La Confindustria ha annunciato previsioni nere per l’economia italiana: crescita zero, cioè recessione, cioè nuova crisi.
Probabilmente le previsioni sono giuste e non per la fonte, che ne ha sbagliate di grosso nel passato, ma perché confermate da tanti altri dati e fatti.
L’Italia è in recessione mentre tutta l’economia UE, a partire da quella della Germania, si sta fermando. È la fine della breve ripresa che è seguita alla crisi più lunga della storia, ripresa in Europa accompagnata dalle politiche di regalo di soldi alle banche voluta da Draghi. Politica che evidentemente non ha portato ad alcun cambiamento reale nell’economia, ma ne ha solo accompagnato le tendenze di fondo.
L’Italia sicuramente sta peggio di altri, ma nessuno sta messo bene. Perché ciò che sta andando in crisi è il meccanismo liberista della globalizzazione secondo il quale ogni stato dovrebbe puntare sulle esportazioni. A parte l’ovvietà che tecnicamente è impossibile che tutti esportino, questo modello è sprofondato nella diseguaglianza sociale, nelle privatizzazioni, nella precarietà, cioè nella distruzione della domanda interna.
La Cina non sta solo proponendo la Via della seta, ma un gigantesco sviluppo del mercato interno. È il ritorno di Keynes e delle politiche economiche di stato, mentre tutte le frottole sulla globalizzazione come evento non più modificabile rivelano la loro consistenza puramente ideologica.
La UE è paralizzata dai suoi trattati liberisti e dall’euro, che non è solo una moneta ma lo strumento di generalizzazione delle politiche liberiste. Ora che bisognerebbe cambiare, la UE non è in grado di farlo e non a caso Germania e Francia fanno per conto loro, naturalmente proclamando di agire nel nome dell’Europa.
Tutta la UE non sta bene, ma l’Italia sta peggio di altri perché da noi il combinato disposto di politiche liberiste ed euro ha fatto più danni ad un sistema industriale e produttivo secondo in Europa solo a quello tedesco.
Quindi la crisi c’è ed è quella del modello di sviluppo degli ultimi trent’anni, modello che la Confindustria ha sostenuto in tutti i modi e con tutta la sua capacità di pressione politica su governi ad essa particolarmente sensibili.
Ridicolo quindi rispondere come fa Salvini, che imita Renzi rispolverando le accuse ai “gufi”. E penosa anche la replica di Di Maio che invece, per distinguersi dal suo gemello preponderante, si è dichiarato vicino alle preoccupazioni dei padroni. Così siamo alla solita subalternità del governo al partito delle imprese, quando bisognerebbe invece denunciare le responsabilità di quel partito sulla crisi attuale e rifiutare le ricette che esso propone per uscirne.
La Confindustria non solo rivendica le fallimentari politiche liberiste che ci hanno condotto alla stagnazione-recessione attuale, ma le ripropone come se nulla fosse. Soldi alle imprese, bassi salari e precarietà, grandi opere e privatizzazioni, austerità dei conti pubblici ed euforia di quelli privati; ed infine ancora più esportazioni. A questo gli industriali poi aggiungono anche la condivisione del disappunto di Trump e Salvini per gli accordi con la Cina, con un rigurgito di fedeltà atlantica da anni '50.
La ricetta di Confindustria non è solo politicamente e socialmente reazionaria, ma stupida e fallimentare e può raccogliere considerazione solo in un paese dominato a destra e nella finta sinistra dal liberismo. Un paese dove le grandi confederazioni sindacali si preoccupano solo di fare eco a quel partito del PIL, che in realtà è capace solo di rivendicare di continuare con il peggio del passato.
Dalla crisi non si esce seguendo le vie e gli interessi che ci hanno portato ad essa, ma solo colpendo le diseguaglianze e la precarietà, alzando i salari, rilanciando lo stato sociale e la spesa e l’intervento pubblico e non per le grandi opere ma per il risanamento del paese. Non fare il TAV e ripristinare l’articolo 18, ecco due prime misure simbolo di un vero cambiamento. E pazienza se la UE in crisi dovesse urlare il suo disaccordo. Rompere coi vincoli dei trattati UE è una delle condizioni per ripartire.
La Confindustria non è il medico della crisi, ma tra i principali responsabili di essa, per cambiare in meglio bisogna fare sostanzialmente il contrario di ciò che propone.
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