Intorno alla vicenda dell’Ilva di Taranto sta venendo allo scoperto il fallimento delle politiche neoliberiste, e in special modo della loro versione “ordoliberale” e asimmetrica di matrice tedesca, imposta a forza di trattati a tutta l’Unione Europea.
Le divisioni nel governo riflettono quelle nella “classe dirigente” italica, ormai davanti ad un’alternativa secca: nazionalizzare, magari controvoglia e in modi “creativi” (tipo l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti, ovvero i risparmi postali dei cittadini meno abbienti), oppure confermare ostinatamente la subordinazione alle scelte del “libero mercato”.
Nel secondo caso si avrebbe lo stupefacente risultato di perdere un asset strategico che produce da solo più dell’1% del Pil nazionale, senza peraltro metter minimamente mano alla bonifica del territorio tarantino, la cui popolazione si ammala in proporzioni crescenti anno dopo anno.
Un risultato, diciamolo chiaramente, per cui i responsabili andrebbero condannati all’ergastolo ostativo (che pure avversiamo), come criminali che hanno prima regalato alle multinazionali pezzi interi del nostro apparato produttivo e poi hanno assistito senza muovere un dito alla sua distruzione. Anzi, difendendo a spada tratta il diritto di quelle multinazionali ad avvelenare e uccidere la popolazione, oltre che i lavoratori all’interno della fabbrica, senza mai pagar dazio e al riparo dei rigori della legge ordinaria (quella con cui perseguitano tutto noi, quando protestiamo).
Diciamo “nostro apparato produttivo” a ragione veduta, perché praticamente tutta l’industria dell’acciaio italiana (tranne piccole eccezioni, come Lucchini o Marcegaglia, ma solo in parte) è stata letteralmente messa su con soldi pubblici, quindi dei contribuenti. Patrimonio pubblico, insomma, gestito dall’Iri attraverso la sua controllata Italsider.
Il settore dell’acciaio, per quanto strategico per un paese industriale, è come tutti sottoposto ai cicli economici. L’attuale “affittuario” dello stabilimento di Taranto, la multinazionale angloindiana ArcelorMittal, sta in queste settimane chiudendo uno stabilimento in Sudafrica e riduce la produzione in Polonia. La domanda mondiale è rallentata moltissimo, tra guerra dei dazi e sovrapproduzione, e quindi ha alzato il prezzo per restare impegnata a Taranto: “scudo penale” (ossia impunibilità per le conseguenze mortali dell’inquinamento prodotto – non ha rispettato nessun impegno, né di bonifica né di ammodernamento del processo produttivo –) e dimezzamento dell’occupazione, con 5.000 licenziamenti.
Uno Stato serio, davanti a questo ricatto palese, ci metterebbe cinque minuti a riprendere il controllo della seconda più grande acciaieria d’Europa, anche perché per effettuare la bonifica esistono – inutilizzati – decine di miliardi di fondi europei cui il nostro paese ha abbondantemente contribuito.
Perché non si fa?
Qui nasce la divisione all’interno della feccia che si usa chiamare “classe dirigente”. Se si nazionalizza l’Ilva poi non c’è più alcuna ragione “di mercato” che tenga di fronte alle centinaia di crisi aziendali oggi aperte (tra fallimenti, dismissioni, delocalizzazioni, multinazionali italiane o straniere in fuga verso profitti più facili). La diga opposta per 30 anni ad ogni richiesta di “fare qualcosa per difendere l’occupazione” verrebbe giù come quella del Vajont, sommergendoli.
Ci troviamo insomma ad un bivio concretissimo, materiale, anzi proprio d’acciaio, su cui rischia di infrangersi la linea di governance economica in voga dalla caduta del Muro ad oggi.
O si lascia svanire senza fer nulla, insieme all’Ilva, tutto il patrimonio – industriale e non – e ci si rassegna a diventare un paese disneyland, un’attrazione turistica (finché dura la moda); oppure si riprende in mano la responsabilità di programmare una politica industriale su iniziativa pubblica. Perché di “imprenditori privati” con le necessarie risorse finanziarie, e soprattutto con la disponibilità a rischiare, in Italia non se ne vedono. E di multinazionali prendi-i-soldi-e-scappa, per favore, anche basta...
Su questo punto, insieme alla “classe dirigente”, si va sfasciando anche la coalizione di governo giallo-blu, riaprendo molto seriamente la prospettiva di elezioni anticipate in primavera.
Lo spappolamento di questa “classe politica” si evidenzia proprio con le prese di posizione intorno al nodo principale: garantire ad ArcelorMittal ciò che chiede (impunità penale e licenziamenti di massa) oppure – con vero sprezzo del ridicolo – “inventiamoci qualcosa” (come chiesto da Giuseppe Conte)?
E qui si vede in piena luce che Pd e Lega (con i relativi codazzi, tra Renzi, Berlusconi, Meloni, Bonino, Fratoianni, ecc.) sono assolutamente indistinguibili. Tutti sdraiati a tappetino davanti alla multinazionale, senza se e senza ma.
Che poi questo ammasso di giocolieri senza potere si mescoli oppure no in nuovi aggregati temporanei, è questione quasi secondaria. Certo dovranno inventarsi qualcosa per raccontare una nuova cazzata “persuasiva” a un elettorato stanco e ormai rassegnato a farsi comandare da qualche “uomo forte”.
Non per “impedire a Salvini di vincere”, ma per accelerare la sua conversione alla democrazia cristiana europea (il Ppe egemonizzato da Angela Merkel).
Il Matteo milanese, dopo il colpo di sole ferragostano, ha ricevuto adeguate reprimende ed istruzioni (ascoltate Giorgetti, ogni tanto), e si è già avviato ingloriosamente su questa via.
Il modello, in fondo, già esiste ed è “europeisticamente accettabile”, perché tiene insieme obbedienza assoluta ai trattati e al “libero mercato” con il razzismo di Stato.
Si chiama modello Orbàn, e a Bruxelles, ormai, lo tengono in grande considerazione.
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