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04/08/2019

X - Los Angeles

Dalla metà degli anni 70 Hollywood a Los Angeles s’infiamma con la scena punk. Una scena plurale, dominata da donne e chicanos, dove le differenze culturali, etniche e di genere trovano spazio per l’espressione personale e la condivisione. In questo contesto emerge la stella degli X, band capitanata dalla coppia Exene Cervenka e John Doe, incredibilmente affascinante e disperata (la sorella di Exene, Mirielle, vola invece a New York e prende parte alla scena no wave, insieme al marito Gordon Stevenson, tra Dna e Teenage Jesus & the Jerks).

Come Amos Poe e Ivan Kral a New York scelsero di aprire “The Blank Generation” (1976) sotto il segno di Patti Smith, così Penelope Spheeris sceglie gli X per presentare il fermento punk di allora nel suo storico film documentario “The Decline of Western Civilization” (1981), con una versione incendiaria di “Nausea”. Alla band è così assegnato il ruolo emblematico di connettore e propulsore di una scena che prolifica nelle venue della Città degli Angeli (Fleetwood, Club 88, Whisky a Go-Go, Roxy, Hong Kong Café) e che coagula progetti musicali disparati, come Germs (prodotti da Joan Jett), Alice Bag Band, Circle Jerks fino ai Black Flag, che diventeranno, nello stesso contesto della Southern California, quasi antagonisti con l’inflessibile credo "DIY hard-core".

“Los Angeles” (1980) stesso, primo album della band e disco fondamentale della storia del punk, è la sublimazione delle inquietudini artistiche e culturali che attraversano LA dagli anni 60 agli anni 80: un disco scritto dalla band, realizzato insieme a Ray Manzarek dei Doors e (auto)prodotto dalla Slash Records, compagine discografica della zine Slash Magazine, per la quale scrivevano anche Claude Bessy (Catholic Discipline) e Chris D (Flesh Eaters, Divine Horsemen).

I riff propinati dagli X affondano una recondita idolatria per il rock duro e puro dei primi 60 dentro un oceano di nichilismo dalle tinte noir. Testi scomodi e incendiari fungono da volano per una vera e propria cascata di melodrammi interiori, talvolta esorcizzati con l’irriverenza di chi ha deciso di bruciare e bruciarsi come se non ci fosse un domani all’orizzonte (su tutte spicca la sopracitata "Nausea"). Ebbene, è da tale coagulo di umori e sensazioni disorientanti che nasce la title track: un concentrato di rockabilly strizzato in un secchio di acido solforico con la chitarra di Billy Zoom suonata come se Chuck Berry si unisse di scatto ai Sex Pistols, dando così vita a un amplesso tanto magico, quanto surreale.

È il canto del cigno dell’utopia hippie dei 70 che rimbomba ancora, mentre le campane del punk suonano imperterrite la loro inconsolabile e folle festa. Un party sfrenato, malato, degenerato fino al midollo e con Exene matrona incarognita al microfono, tra un’invettiva sociale da gridare al mondo e un disappunto interiore da sputare in faccia a chiunque incroci il suo sguardo. Quello mosso dagli X è un oltraggio senza soste. Un assalto frontale organizzato tra un mantra di morrisoniana memoria (“The World's A Mess, It's In My Kiss”) e l’ennesimo giro rock da spedire sulla Luna magari con un “semplice” conato (“Sugarlight”).

Gli X si muovono seguendo coordinate che di lì a poco daranno vita alla rivoluzione hardcore della benemerita West Coast statunitense. Uno tsunami che placa la sua inarrestabile corsa in momenti meno incalzanti, ma non per questo meno deviati, come il passo sbilenco e magnetico de “The Unheard Music”. Parimenti, se c’è una canzone che più di ogni altra evidenzia l’anima magmatica della band californiana e di quello che sarà il fondamento di tutto il movimento “L.A. punk”, questa è la trascinante “Johny Hit And Run Paulene”: un vero e proprio boogie per stupratori seriali a cui affidare, in maniera ovviamente del tutto figurata, i propri demoni da scagliare a velocità supersonica contro una società paralizzata e sempre più imbevuta di capitalismo.

In tal senso, resta emblematica l’introduttiva “Your Phone's Off The Hook, But You're Not”, scritta da Doe ed Exene, con il fantasma - più volte citato dallo stesso Doe - del grande rockabilly dei 50 Eddie Cochran (il cui inno ribelle "Summertime Blues" del 1958 viene talvolta considerato come la prima vera canzone punk della storia) a fungere da timoniere tra un conato e l’altro, mentre la chitarra del buon Billy Zoom trascina tutto con sé con il consueto riff in salsa pseudo-blues ultra-accelerato e le parole lasciano poco spazio all’immaginazione, conficcandosi ovunque come schegge impazzite, nell’insolito tentativo di descrivere la pochezza dell’altro lato degli States, rappresentato per l’occasione da una New York eletta a simbolo di una decadenza considerata dagli stessi X vagamente “spicciola”:
Someone clean to chew on
A wife that no one likes
I called and they said all of New York
Was a tow-away zone
We paid sixty dollars on 12th Street today
And now all our money's gone
“Los Angeles” segnerà così tanto la cultura californiana degli anni 70-80 da riecheggiare come un memento mori nella pagina finale del romanzo “Meno di zero” (“Less Than Zero”, 1985) di Bret Easton Ellis, dove il protagonista abbandonerà la città disperata, poco più che adolescente ma già “sul viale del tramonto”:
C’era una canzone che avevo sentito quando ero a Los Angeles, una canzone di un gruppo del posto. La canzone si intitolava “Los Angeles” e le parole e le immagini erano così crude e amare che il testo mi sarebbe ritornato in mente per giorni. Le immagini, lo scoprii soltanto dopo, erano personali e nessuno che conoscessi le condivideva con me. Le immagini che avevo io erano di gente impazzita per via della vita della città. Immagini di genitori così affamati e insoddisfatti da divorare i loro stessi figli. Immagini di persone, ragazzi della mia stessa età, che alzavano lo sguardo dall’asfalto restando accecati dal sole. Queste immagini restarono con me anche dopo che lasciai la città. Immagini così violente e malvagie che sembrarono essere il mio unico punto di riferimento anche molto tempo dopo. Dopo che me ne fui andato.

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