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22/03/2019

E’ tornato Dragonda


E’ presto per dire se la firma del Memorandum of Understanding tra Italia e Cina segnerà davvero un “svolta epocale”, ma di certo non è un atto commerciale banale, tra le centinaia che vengono firmati ogni anno.

Da parte italiana, certamente, non c’è alcun desiderio di enfatizzare oltre misura l’evento, manifestamente osteggiato dagli Stati Uniti e visto malissimo dai partner dell’Unione Europea, fin qui competitori vincenti nei rapporti con Pechino.

L’ambasciatore Usa a Roma, Lewis Eisenberg, ha fatto visita in questi giorni a tutti i membri del governo in prima fila nell’accordo – da Luigi Di Maio al ministro degli esteri Moavero Milanesi, dalla titolare della Difesa (Elisabetta Trenta) ai leghisti Giancarlo Giorgetti (contrario) e Michele Geraci (ultra favorevole).

Macron, Merkel e Juncker hanno invece deciso di fare un vertice con Xi Jinping, martedì 26, in occasione della sua visita a Parigi. Una scelta chiaramente improvvisata – questo genere di incontri si preparano per mesi, se non per anni – sulla base di una paura che ha poco a che fare con le ragioni morali e tantissimo con gli interessi economici di peso strategico.

Lasciamo da parte ogni considerazione ideologica (la natura del modello cinese, il tasso di “autenticità comunista” del partito che lo dirige, ecc). Così come sono ridicole le sortite sui “diritti umani” da parte di governi, come quello francese, che hanno dichiarato lo stato di guerra interno per l’Atto XIX dei gilet gialli – domani 23 marzo – schierando l’esercito contro una manifestazione popolare (dopo oltre 8.000 arresti e centinaia di mutilati dalle “armi non letali” della polizia) e rischiando dunque di trasformare gli Champs Elysées in una Tien An Men europea.

Solo per fare un raffronto immediato: il governo algerino dell’ultraottantenne Bouteflika sta affrontando proteste popolari di dimensioni e radicalità analoghe senza finora aver messo in campo una sola carica di polizia né un arresto.

Atteniamoci dunque agli interessi economici, ai modelli di sviluppo capitalistico e ai progetti per i il futuro.

L’Italia è il primo paese del G7 a firmare un accordo-quadro di queste dimensioni e ad entrare nel progetto chiamato Belt and Road Initiative o “Nuova Via della Seta”. Eppure è un membro storico della Nato e un paese fondatore dell’Unione Europea.

Perché lo fa? Il governo gialloverde c’entra fino a un certo punto, perché questo accordo è stato impostato due anni fa con la visita di Paolo Gentiloni e Sergio Mattarella a Pechino. Dunque la necessità di entrare in questo megaprogetto infrastrutturale viene dal lungo declino industriale del paese, non dalle “pensate” di questo o quel partito momentaneamente al governo.

Il paese viene da un trentennio di crescita bloccata o di crisi manifesta. L’adesione ai trattati di Maastricht (1992) e alla moneta unica hanno prodotto un risultato opposto a quelli promessi. Ricordate le fanfaluche di Romano Prodi (“lavoreremo di meno e guadagneremo di più”)? Bene, oggi sono gli stessi tedeschi a spiegare che per loro è stato un affarone, per Italia e Francia un disastro...

Continuare su questa strada sarebbe la morte, ma del resto “mettere in discussione i trattati” – per forze politiche espressione degli interessi imprenditoriali ai diversi livelli – è di fatto impensabile (basti vedere i voltafaccia di Lega e Cinque Stelle rispetto alle sparate “sovraniste” pre-elezioni del 4 marzo 2018).

Dunque la via di fuga dall’austerità, senza toccare le alleanze internazionali, è sembrata passare per l’accettazione della proposta cinese. Del resto, questo margine di relativa autonomia rispetto alle alleanze era uno dei tratti caratteristici dei governi democristiani della Prima Repubblica...

La scelta cade però in un contesto decisamente diverso. Allora si giocava su singoli progetti (la Fiat a Togliattigrad, oppure gli accordi dell’Eni con alcuni paesi petroliferi arabi “sgraditi”), oggi la proposta cinese disegna una quadro strategico-economico di lungo periodo, che alla lunga non può non avere effetti anche geopolitici.

E qui si deve registrare la profonda differenza di approccio tra Occidente capitalistico e Cina. Qui da noi la classe dirigente naviga a vista e si barcamena cercando di fare gli interessi contingenti delle imprese multinazionali e dei “mercati”; ha ovunque un orizzonte segnato dalle scadenze istituzionali o elettorali e dunque ha rinunciato da tempo a ogni “programmazione” di lungo periodo. Procede a tentoni, con qualche intento strategico-militare più ampio soprattutto nel caso degli Stati Uniti.

La classe dirigente di Pechino, invece, ragiona sui tempi lunghi e lunghissimi. Lo strapotere economico di oggi è il frutto di 40 anni di lavoro portato avanti da intere generazioni di manager funzionanti come “squadra”. Pochi l’hanno sottolineato, ma Xi Jinping è arrivato a Roma (e in Europa) accompagnato dai vertici della Commissione per lo sviluppo e le riforme, massimo organo di pianificazione economica cinese. Quella che decide gli investimenti a breve e lungo termine.

In questo senso, quindi, la firma del Memorandum of Understanding con l’Italia può diventare il punto di partenza di una svolta imprevista da tutto l’Occidente capitalistico.

Occorre leggere con più attenzione sia il discorso che Xi ha consegnato al Corriere della Sera, sia la stampa cinese di questi giorni. Non c’è solo la normale offerta di occasioni di business a partire dalle reti infrastrutturali – che non sono comunque solo vie di trasporto delle merci, ma un ridisegno dei nodi fondamentali della produzione manifatturiera globale, perché ogni snodo logistico che funziona diventa un magnete di investimenti produttivi nei dintorni – ma l’indicazione di un ruolo per il Mediterraneo dimenticato da secoli. Secondo l’analista Ding Gang, del Global Times: “L’Italia è un grande potere nella regione del Mediterraneo e ha un’influenza strategica. Con l’aiuto degli investimenti e della tecnologia cinese, l’Italia sarà in grado di rafforzare la sua leadership nei trasporti marittimi e innalzare il suo ruolo strategico regionale“.

E si comprende meglio la valanga di investimenti di Pechino che attualmente coinvolgono Egitto, Marocco, Algeria, Grecia, Portogallo, e persino (in misura minore) Israele. In attesa che tacciano finalmente le armi anche in Libia e Siria.

Da un lato, insomma, abbiamo un (doppio) imperialismo guerrafondaio che ha proceduto per un trentennio distruggendo stati per appropriarsi di risorse naturali, mettendo in piedi governi fantoccio e lager. Dall’altra un soft power, certamente non disinteressato, che sfrutta i vuoti creati dall’avversario distruttore.

Pensate davvero che ci si possa misurare con una situazione del genere agitando bandiere retoriche o i dogmi dell’austerità?

P.s. Dragonda era il nome cinese di Marco Polo

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