di Sandro Moiso
Pierre Miquel, Le guerre di religione, Res Gestae, Milano, 2019, pp. 636, € 24,00.
L’autore di questo libro uscito in Francia nel 1980, al tempo docente
presso la Sorbona, e per la prima volta in Italia nel 1981, certamente
non si sarebbe trovato d’accordo con il titolo di questa recensione.
Avrebbe, cioè, tenuto fermo il punto sullo scontro di carattere
religioso avvenuto in Francia tra il 1523 e il 1771, il periodo di cui
appunto l’ampia ricerca si occupa.
Eppure, eppure...
Oggi, ancor più di ieri, è evidente agli occhi di chi scrive che
spesso è più il presente o ancor meglio il futuro a determinare le
coordinate della ricerca storica, più che il passato in sé. Si potrebbe
forse addirittura affermare che il passato in sé non esiste, essendo
rideterminato da ogni stagione di nuove riletture dello stesso, messe in
opera sulla base delle esperienze e delle esigenze del presente oppure
sulle ipotesi derivate da nuove prospettive future.
In questo senso, sia come ricercatori che come antagonisti del presente,
occupandoci di Storia e di studi sociali, così come di qualsiasi altra
scienza, possiamo essere tanto agenti del quanto agiti dal futuro.
Il semplice ricordo o la memoria del passato in sé, invece , spesso
finiscono col coincidere con la nostalgia o la difesa conservatrice
delle tradizioni e delle nozioni acquisite, mentre sono soltanto i
cambiamenti in atto nel presente a costringere la ricerca storica a
sfidare i suoi limiti, spesso semplicemente costituiti da verità ed
affermazioni che si ritengono, soprattutto in ambito accademico, valide
una volta per tutte. Ma i cambiamenti, presenti e futuri, di carattere
sociale, culturale e politico, in ogni epoca, costringono ad una
rilettura del passato poiché a nuovi immaginari, sempre derivanti dalla
materialità del mondo circostante, servono nuovi elementi di conoscenza e
nuove articolazioni interpretative per sviluppare le proprie iniziali
intuizioni. Rendendo così possibile, infine, che spesso sia il futuro ad
agire sul passato (e sul presente), più di quanto faccia il secondo sul
primo.
Ecco allora che bene ha fatto Res Gestae, casa editrice da sempre
impegnata nel recupero e nella ristampa di testi di storia da tempo
scomparsi dal mercato editoriale italiano, a ripubblicare questo testo,
denso di informazioni e allo stesso tempo di lettura piuttosto
scorrevole, dedicato ai quasi tre secoli che precedettero
sostanzialmente l’affermazione delle idee illuministiche e la
rivoluzione francese. L’autore infatti ci teneva a sottolineare proprio
questo: quei duecentocinquanta anni di violenze, rivolte, roghi,
massacri e scontri militari erano serviti comunque a creare le basi per
una nuova libertà di coscienza e della successiva Grande Rivoluzione.
Eventi che di fatto significarono l’uscita da un’epoca in cui il
pensiero religioso era ancora onnicomprensivo, utile a spiegare tanto i
fatti spirituali e morali ricollegabili all’aldilà quanto le esigenze
concrete e politiche espresse dalla vita materiale nel mondo secolare.
Già nel Principe, d’altra parte, Niccolò Machiavelli aveva
sottolineato l’importanza della religione come strumento politico di
governo, rivelando così, già agli inizi del XVI secolo, come la
religione assuma particolare importanza nella lotta politica là dove non
esistono ancora altri strumenti interpretativi della realtà di
carattere politico o sociologico.
Proprio ciò che successe tanto al tempo delle eresie medievali che,
forse, una più attenta analisi storica rivelerebbe trattarsi di una
diffusa resistenza all’affermazione delle nuove regole di una società
mercantile in via di progressivo assestamento, quanto abbiamo ancora
visto succedere in età a noi più vicine con movimenti sociali come
quello di Davide Lazzaretti, il Cristo dell’Amiata, oppure i primi moti
della rivoluzione russa del 1905 con la presenza del pope Gapon oppure,
ancora, con gli attuali sussulti del radicalismo islamico in tutte le
sue componenti.
Movimenti che si ammantano di religiosità proprio in assenza di una
teoria laica e politica che serva a spiegare determinate contraddizioni
sociali fornendo agli oppressi e ai rivoltosi una prospettiva di
cambiamento e di vittoria oppure, e in questo caso soprattutto per
quanto riguarda il radicalismo islamico odierno, a causa del fallimento
delle teorie politiche messe in atto per raggiungere determinati
risultati. Ad esempio il fallimento del nazionalismo arabo di stampo
nasseriano e del socialismo di stampo baatista.
Non c’è dubbio che nei tre secoli di storia francese magistralmente
analizzati, sul piano dello scontro religioso, sociale, politico e
militare, dal testo di Miquel le contraddizioni fossero tante e
distribuite su più livelli. Cattolici contro protestanti; signori locali
contro la monarchia in difesa delle loro autonomie; borghesi contro
vescovi e signori feudali, talvolta al riparo degli editti del re, ma
talvolta contro lo stesso; interessi imperiali contro interessi papali;
interessi dei contadini liberi contro gli interessi feudali; servi della
gleba contro i signori, ma anche investiti in quanto contadini dalle
mire espansive della borghesia cittadina sulle terre comuni; la presenza
esigua ma significativa di una prima “classe operaia” istruita, ad
esempio quella degli stampatori di Lione, che però riveste ancora le
vesti di un apprendistato destinato domani a farsi imprenditore1
che si esprimeva con una rimessa in discussione dei principi della
Chiesa di Roma a partire dalle critiche che le erano state mosse da
Lutero e da tutti gli altri Riformatori.
L’elenco potrebbe ancora essere lungo e il gioco combinatorio delle
rivalità e delle contraddizioni allungarsi all’infinito, ma ciò che
conta a questo punto è sottolineare che, nel corso dei due secoli e
mezzo presi in esame, lo scontro e il gioco delle alleanze tra le varie
componenti sociali contribuì soprattutto a ridefinire le forme del
nascente Stato moderno, con la sua volontà accentratrice che in seguito
la Rivoluzione del 1789 avrebbe contribuito a completare soltanto
cambiando il segno della classe al comando.
Ecco allora perché è giusto parlare di guerra civile: proprio perché
l’obiettivo ultimo di quello scontro che vide al suo centro per lungo
tempo quello con gli Ugonotti, ma anche la straordinaria ultima
ribellione dei camisards della Linguadoca e le violente dragonnades
messe in atto dal potere reale per reprimerla insieme a tutte le altre
rivolte precedenti oppure la nascita della bandiera rossa sulle mura
della ugonotta e indipendente città marinara di La Rochelle, fu quello
di ridefinire i rapporti di forza politici e sociali che avrebbero
dovuto sostanziare la nuova forma statale che ne derivò e che, ripeto,
si completò soltanto con l’affermazione della borghesia durante la
Grande Rivoluzione.
Rivoluzione che, in quanto dialettica e materiale sintesi delle lotte
che l’avevano determinata nel corso dei secoli precedenti, rappresentò
non tanto la vittoria di uno dei due attori principali (cattolici e
protestanti, tanto per semplificare) ma, piuttosto, la negazione di
entrambi attraverso la laicità e la centralizzazione politica giunte a
piena maturazione con l’affermazione di classe della borghesia (che
aveva in precedenza giocato le proprie carte, non sempre in maniera del
tutto calcolata, su entrambi i fronti). Determinando così quella
separazione tra Stato e Chiesa che, in Europa, soltanto in Italia
sarebbero tornati a riunirsi sotto il Fascismo con i Patti Lateranensi
del 1929.
Ma questa riflessione può essere oggi indotta, e questo giustifica
completamente la riedizione e una rilettura attenta del testo in
questione, dall’osservazione che ormai da più di un secolo, almeno
centocinquant’anni se partiamo dalla Comune di Parigi, un’altra violenta
e tutt’altro che sotterranea guerra civile si è aperta tra sfruttati e
sfruttatori, sia della specie umana sia dell’ambiente, che si risolverà
soltanto con la ridefinizione delle forme sociali di governo e di
produzione. Le forme non sono ancora del tutto date, ma ciò potrebbe
essere dovuto al corso degli eventi oppure definirsi completamente
soltanto al loro termine, ma certo è che dobbiamo, con intelligenza e
lucidità di pensiero, renderci conto che la Comune, la rivoluzione
russa, due guerre mondiali, le grandi dittature del ‘900, le lotte
antimperialiste e operaie, il ’68, gli anni Settanta e le attuali lotte
come quelle della Zad, dei NoTav o in difesa dell’ambiente e contro
l’estrattivismo diffuso su scala planetaria oppure, ancora, la nascita
di nuovi movimenti autonomi come quello dei gilets jaunes fanno tutti
parte di una lunga, forse lunghissima, guerra civile destinata a
ridefinire i confini del futuro della nostra specie. Uno scontro, quello
che viviamo, che soltanto dal futuro, inteso come negazione dei
rapporti sociali di produzione presenti e passati, può trarre
l’ispirazione e le giuste motivazioni.
Lasciando agli attuali manutentori dell’ordine costituito il ruolo
che toccò alle peggiori forze conservatrici, laiche o ecclesiastiche che
fossero, dell’epoca studiata da Miquel. Ovvero quello di negare, con
ogni mezzo, un futuro diverso e possibile affinché ciò potesse e possa
ancora impedire qualsiasi azione di cambiamento del presente attuale e
del passato.
Carcere, forca, tortura, costrizione all’abiura e violenza non sono
stati strumenti repressivi tipici soltanto del passato, ma sempre più lo
sono del presente. In ogni angolo d’Europa e del mondo e anche questo
occorre chiamare col nome appropriato: guerra civile, aperta o
strisciante che sia.
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