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Spettabile Redazione,
abbiamo letto con stupore l’articolo di Michele Franco “Un ulteriore giro di vite nelle carceri. Nuova catena di comando” con la quale si contesta la riforma del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che toglierebbe poteri ai direttori d’istituto per trasferirli al comandante.
Cosa lamentino i dirigenti penitenziari – direttori penitenziari che non vestono l’uniforme della Polizia Penitenziaria, non hanno alcuna preparazione e/o attitudine di polizia e né hanno superato alcuna selezione per entrare a farne parte – non è davvero dato comprendere. C’è chi parla di possibile “deriva securitaria” quando nel sistema penitenziario italiano – finora gestito dai direttori penitenziari – oggi si registrano gravi episodi di violenza ed aggressione ai nostri agenti; i detenuti arrivano a chiamare il 112 dalla camera detentiva con telefonini di cui illegittimamente sono in possesso; le situazioni strutturali sono al collasso; la gestione delle relazioni sindacali e del benessere del personale è ai minimi storici con elevatissima conflittualità sindacale; i reclusi saltano i muri di cinta con le lenzuola annodate come nei film, e la lista potrebbe proseguire.
Esaltano la terzietà, l’equilibrio e l’imparzialità dei vertici degli istituti penitenziari a vantaggio di una “conduzione rispondente a princìpi di equità ed umanità”, però al contempo ed incoerentemente i dirigenti penitenziari vogliono continuare a stare a capo di un Corpo di polizia a cui non appartengono e che hanno condotto allo sbando, spesso anche a causa di una fuorviante deriva ideologica.
Vogliono soprattutto continuare ad edificare le loro carriere sulle spalle della Polizia Penitenziaria, agganciandosi però agli istituti normativi della Polizia di Stato nelle more dell’adozione del loro primo contratto, senza però richiamare il trattamento giuridico ed economico della Polizia Penitenziaria, di cui chiedono di continuare a restare superiori gerarchici.
Molti dei firmatari della missiva sono ex collaboratori dei direttori di istituto, spesso impiegati in mansioni di segreteria, i quali, grazie alla legge Meduri, sono diventati dirigenti e oggi godono dei benefici delle Forze di Polizia, senza essere poliziotti.
L’ordinamento riconosce loro la responsabilità della sicurezza degli istituti, senza possedere alcuna qualifica che ne legittimi l’attribuzione ma, soprattutto, senza alcuna formazione specifica.
Non si comprende, dunque, quali siano le peculiarità dei dirigenti penitenziari rispetto ai dirigenti della Polizia penitenziaria, considerato che questi ultimi sono tutti portatori di una elevata cultura giuridica, visto che sono laureati in giurisprudenza e hanno tutti almeno un master, alcuni hanno anche più di una laurea.
Più che essere noi “parte di una deriva securitaria” sono loro parte di una deriva ideologica che vorrebbe eliminare le carceri e la polizia, lasciando i delinquenti in giro per le strade.
Noi auspichiamo che il Ministro della Giustizia Bonafede continui a porre attenzione alla crescita del Corpo di Polizia Penitenziaria e condivida con noi l’esigenza, ormai avvertita da tutti, di addivenire al più presto all’unificazione della dirigenza, con possibilità di transito dei dirigenti penitenziari in altre amministrazioni, qualora non volessero entrare a far parte del Corpo; tale modifica ordinamentale dovrebbe prevedere anche l’istituzione dei ruoli tecnici dei medici, degli psicologi, dell’area socio pedagogica e amministrativo contabile.
È giunto il momento che i Vertici dell’Amministrazione provengano dal Corpo di Polizia Penitenziaria.
Colgo l’occasione per porgere un cordiale saluto
Dott. Donato CAPECE
Segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE
Roma, 5 novembre 2019
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La risposta di Michele Franco alla lettera del segretario del SAPPE
Egregio Dottor Capece,
ho letto la sua missiva e la prima sensazione è stata di stupore per quanto affermato.
Nell’articolo, pubblicato su Contropiano.org, è stata riportata la denuncia del garante dei detenuti della Campania, dottor Samuele Ciambriello, il quale ha interpretato (a giudizio del sottoscritto in maniera corretta) la Nota trasmessa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – numero 0318577 del 22/10/2019 – come un ulteriore involuzione, verso una modalità di gestione puramente militare, della governance degli istituti di pena.
Se Lei, Dottor Capace, nell’ambito della sua funzione di “sindacalista” rileva delle criticità a proposito delle condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria ha sbagliato interlocutore e dovrebbe rivolgersi al Governo ed alle sue controparti datoriali.
In ogni caso, a parere di chi scrive, qualsivoglia carenza di personale ed eventuali criticità strutturali nell’ambito dell’amministrazione della giustizia non giustificano, in alcun modo, un mutamento di indirizzo culturale e normativo che possa ledere i diritti dei cittadini/detenuti i quali – come dovrebbe essere noto a tutti – sono certificati e garantiti dalla Costituzione della Repubblica e non da evanescenti, quanto mutevoli, “Note amministrative”.
Più preoccupanti, comunque, le sue parole riguardo la pretesa di “militarizzare” integralmente la gestione delle carceri, esautorando e allontanando i dirigenti civili (Direttori e collaboratori). Che lei addirittura accusa di esser portatori di una “deriva ideologica”, riferendosi probabilmente a ciò che resta del dettato Costituzionale in materia di espiazione della pena (art. 27).
Quanto alle “lauree” conseguite dal personale delle diverse polizie, stando alle denunce che ci provengono da diverse università, spesso sono “facilitate” facendo valere come esami sostenuti gli anni di servizio. Il che non deporrebbe certo a favore della qualità giuridica di quei titoli...
Michele Franco
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