La firma del Memorandum tra Italia e Cina – mentre altri sono stati formati o lo saranno a breve da altri paesi europei – è un fatto storico. L’unico, probabilmente, che verrà ascritto a questo governo di furbetti mal assemblati anche se a metterne le basi sono stati soprattutto il Vaticano e, due anni fa, Mattarella e Gentiloni. Ovvero dai due rappresentanti “democratici” più “vicini” alla Santa Sede (non che gli altri siano dei fierissimi atei, tutt’altro).
L’origine geostrategica è importante e viene apertamente rivendicata, stamattina su La Stampa, da Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, organo dei gesuiti. Non a caso la congregazione di provenienza di papa Bergoglio.
La chiave di lettura è ovviamente quella “cultural-religiosa” (“Pechino insiste molto sugli scambi culturali tra i popoli dell’ecumene euro-afro-asiatica, e lo fa anche investendo risorse in innumerevoli iniziative dedicate al patrimonio immateriale: musei, fiere, mostre”), ma coglie un punto-chiave, un non detto che traspare sempre più spesso dietro le preoccupazioni o le isterie “sull’invasione” che hanno riempito strumentalmente molte pagine ed ore di trasmissione tv, sia “democratica” che apertamente di destra.
Il punto è questo:
“Gli storici si chiedono se stiamo sperimentando la conclusione di cinquecento anni di predominio occidentale. Il dibattito riflette il dilemma di una società dell’ovest che sente il futuro del mondo sempre meno nelle sue mani. La presenza di altri grandi attori nello scenario internazionale (India, Giappone, Brasile, Russia) rende il quadro molto complesso e richiede una governance globale... Non è immaginabile un Oriente che emerga e sommerga l’Occidente”.
Naturalmente sappiamo bene che la crisi culturale e di egemonia globale segue – non precede – l’arrestarsi di un modello di accumulazione che da oltre un trentennio, in Occidente, ha preferito la via della finanza speculativa al duro impegno della produzione materiale, con i tagli di spesa agli investimenti. Ovvero proprio il terreno su cui la Cina, in meno di quattro decenni, ha costruito la sua gigantesca “rimonta”.
E quindi guardiamo a questo “fatto storico” da un’angolatura molto diversa da quella del brillante gesuita. Senza affatto sottostimare l’importanza di affiancare alla brutalità dei fatti economici la necessità di una visione che tenga conto del rapporto tra civiltà millenarie. Cosa che sembra completamente sfuggire all’orizzonte neoliberista di stampo anglosassone (ed anche all’ordoliberismo tedesco), il cui simbolo è oggi un tronfio palazzinaro che sponsorizza hot dog e big mac...
Perché, dal nostro punto di osservazione, la firma di questo Memorandum è un “fatto storico”?
Veniamo da un trentennio – dagli accordi di Maastricht in poi – in cui l’orizzonte del futuro si è progressivamente ridotto alla necessità di praticare un’austerità senza fine, che ha eroso, disperso, svenduto, smantellato una capacità industriale e in generale produttiva di cui non si riesce neanche ad intravedere la fine.
Un trentennio dominato dai mantra “non ci sono i soldi”, “vanno trovate le coperture”, “bisogna tagliare la spesa” e con essa la vita e la stessa riproduzione sociale (la natalità è scesa sotto il livello di equilibrio di lungo termine e la fuga dei giovani all’estero aggrava ogni proiezione previsionale su questo punto).
Una austerità cui è corrisposto l’aumento della ricchezza in mano a pochi (soprattutto finanzieri) e il crescere delle disuguaglianze, sia tra paesi ricchi e quelli sulla via del declino, sia all’interno di tutti i paesi dell’Unione Europea, tra classi sociali. Questo scarto è stato particolarmente accentuato per i paesi mediterranei e al loro interno.
L’Unione Europea è diventata – o si è rivelata nel tempo – una autentica gabbia fatta di condizioni contrattuali e materiali (trattati, vincoli economici e filiere produttive integrate) da cui, per alcune aree territoriali molto estese (non solo nazionali, ma addirittura regionali), sarebbe dolorosissimo uscire e in cui è però mortale restare.
Al punto che pensare di rompere questa gabbia implica immediatamente l’obbligo di prefigurare un altro posizionamento geostrategico, o un’altra collocazione nel mondo. L’esatto contrario del “nazionalismo” stupido immaginato dalle varie destre, con tanto di impossibile autarchia produttiva e presunta “purezza della razza” o “delle tradizioni”.
Altrimenti non resta che accordarsi allo spirito di competizione tra aree imperialistiche che va sostituendo l’ormai morta fase della globalizzazione guidata dagli Stati Uniti. E quindi farsi “soldati della patria europea” in fabbrica, in ufficio, sui campi di battaglia...
E’ la trappola in cui è rimasta fucilata la breve esperienza “alternativa” della Grecia di Syriza, incapace di progettare nuove relazioni internazionali prima di avventurarsi al governo del paese e quindi rinchiusa a forza – senza troppa fatica – in una condizione di sudditanza mortifera.
E’ la trappola che ha di fatto svuotato “la sinistra” di molti paesi (Italia, Germania, Spagna, fortunatamente non la Francia e in parte la Gran Bretagna), incapace anche solo di immaginare una rottura dell’Unione Europea che non fosse la stupida ricaduta nel nazionalismo senza futuro, come ossessivamente ripetuto dalla propaganda “mercatista”.
Un deficit culturale gigantesco che ha reso impossibile formulare un progetto politico credibile, sia nei confronti del nostro “blocco sociale” sia sul piano strettamente elettorale.
E’ la trappola in cui è rimasta impigliata anche la capacità di immaginazione realistica che aveva prima caratterizzato la sinistra antagonista, o rivoluzionaria, sospingendola verso un immaginario polveroso (le varie “sette comuniste”) o la resa incondizionata sul piano della visione politico-strategica, da cui deriva il rifugiarsi nel localismo, nella fantasie pauperiste, nelle pratiche solidaristiche meritorie ma politicamente innocue, oppure anche nelle pratiche “formalmente antagoniste”, di strada, ma altrettanto mute sul medio periodo.
Immaginare il cambiamento sociale a partire dalla struttura materiale della società implica riprendere in mano la capacità di pensare concretamente, progettare, programmare il cambiamento. Perché solo il materialmente possibile può diventare reale.
Esempi? Sull’ambiente, per dirne uno... Non basta più indicare i responsabili (imprese e classi dirigenti), non basta più opporsi a singole grandi opere inutili o a centrali di inquinamento mortale.
Tutte queste cose debbono ovviamente essere fatte ancora, e con più determinazione e partecipazione di massa; ma va ricostruita una capacità progettuale che permetta di indicare come intendiamo cambiare le politiche energetiche, la cura del territorio, la riconversione delle produzioni e la riduzione delle emissioni inquinanti, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, la gestione della mobilità individuale e collettiva nonché dei trasporti commerciali ecc.
Siamo un paese di trasformazione, con scarsa disponibilità di risorse naturali (al di fuori della nostra straordinaria biodiversità agricola ed alimentare) e ancora grandi capacità tecniche (in via di logoramento con la “liceizzazione” dell’università). Dunque le relazioni internazionali, sia commerciali che politiche, sono una necessità naturale. Oltre che la prassi normale in una una Storia millenaria. La rottura dell’Unione Europea, in questa chiave, è addirittura una precondizione per integrare meglio questo paese con il resto dell’area (mediterranea ed europea) e, contemporaneamente, modificare radicalmente l’ordine di priorità tra gli interessi sociali.
Il Memorandum con la Cina è appena una piccola smagliatura in quella gabbia. Ma è la prova concreta che fuori dalla logica mortifera dell’Unione Europea c’è vita anche per l’Europa. E fuori dalla logica della subordinazione militare agli Usa (attraverso la Nato) c’è una possibilità di vivere in pace, anche e soprattutto con i paesi del Mediterraneo (quelli su cui abbiamo con più infamia infierito con aggressioni e bombardamenti, al seguito dei “nostri partner”).
Nulla più che una smagliatura, ma ogni diga regge fin quando la struttura è integra. Non più che una possibilità, ma comunque qualcosa che prima era addirittura difficile da pensare.
E’ quanto basta per definirlo un “fatto storico”, non vi sembra?
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