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01/01/2020

Kraftwerk - 1978 - The Man-Machine

Welcome to the machine. Alla fine di un lungo viaggio, iniziato alle porte del Cosmo di teutonica pertinenza e proseguito lungo le linde autostrade futuriste di “Autobahn” e le rotaie cigolanti del “Trans-Europe Express” - laddove capitava d'incontrare Iggy Pop e David Bowie - i Kraftwerk approdano alla tappa (forse) definitiva della loro carriera: quella al cospetto dell’Uomo Macchina. Una simbiosi totale, illuminante. La Vecchia Mitteleuropa scaraventata in una Metropolis abbagliata dalle luci al neon e popolata di inquietanti robot, giganteschi calcolatori e navicelle spaziali in libera uscita. Musicalmente, è il coronamento della rivoluzione operata dalle macchine sulla trentennale tradizione del rock: tanti saluti al blues, alla sacra triade “basso-chitarra-batteria”, potere ai nuovi umanoidi armati di vocoder, sintetizzatori e drum machine. Con buona pace di chi non si sarebbe mai arreso alla svolta, a partire da Rolling Stone, che nella sua prima recensione di “Autobahn” si chiedeva: “È buono, ma è rock?”. Oggi, che di rock è rimasto poco, il dubbio fa sorridere, ma all’epoca gettava idealmente le basi di quella lacerante frattura generazionale che avrebbe marchiato a fuoco l’intero decennio successivo: gli eternamente incompresi Ottanta.

La canzone pop perfetta

Ma i Kraftwerk, che avanti di un decennio erano stati fin dalla nascita, non potevano certo porsi il problema. Il loro obiettivo, semmai, era adattare quei suoni avveniristici alle esigenze umane: “Scrivere la canzone pop perfetta per tutte le tribù del villaggio globale”, secondo l'immodesto proposito di Florian Schneider, alla guida delle operazioni insieme a Ralf Hütter, Wolfgang Flür e, qui per la prima volta, Karl Bartos. Tutti equipaggiati con cataste di Mini Moog e ARP Odyssey d’antan.

Obiettivo centrato in men che non si dica, grazie al riff sempiterno di “The Model”: “Una melodia di tale stupefacente flessibilità da prestarsi a essere riletta da Snakefinger come dai Big Black e dal Balanescu Quartet”, come ricorda Eddy Cilia nella nostra monografia. Classica nella sua adesione al formato-canzone, ne scardina in realtà alcune certezze, a partire dal ritornello, soppiantato di fatto da quel mirabolante solo di tastiera che parte al minuto 1’49’’ lasciando immancabilmente senza fiato. Diventerà il paradigma del synth-pop moderno e apolide, il vero esperanto del villaggio globale. Ma a sorprendere è anche il suo testo, co-firmato da Emil Schult: il ritratto sapido di una diva imbellettata e vezzosa che beve solo champagne e cambia idea ad ogni scattar di flash (“It only takes a camera to change her mind”). Lungi dal voler essere misogini, i Kraftwerk lanciano un romantico appello a discernere la bellezza dall’uso pornografico che se ne fa nella società dei consumi: “Molta della musica che ci circonda è spazzatura, che condivide gli stessi valori della pornografia. Sono questi valori a trasformare The Model in un robot. C'è musica oltre la pornografia? È questa è la domanda che poniamo”, spiegava Hütter. La moda, così, da fatuo circo di vanità diviene baluardo del costume e della cultura del Novecento, un modello di vita da preservare.

Vecchia Europa al neon

Ma questi aromi crepuscolari di Vecchia Europa resistono anche sotto i bagliori artificiali di “Neon Lights”, istantanea di una Düsseldorf romantica e densa di nostalgia, dove si può ancora trovare rifugio all’Hotel Cristallo, da Frau Klofter o in qualche decadente club notturno (secondo i visuals che negli anni accompagneranno l’esecuzione live del brano). Un piccolo mondo antico-moderno, destinato a essere insidiato dall’era robotica: ecco allora l'archetipica osmosi dell'uomo-macchina sublimarsi in un nuova simbiosi e addirittura sovvertirsi, trasmutandosi in “machine man”, la macchina che completa l’opera prendendo il posto del suo creatore. Il mantra gelido della title track nasce su scale pentatoniche di accordi e cresce in intensità con una frase di synth reiterata per tutta la sua durata e una voce di cyborg a intonare “Man-machine super human being”, finché il titolo del brano non viene ripetuto 8 volte salendo sulle ottave, in uno stile che il critico Simon Reynolds definirà “doo-wop androide”.

Ma ciò che può apparire un'orrorifica prefigurazione di tutti gli incubi della futura new wave è in realtà solo il frutto di una pacata weltanschauung progressista: “The Man Machine è il tentativo di scoprire i parallelismi, le affinità, l’amicizia tra l’uomo e la macchina – teorizzava Hütter - È il contrario di quanto fatto durante gli anni '60 dalla cultura rock, che cercava di reagire a un’epoca e di staccarvisi. Noi crediamo fortemente in questa ricerca. È la nostra esperienza quotidiana, la scoperta dell’uomo-macchina: dimostrare che non è un limite, che noi facciamo delle cose meccaniche mentre le macchine fanno delle cose quanto mai umane. Ci siamo avvicinati ad esse come i bambini quando scoprono la vita: ci siamo accorti che sono il riflesso psicologico della nostra esistenza. Quindi ecco il rifiuto delle teorie del secolo scorso (l’uomo dominato dalla macchina) e una tranquilla, amichevole collaborazione fra l’uomo e la macchina”.

Danze androidi

Era insomma il mondo occidentale che confidava di mettere il suo futuro nelle mani di droidi efficienti come calcolatori e tranquillizzanti come il bonario C1-P8 di “Guerre stellari”. O come i protagonisti dell’ipnotica, asimoviana “The Robots”, che ci salutano amichevolmente in russo, giurandoci fedeltà (“Ya tvoy slugá”, “Sono il tuo servo”) e impegno incondizionati (“Ya tvoi rabótnik”, - “Sono il tuo lavoratore”). Eppure quei manichini inamidati in rosso e nero – con i volti di un pallore cereo, il rossetto sulle labbra sottili e i capelli acconciati in modo uniforme alla Big Jim – inquietano, oggi come allora. Anche se, in fondo, assomigliano molto alle celebri effigi dei quattro Kraftwerk in camicia rossa e cravattino nero d’ordinanza raffigurati nella memorabile copertina dell’album, ispirata al costruttivista russo El Lissitzky. E in definitiva, se ne scostiamo la patina sintetica, “The Robots” altro non è che un’umanissima danza, scandita al ritmo industriale delle macchine. Già, perché “le macchine sono funky” (Hütter dixit).

A completare questa fiaba fantascientifica in rosso e nero, due (semi)strumentali. Il primo, “Spacelab”, è un capolavoro, sospeso tra un tiro da disco-music meccanizzata alla Moroder e un respiro melodico pastorale degno della Classica: solo un vocoder a pronunciare il titolo, avvolto in una coltre di sintetizzatori scintillanti che si snodano sinuosi accompagnando idealmente il lungo viaggio siderale dell’astronave, con il suo corredo di ingenua iconografia sci-fi stile “Spazio 1999” (prontamente recuperato in tutte le successive scenografie live). Resterà l’unica, commovente ode cosmica della band, concepita proprio in una fase storica in cui, a causa della crisi economica, russi e americani avevano ridotto drasticamente i voli, concentrandosi sulla creazione di laboratori nello Spazio.

“Metropolis” è invece un palese omaggio all'omonimo film di Fritz Lang e alla sua città del futuro, con quei synth cosmici sulla cassa a profetizzare la techno di Detroit.

Manifesto definitivo del suono di marca kraftwerkiana che germinerà frutti negli ambiti più disparati (dal synth-pop di Depeche Mode, Omd, Human League & C. all’hip-hop di Afrika Bambaataa, dalla dance alle propaggini house e techno fino ai cyber-party dei Daft Punk), “The Man-Machine” è il trionfo finale della svolta pop inaugurata con “Autobahn”: uno schiaffo a tutti gli ottusi e reazionari di ogni età che non ne capirono (e non ne capiscono tuttora) la portata rivoluzionaria. Sei canzoni per 36 minuti complessivi, che restano un trattato di storia delle tastiere, con la grazia fatata e il battito incessante dei loro suoni retrofuturisti, i sussurri più umani che una macchina sia mai riuscita a concepire, checché ne pensasse ancora Rolling Stone, che nella recensione dell’epoca, a cura di Mitchell Schneider, scriveva: “Dopo circa 3 minuti di ascolto di The Man Machine, la band ha scientificamente estratto tutto il sangue dell’ascoltatore per rimpiazzarlo con del Lysol”. Suggestivo, ma falso.

L’epopea cibernetica del successivo "Computer World" ne sarà il legittimo erede. Poi, a prevalere sarà soprattutto la dimensione live. Dalle manopole e dai transistor vintage dei Kling-Klang Studios fino all’ultima frontiera del techno-pop, la Centrale Elettrica di Düsseldorf resterà sempre accesa, con la sua energia rinnovabile ad ogni epoca e generazione.

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