzando tutti i mezzi appropriati, tutti i movimenti del personale, i veicoli, le navi, gli aerei, gli equipaggi e gli approvvigionamenti, attraverso o dentro gli spazi aerei, portuali, aereoportuali e stradali. Nessun compenso dovrà essere pagato dalla Nato per la navigazione aerea, l’atterraggio e il decollo degli aerei che siano essi governativi o meno. Ugualmente alcuna quota o tassa o pedaggio potrà essere riscosso all’arrivo o alla partenza delle navi o dei battelli della Nato, che siano essi governativi o meno. I veicoli, i battelli e gli aerei utilizzati in appoggio alle operazioni non dovranno essere sottomessi ad alcuna procedura per ottenere licenze d’uso, di registrazione o di assicurazione commerciale.

Articolo 11

La Nato ha la garanzia di utilizzo degli aereoporti, delle strade, delle strade ferrate e dei porti senza dover pagare tasse, pedaggi o altro (…).

In pratica una vera e propria occupazione militare da parte della Nato del territorio della Federazione Jugoslava. Inoltre alle truppe Nato stanziate sul territorio della Serbia doveva essere assicurata la totale impunità sul piano legale. Vedi gli articoli 6-7

Articolo 6

La Nato sarà protetta contro tutti i processi legali, che siano essi civili, amministrativi o criminali.

Il personale della Nato in ogni circostanza e in ogni momento sarà protetto contro le parti (serbe e kosovare – ndr), contro la giurisdizione per tutti i delitti civili, amministrativi o criminali che essi potranno commettere all’interno della Repubblica federale jugoslavia (Rfj). Le Parti dovranno appoggiare gli stati partecipanti alle operazioni (…).

Nonostante ciò che precede e con l’accordo formale, in ogni caso, con il comandante della Nato, le autorità della Rfj potranno eccezionalmente esercitare il loro potere giudiziario, ma unicamente sul personale contravvenente, che potrà allora non più essere sottomesso alla legislazione della nazione di cui porta la cittadinanza.

Articolo 7

Il personale della Nato dovrà essere protetto contro tutte le forme di arresto, di indagine o di detenzione da parte della Rfj. Il personale della Nato arrestato o ritenuto erroneamente colpevole dovrà essere immediatamente liberato e consegnato alle autorità della Nato.

Dunque Rambouillet si configurò come una vera e propria “trappola” in cui volutamente gli Stati Uniti e la NATO posero ai serbi condizioni così punitive proprio per ottenere il loro rifiuto a sottoscrivere gli accordi ed avere il pretesto per attaccare

In effetti non era mai esistita alcuna “negoziazione”: il governo statunitense e quelli europei – in particolare il Segretario di Stato Madeleine Albright e il ministro degli esteri tedesco Joska Fisher – avevano in pratica presentato al governo di Belgrado un vero e proprio diktat. La Serbia rifiutò e la notte del 24 marzo 1999 i bombardieri della Nato (statunitensi, tedeschi, italiani, francesi, britannici) cominciarono a sganciare le bombe su Belgrado e le altre città serbe.

Fonte

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