In una prima fase i governi e i
media occidentali hanno sfruttato l’epidemia per attaccare la Cina, che
però ha saputo reagire e superare l’emergenza medico-sanitaria in un
tempo relativamente breve, a giudicare dalle informazioni che riceviamo.
In una seconda fase l’epidemia ha raggiunto l’Italia e altri paesi,
europei e non, mentre la Cina si è proposta come paese guida nella
risoluzione dell’emergenza (per esempio con l’invio di personale medico e
di macchinari sanitari in Italia) seppur con delle contraddizioni che
restano aperte all’interno dei suoi confini. Questa crisi può essere il
banco di prova della via allo sviluppo perseguita dalla Cina, favorire
la sua ascesa nella gerarchia globale e segnare la nascita di un nuovo
ordine mondiale? Che partita sta giocando il paese guidato da Xi Jinping
sullo scacchiere europeo?
«Parto da una considerazione scontata: il caos che sta montando è
dovuto all’intreccio tra crisi sanitaria e crisi economica. La prima si è
fatta strada in maniera molto accelerata e con una capacità virale
inusuale nell’arrivare dall’Asia all’Europa e diventando globale
potenzialmente può avere conseguenze politiche. La questione sanitaria
ha prodotto incertezza, costringendo i governi e la comunità scientifica
a reazioni di negazione prima, sorpresa e panico poi. È una
considerazione importante da fare perché è evidente che stiamo
assistendo a una crisi della governance a livello globale, una vera e
propria crisi di comando politico. La crisi sanitaria è andata poi a
collidere in maniera violenta con i problemi irrisolti della crisi
globale che si trascinano da tempo, visto che dopo il 2008/2009 non c’è
stata una vera ripresa, un forte rilancio dell’accumulazione. Inoltre i
poteri globali arrivano a questa seconda fase della crisi, se di questo
si stratta, con le armi spuntate: i debiti sono ormai alle stelle, le
politiche monetarie di tassi zero e di immissione di liquidità hanno
raggiunto i propri limiti, inoltre negli ultimi anni abbiamo assistito
alla guerra commerciale tra Usa e Cina con il chiaro obiettivo, da parte
statunitense, di bloccare la risalita della catena di valore globale
della Cina, dunque una guerra tecnologica. Oltretutto i segnali di
recessione, dovuta sia allo shock dell’offerta – con il blocco delle
filiere globali di produzione di valore – che della domanda, si erano
palesati o perlomeno si intravedevano già dalla fine del 2019.
Proviamo a fotografare la situazione cinese per quello che è
possibile con i dati che abbiamo a disposizione. La reazione delle masse
cinesi alle notizie sul diffondersi del virus è stata molto forte e ha
spinto sullo Stato centrale di Pechino a fronte della trascuratezza e
dell’incompetenza delle autorità locali che hanno tentato di mettere a
tacere i focolai. Il gioco tra centro e periferia dello Stato cinese è
stato sempre presente, ma questa dialettica tra politico-centrale e
amministrativo-periferico la vediamo in atto in piccolo anche in Italia –
pensiamo alla querelle tra regioni e Conte – o negli States nello
scontro tra Trump da un lato e, dall’altro, Stati con una base sociale
non trumpista e governati dai democratici, come California oppure New
York. Questo è interessante per capire quanto è profonda la crisi che fa
emergere queste fratture.
Quindi in Cina c’è stata questa forte pressione dal basso affinché lo
Stato intervenisse, tenuto conto che il welfare cinese, in particolare
la sanità, è deficitario perché smantellato o privatizzato dalle riforme
prodotte da Deng e seguaci. Una situazione simile agli Stati Uniti
dunque, ma con livelli di reddito bassissimi, ragion per cui i proletari
e quel poco di ceto medio presente devono risparmiare tantissimo per le
eventuali prestazioni sanitarie. Alla forte spinta dal basso su Pechino
si sono affiancate le mosse di Xi Jinping che è intervenuto in maniera
molto decisa perché c’era in gioco la legittimazione del partito e dello
Stato nel riuscire a salvaguardare la popolazione. Quindi una
dialettica democratica intesa nel senso sostanziale del
termine, ovvero come costituzione materiale del rapporto tra
proletariato, partito e Stato in Cina, in cui il popolo ha spinto nei
confronti del potere e, a sua volta, Xi è intervenuto
propagandisticamente come se fosse una vera e propria guerra di popolo,
non solo contro il virus. Infatti ciò ha un profondo significato
geopolitico perché uno dei messaggi veicolati, neanche troppo implicito,
verteva sulla possibilità che l’Occidente, soprattutto gli Usa, potesse
approfittare della crisi sanitaria per dare un colpo alla Cina. L’altra
cosa interessante, più direttamente geopolitica, è che il modello
cinese di intervento – necessario alla luce delle carenze
dell’infrastruttura cinese – ha avuto un’immediata ripercussione
nell’Occidente imperialista nel rapporto tra popolazione e rispettivi
governi. L’Italia, dopo la negazione e la sottovalutazione iniziale, è
stata il primo paese ad adottarlo con il semi-blocco deciso dal governo,
che oggi si allenta per volere di Confindustria e di parte della
popolazione. È interessante perché abbiamo visto qui sia la dinamica
regioni-centro, ovvero l’iniziale “Milano non si ferma” contro la
chiusura voluta dal governo, sia la spinta della popolazione, nella
fattispecie spezzoni di classe operaia che hanno fatto scioperi
spontanei. È un’analogia che ovviamente va maneggiata con cautela ma che
non vale solo per l’Italia, pensiamo ad esempio a BoJo che chiama alla
morte gli abitanti della Gran Bretagna con un messaggio neomalthusiano, o
a Trump che inizialmente ha negato l’esistenza di un’emergenza. Alla
fine sono entrambi stati costretti a prendere delle misure più
restrittive.
Pur tenendo conto del virus e della particolarità della situazione, è la prima volta che la Cina ha esercitato un soft power vincente
– mi ha particolarmente colpito un sondaggio di La7 sulla valutazione
dell’intervento cinese e statunitense che mostrava un netto dislivello a
favore del primo –. Inoltre il paese guidato da Xi Jinping ha lanciato un
messaggio universalistico, fin qui prerogativa dell’Occidente,
ovviamente non declinandolo sui diritti umani ma sulla necessità di
prendere misure restrittive e di cooperare in termini economici per
superare il virus. Quindi l’invio di mascherine e di altre attrezzature è
sì strumentale ma ha anche questo sottofondo più propriamente politico,
una sorta di universalismo in salsa cinese che ha contato nello
spostamento degli umori e delle reazioni dell’opinione pubblica dei
paesi occidentali. D’altro canto non bisogna sopravvalutare la risposta
cinese perché, se è vero che da un certo punto di vista è stato la meno
peggio nello scacchiere internazionale, è chiaro che la diffusione di
questo virus, ancorché apparentemente contenuto, ha messo in estrema
difficoltà l’economia cinese e il suo tentativo di risalire la catena
del valore, anche perché l’incrocio tra questione sanitaria e recessione
economica può tramutarsi in un’enorme depressione che può bloccare
l’aspirazione cinese.
Quindi ci saranno due ordini di difficoltà: a
differenza del 2008/2009, quando i suoi interventi hanno evitato che
l’Occidente precipitasse completamente, la Cina è oggi completamente
dentro la crisi perché si è indebitata e ha difficoltà a varare un piano
di interventi economici infrastrutturali keynesiani come fece a suo
tempo; dunque, non potrà salvare l’Occidente ma dovrà salvare se stessa e
per farlo, tenendo conto delle attuali relazioni con gli Usa, si dovrà
salvare dall’Occidente. L’altra questione di cui dovrà tener conto è che
avrà bisogno di maggiori spese per creare un vero e proprio welfare
perché ci sarà una domanda diversa della popolazione cinese. Cambierà lo
stesso patto sociale tra Stato, ceto medio e proletariato, non più
immaginabile semplicemente come scambio tra stabilità politica e
crescita economica, sarà qualcosa di differente. Quindi l’instabilità
sarà sia interna che internazionale, però intanto ha posto alcuni
paletti.»
La crisi dunque avrà esiti incerti, gli Stati Uniti per
la prima volta rischiano di uscire ridimensionati da questo passaggio.
Trump, sollecitato sia internamente che esternamente, ha annunciato un
piano massiccio di investimenti e di interventi monetari (tra cui la
proposta dell’helicopter money), mentre la Fed è costretta a garantire
che farà di tutto per assicurare la liquidità a Wall Street e mantenere
l’egemonia del dollaro nel sistema bancario e finanziario globale
(pensiamo ad esempio che il sistema bancario europeo ha un’esposizione
in dollari per 4000 miliardi); solo qualche giorno fa ha inviato un
memorandum agli apparati di Stato in cui indica la necessità di
intervenire in sostegno dell’Italia con ogni mezzo necessario, purché
non si comprometta la stabilità americana. Come si riconfigura il
rapporto degli Stati Uniti con la Cina? Come si sta muovendo Trump per
coniugare il piano interno e quello esterno, soprattutto per quanto
riguarda l’Europa?
«Negli Stati Uniti la situazione è ancora più complessa. Si
incrociano l’azione dell’amministrazione Trump, che inizialmente ha
negato l’emergenza sanitaria, l’anno elettorale, quindi lo scontro con i
democratici, e la recessione economica. Trump si aspettava un lieve
rallentamento dell’economia nell’anno delle elezioni, una leggera
frenata che poteva essere tamponata dagli interventi di liquidità della
Federal Reserve, ma questa prospettiva è franata, in quanto la crisi da
covid ha colpito duramente lo stato di New York e le filiere globali
della produzione. Il presidente americano è stato costretto a un doppio
salto mortale: ha dovuto riconoscere che il virus esiste, attribuendo la
colpa alla Cina e all’Oms, e varare un piano di interventi, in accordo
col Tesoro e con la Fed, di due trilioni di dollari, cifra immane, il
doppio di quanto messo in campo da Obama all’indomani del fallimento
di Lehman Brothers. Il piano è un ampliamento degli interventi di
immissione di liquidità fatti dalla Fed per salvare le istituzioni
finanziare e le banche, per frenare i cali di Borsa – teniamo conto che a
marzo la Borsa è crollata del 30% – e per evitare un’interruzione della
catena dei pagamenti nel circuito finanziario internazionale fornendo
dollari a una serie di banche centrali, ma ha al suo interno anche una
serie di interventi che potremmo definire di erogazione di risorse alla
cosiddetta economia reale, nei termini di misure tampone per chi perde
il lavoro e per le piccole e medie imprese, a patto che non licenzino.
Si vede in questo la vena nazionalpopolare o “populista” di Trump, uno
dei fattori che spiega perché la sua popolarità non sia calata
nonostante la negazione iniziale. Questi interventi, necessitati dalla
precipitazione della crisi e da esigenze politiche interne, permettono a
Trump di andare avanti, bisogna vedere cosa succede se si voterà.
Questo cambio di passo sulla politica economica è interessante, sembra
che dopo tanti anni non si tratti solo di liquidità ma di finanziamenti
all’economia reale, di sostegno alla domanda, ai redditi e alle piccole e
medie imprese. Inoltre il taglio dei tassi d’interesse e il quantitative easing IV al momento non sono serviti per bloccare il crollo delle borse, mentre le misure di Trump sì.
È chiaro che al momento non possiamo valutare quanto ci sia di
keynesiano effettivo e quanto di keynesiano finanziario, però si nota un
cambiamento rispetto all’amministrazione Obama. Il problema è se e per
quanto potranno reggere l’azione di politica monetaria della Fed, quindi
l’immissione stratosferica di dollari nei circuiti finanziari, e il
netto incremento dell’indebitamento statale dovuto alle misure varate. È vero
che grazie all’esorbitante vantaggio del dollaro gli americani possono
stampare e utilizzare questa liquidità per salvare la propria economia
scaricando i costi sugli altri attori globali, però ci sono alcuni
segnali che mostrano come il gioco inizi a mostrare delle
controindicazioni: nelle settimane precedenti è cresciuto il rendimento
dei buoni del tesoro americani, solitamente molto liquidi, perché si è
fatto fatica a collocarli – questo aumento dei rendimenti implica che si
pagano più interessi e quindi il debito aumenta. Ma, soprattutto, la
guerra sui prezzi del petrolio, coincisa con il crollo di Borsa, ha
mostrato che gli Usa hanno difficoltà a salvare le imprese energetiche
dello shale oil che non sono redditizie, indebitate e che hanno
retto – facendo degli Usa il primo produttore mondiale di petrolio –
perché legate a Wall Street, a finanziamenti a debito stratosferici che
gli States possono scaricare sugli altri paesi. Molte di queste imprese
sono a rischio fallimento e attualmente non ci sono i fondi necessari
perché servono ad altro, così Trump ha dovuto trovare un accordo
telefonando a Putin e all’Arabia Saudita, accettando per la prima volta
un taglio delle produzioni dello shale oil in Texas, stato
fondamentale per le elezioni. Quindi non è detto che il dominio mondiale
del dollaro possa andare avanti se la recessione diventa una grossa
depressione mondiale, con la Cina coinvolta.
Per chiudere su questo, che ci apre alla questione sulla tendenza
alla deglobalizzazione, il grande interrogativo è quanto può reggere il
rapporto Stati Uniti-Cina che, ancorché asimmetrico perché basato sul
dominio finanziario degli Stati Uniti ma che ha permesso alla Cina di
uscire dal sottosviluppo, è stato un pilastro fondamentale insieme alla
finanziarizzazione; oppure se è iniziato il cosiddetto decoupling,
ovvero la rottura del nesso tra Cina e Stati Uniti. Questa è la domanda
dei prossimi anni. Negli States ci sono tantissime spinte a rompere con
la Cina, a spostare le produzioni dal paese asiatico, c’è una forte
leva sulle multinazionali affinché investano in paesi amici del sud-est
asiatico per mettere in estrema difficoltà il progetto cinese di
sviluppo delle nuove vie della seta, spinte che partono dallo stesso
Trump. È un processo che ha al suo interno molte contraddizioni perché
non è facile spostare tutte le produzioni, al momento è difficile che la
forza lavoro cinese possa essere sostituita come produttrice di valore
per le multinazionali americane e occidentali, per via del prelievo che
il capitale finanziario opera su questo valore. Allo stesso tempo è
chiaro che affinché ci sia un reshoring di massa è necessario
ricreare delle condizioni adeguate in Occidente, ovvero riprodurre le
condizioni di sfruttamento della classe operaia cinese, cosa che
significa un taglio enorme del salario diretto e indiretto, quindi la
messa in discussione del patto sociale complessivo. Inoltre
probabilmente questo processo deve essere accompagnato da una forte
automazione e digitalizzazione, che significa investimenti ingenti e
capacità di reggere la disoccupazione tecnologica conseguente. Inciderà
molto il clima anti-cinese, che è un sentire non solo dei repubblicani,
rinvigoritosi con la propaganda sul virus di Wuhan. Teniamo sempre conto
dei primi segnali di indebolimento del dollaro, la guerra sul petrolio
va letta in questa prospettiva. Gli altri attori globali, pressati dalle
proprie popolazioni, spingono su una rinazionalizzazione delle proprie
politiche e vedono negli Stati Uniti non più un alleato ma un partner
inaffidabile, che mette al primo posto i propri interessi a scapito di
tutti gli altri. Questo avrà altre ripercussioni politiche e
geopolitiche.»
La pandemia ha palesato per l’ennesima volta la rigidità –
potremmo dire ideologica, sebbene si tratti di un’ideologia con potenti
sottostanti materiali – dell’architettura europea. Se forse è vero che
tutti i paesi membri concordano sulla necessità di prendere misure
straordinarie per affrontare la crisi e che si ritorna a parlare di
keynesismo, c’è però una differenza tra il cosiddetto fronte del sud,
guidato dall’Italia, e il fronte del nord, alla cui testa ci sono
Germania e Olanda, con la Francia in una posizione ambiguamente
intermedia e la Bce che continua a svolgere il ruolo di guardiano
finanziario della Ue. I primi spingono per una maggiore europeizzazione e
socializzazione dei costi della crisi con gli ormai famosi coronabond, i
secondi per mantenere l’attuale assetto economico-istituzionale con il
ricorso al Mes. L’architettura europea è quindi messa fortemente sotto
stress da questo rinnovato scontro tra Sud e Nord Europa. Quali sono le
ragioni materiali della posizione tedesca e olandese? Quale scenario si
può aprire in Europa in seguito a questa crisi?
«La Ue esce a pezzi politicamente da questa crisi sanitaria e in
Italia è ancora più evidente rispetto agli altri paesi. Anche in Europa
notiamo il passaggio dalle politiche di immissione di liquidità ad
accenni di politiche keynesiane a sostegno dell’economia reale. Qui,
molto più che in Cina e negli Stati Uniti, si palesa subito chi ha le
risorse per fare queste politiche e chi non può. La Germania, ad
esempio, ha varato un piano da 1.100 miliardi di euro per finanziare
cassa integrazione, lavoro a tempo parziale e imprese; una parte di
questi fondi sono prestiti garantiti dallo Stato, cioè debiti che
incrementano il debito pubblico, l’altra parte sono interventi di
finanziamento immediati. Il punto è che la Germania ha margini di
bilancio per poter ampliare il debito pubblico, mentre gli altri Stati
non hanno le stesse possibilità, in parte neanche la Francia, ma lo
Stato teutonico non può permettere agli stati del fronte mediterraneo di
accedere alla mutualizzazione perché l’euro non è il dollaro, valuta
internazionale accettata da tutti che gli States possono stampare a
piacimento riversando i costi sugli altri paesi. Questa cosa viene
spesso dimenticata dagli europeisti, che individuano i problemi della Ue
semplicemente nella politica egoistica tedesca. Se la Germania
accettasse la mutualizzazione dei debiti esporrebbe l’euro, l’Unione
Europea e se stessa alla speculazione internazionale; anche se
concedesse dei crediti garantiti dallo Stato, senza alcuna
condizionalità, essi andrebbero raccolti sui mercati finanziari aprendo
la competizione per concedere prestiti e capitali e determinando un
aumento dei tassi di interesse. Concedere la mutualizzazione
indiscriminata significa dunque mettere a rischio l’euro e se stessa.
Qui si apre un dilemma reale: quali sono le alternative? Nei passaggi
precedenti della crisi si è visto che l’Europa è sempre meno coesa, ma
lo strano connubio tra politica di rigore tedesca e politica di
emissione di liquidità della Bce a banche e circuito finanziario ha
retto, con i costi sociali che ben sappiamo.
Mi sembra che potrebbe approssimarsi a ritmi accelerati il momento in
cui la Germania per salvare se stessa non può più salvare l’euro,
quindi si intravede la possibilità di politiche a diverse velocità, già
prevista nelle tornate precedenti, che rischia di portare alla
frantumazione dell’Europa. Questo processo non sarà deciso dai no-euro
italiani o spagnoli, ma cadrà come una tegola in testa a tutti e segnerà
un passaggio decisivo della crisi mondiale. Dunque, il massimo che i
paesi del Nord possono, non che non vogliono, concedere all’Italia e
alla Spagna è di accedere al Mes con condizionalità più soft,
permettendo alla Bce di superare i precedenti limiti del patto di
stabilità acquistando a man bassa i titoli per tamponare la speculazione
internazionale. Però è evidente, e qui è interessante l’intervento di
Draghi, che gran parte degli interventi, soprattutto quelli che non
possono essere coperti dagli Stati perché fortemente indebitati, sono
garanzie, cioè debiti dello Stato che qualcuno deve pagare: se
falliscono le imprese e il debito viene socializzato, lo pagherà il
cosiddetto cittadino. Ecco perché si è tornato a parlare di
patrimoniale, di consolidamento del debito, di una sorta di bail-in che
dovrebbe socializzare i costi di questi interventi colossali e
scaricarli sulla popolazione. Sempre tenuto conto che quantunque
avessero successo gli interventi nell’economia reale, la ripresa
avverrebbe al costo di tagli del salario diretto e indiretto e che non è
scontato che essi servano per la ripresa effettiva, dipende se
l’accumulazione si riprende. Se entriamo in una grande e lunga
depressione, gran parte dell’apparato produttivo degli attori più
deboli, tra cui l’Italia, verrà spazzato via. Quindi possiamo parlare di
un keynesismo relativo, ultracompetitivo e ultraselettivo, che
quantunque fosse declinato in termini di finanziamenti reali avrà come
conseguenza quella di tagliare via parte dell’apparato produttivo e di
ridimensionare i debiti e gli Stati come l’Italia. Si aprirà uno
scenario drammatico, saranno intaccati i risparmi, i sistemi bancari.
Per riassumere: la Ue continua ad avere un handicap fondamentale,
l’euro non è una moneta internazionale perché per diventarlo sarebbe
necessario uno scontro con gli Stati Uniti, dunque non può permettersi
la mutualizzazione del debito, necessaria per salvare l’Italia; dovremmo
confrontarci con un keynesismo che non tutti potranno permettersi, che
si sostanzierà con un ridimensionamento delle aspettative di reddito, un
impoverimento generalizzato. Nulla sarà più come prima e questa
percezione è presente nel tessuto sociale. Quindi, gli strettissimi
vincoli europei ora vengono allentati però, una volta effettuato
l’eccesso al Mes, in seguito interverranno le condizionalità oppure
l’Italia sarà costretta ad accedere ai capitali sui mercati finanziari,
che per certi aspetti è ancora peggio. Le prospettive sugli investimenti
sulla sanità devono dunque tener conto di queste cose, del vincolo del
dollaro, del ruolo degli Stati Uniti, della speculazione internazionale
che non aspetta altro che razziare come nel 2011/2012. I nodi vengono al
pettine, però è impossibile prevedere un’evoluzione.»
I tuoi ragionamenti ci mostrano i limiti oggettivi e
l’inconsistenza delle posizioni europeiste a prescindere: il problema
non è sola la rigidità ideologica della Merkel, ma i sottostanti
interessi materiali. La Germania ha, dunque, maggiori possibilità di far
fronte alla crisi e non può permettersi la mutualizzazione dei debiti.
Approssimando, possiamo dire che l’architettura europea è stata
costruita in sua funzione? Da cosa dipende questo vantaggio?
«Il processo di costruzione della Ue è complesso, dobbiamo ritornare
all’immediato dopoguerra e alla guerra fredda, poi alla crisi degli anni
Settanta, alla creazione del serpente monetario e dello Sme. Se dovessi
dirlo in termini molto generali, più storici che politici, la Germania è
stata recuperata dagli Stati Uniti in funzione anti-sovietica, con la
politica di doppio contenimento: agli Usa premeva intraprendere una
politica anti-sovietica evitando che la Germania potesse arrivare
nuovamente a sfidare il potere mondiale anglosassone. Inoltre, il
potenziale produttivo industriale tedesco era fondamentale per
ricostruire l’Europa distrutta dalla guerra e conquistare il consenso
del proletariato e della popolazione europea in funzione anti-russa,
quindi contenere, limitare, se non isolare le spinte dell’Europa
occidentale che attraverso la guerra partigiana o il richiamo alla
Russia sovietica guardavano a Oriente. La Germania era quindi
fondamentale in questo progetto, sia politicamente che economicamente,
seppur subordinata agli accordi di Bretton Woods, al dominio del
dollaro.
Con il ’68, le lotte anti-coloniali e la crisi degli anni Settanta,
si incrina questo ordine bipolare simmetrico. Con la mossa
dell’amministrazione Nixon del ’71 inizia a emergere il dominio del
dollaro e la necessità nella borghesia europea non solo di procedere a
una spartizione concordata del mercato interno e dell’imperialismo
europeo, ma anche di pensare a una relativa autonomia economica e
monetaria, tenuto conto che la crisi del petrolio degli anni Settanta fu
pagata dall’Europa e non dagli Stati Uniti – col sistema del
petroldollaro le rendite dell’Arabia Saudita vengono investite nei
Treasures e nelle borse americane. Da qui in poi vediamo la sconfitta
del lungo ’68 e della classe operaia, l’affermazione del
reaganismo/thatcherismo, la fine dell’Urss; col crollo del muro di
Berlino si riapre la questione tedesca e si pone il problema della
Germania che si riunifica e viene imbrigliata, in qualche modo, rispetto
alla Francia, perché per procedere a una moneta unica bisogna contenere
i vantaggi derivati dalla strapotenza del marco. Il punto è questo: la
Ue è stata costruita intorno alla Germania non per la sua volontà di
dominio – tra l’altro la Germania negli anni Novanta era impegnata
fortemente nei costi della riunificazione, gran parte della borghesia
tedesca e soprattutto il potere finanziario della Bundesbank non erano
favorevoli alla rinuncia del marco, che era stato il fattore principale
della rinascita tedesca dopo Hitler – ma per la centralità del suo
apparato produttivo che si è imposto nonostante il tentativo di
imbrigliamento, utilizzando l’euro per ricostruire l’equilibrio intorno
alla centralità della propria industria. Quest’ultima, mentre gli States
si deindustrializzavano, ha sempre tenuto rispetto all’economia
finanziaria, organizzandosi con una sorta di taylorismo digitale, con un
crescente afflato verso l’Oriente, verso Russia o Cina, esportando
macchinari, beni strumentali e industriali ad alto valore aggiunto.
Grazie all’euro ha ristrutturato intorno ai propri interessi una
divisione internazionale del lavoro europeo, quindi di tutta la filiera
produttiva. Perciò oggi la Confindustria tedesca chiede a quella
italiana di non chiudere le fabbriche, perché le aziende nostrane
lavorano soprattutto in subappalto del metalmeccanico tedesco e
l’organizzazione italiana degli industriali spinge su Conte. Dunque è la
potenza produttiva economica tedesca che strattona i paletti della
costruzione europea.
L’Unione Europea non potrà mai diventare uno stato federale se non si
scontra con gli Stati Uniti, perché un’Europa più unita implica un euro
più forte che toglie spazi al dollaro, cosa poco gradita al paese a
stelle e strisce che manovra per evitare questo rafforzamento europeo,
come ad esempio è successo con la Gran Bretagna. Al contempo la
borghesia tedesca non ha alcuna intenzione di scontrarsi perché gli Usa,
insieme alla Cina, sono il paese verso cui esportano maggiormente.
L’atlantismo è in profonda crisi anche in Germania, ma all’orizzonte non
si intravede una configurazione di potere nuova che possa metterlo in
discussione, che significherebbe buttare a mare 70 anni di politica
tedesca, di grande crescita, di rafforzamento economico, di benessere,
di pace sociale con l’integrazione del proletariato e quindi la
possibilità di giocare il proprio ruolo imperialista.
Questi margini per la Ue sono sempre più stretti perché gli Stati
Uniti impediscono di commerciare con la Russia, ad esempio interrompendo
Nord Stream 2, in quanto vogliono rompere con la Cina e costringere
l’Europa a seguirla, inoltre Trump impone i dazi anche ad essa.
Un’Europa unita comporterebbe uno scontro geopolitico e un rafforzamento
del governo europeo che disciplini ed elimini tanto di borghesia
parassitaria negli altri paesi. Non credo sia possibile addivenire a
questa soluzione, quindi penso si approfondisca la possibilità della
rottura.
Ancora una questione per capire le difficoltà della Germania. Dagli
anni Settanta in poi gli Stati Uniti son diventati un paese debitore e
consumatore, cioè hanno permesso agli altri paesi produttori di
esportare. Questa configurazione funziona perché ripagano col dollaro o
con buoni del tesoro e se l’economia va bene si crea un circolo
virtuoso. La Germania per concedere politiche meno rigoriste dovrebbe
intraprendere una politica simile, ovvero diventare consumatore, mentre
invece è un paese dall’enorme potenziale produttivo con un inadeguato
mercato interno ed è impossibile cambiare questo dato dall’oggi al
domani. Quindi le politiche rigoriste sono inevitabili, altrimenti si
lavora per la speculazione internazionale.»
Rivolgendo lo sguardo ai nostri confini, come si sta
ricollocando la borghesia italiana in questo passaggio di fase? E che
sviluppi può avere quello che hai definito come il momento
neopopulista?
«Parto dalla seconda parte della domanda: anche volendo rimanere agli
ultimi due mesi e allo scoppio della crisi sanitaria, chi ha spinto per
misure più drastiche per contenere il virus? La gente comune, gli
scioperi spontanei nelle fabbriche che hanno sortito poco effetto perché
a Brescia e a Bergamo c’è stato il caos. Però la spinta dal basso,
nella fattispecie operaia, certamente contraddittoria, sul governo Conte
per un indurimento delle misure rispetto al “Milano non si ferma”, poco
conta se progressista o leghista, è stata importante, si percepiva che
la gente era preoccupata. A sostenere questa spinta è l’interesse della
vita contro l’interesse dell’economia, è il non possiamo salvarci da soli ma
possiamo farlo come comunità, in questo caso nazionale, che preme sullo
Stato affinché esso regolamenti e disciplini gli interessi egoistici
privati. Il preoccuparsi di sé all’interno della comunità, l’abbandonare
l’individualismo neoliberista, il premere sullo Stato affinché esso si
faccia portatore degli interessi della comunità nazionale e della
riproduzione sociale, sono caratteristiche del terreno neopopulista,
ovviamente in una situazione diversa da quella che abbiamo visto negli
ultimi anni, quindo gli scioperi non erano economici nel senso classico
del termine. Dobbiamo sempre vedere l’ambivalenza negli atteggiamenti, è
probabile che lo stesso soggetto che ieri premeva per la chiusura oggi
spinga per la riapertura perché preso dalla drammaticità economica o
perché lo Stato può riutilizzare questa legittimazione per spingere
sulla socializzazione delle perdite di cui parlavamo prima, quindi
richiamare al sacrificio, all’unità nazionale. In questo passaggio,
inoltre, chi ne sta pagando le conseguenze al momento è la Lega di
Salvini che in Veneto, Lombardia, Piemonte ha mostrato come sia il
peggio di quanto ci si possa aspettare in termini di competenza,
sfacciataggine, arroganza. Quanto più la Lega perde sul fronte del
preteso sovranismo tanto più prende credito, in questa ottica di
preservare la comunità, Conte, cosa alquanto inaspettata. Il premier
finora in qualche modo ha resistito, ora è pressato su due livelli:
dalla piccola-media borghesia del Nord che lavora per l’estero e voleva
tenere aperto; dalla situazione in Europa, che lo ha costretto a battere
i pugni sui coronabond che però non otterrà. Il vuoto lasciato dai 5
Stelle, e non colmato dalla Lega, non scompare, ma dovrà essere
riempito: per ora lo sta facendo Conte che, se facesse il suo partito,
prenderebbe voti sia al Nord che al Sud. È interessante perché potrebbe
rappresentare il sovranismo nazionale, ma forse non lo farà mai perché
molle, vincolato a Mattarella ecc. Quindi c’è una dialettica tra
dinamiche sociali, governo e Stato che porta allo sconvolgimento degli
assetti politici, partitici, istituzionali.
È più difficile rispondere alla prima domanda. Partiamo dal fatto che
l’apparato produttivo italiano è uscito molto ridimensionato dalla
crisi, si stima che abbia perso il 25% della produzione. A resistere
sono qualche grande impresa (come l’Eni o l’Enel), la media-piccola
impresa, le multinazionali che lavorano per il mercato estero, di medio
livello, strettamente legate alle esportazioni e alle filiere tedesche,
quindi senza una reale autonomia. Questo dato è drammatico perché non
c’è una borghesia forte a rafforzare l’operato del governo e lo si nota
al livello delle politiche internazionali, visto che l’Italia ha sempre
il piede in due scarpe: ha perso l’influenza in Libia, prende colpi da
tutte le parti in Medio Oriente sul settore energetico con l’Eni che è a
rischio scalata, le multinazionali francesi hanno fatto man bassa dei
marchi italiani, molte imprese padane sperano di potersi agganciare agli
investimenti tedeschi di cui si parlava prima. Inoltre il tentativo di
guardare verso Cina e Russia è ostacolato dagli Stati Uniti, è
subalterno alle politiche economiche del paese a stelle e strisce. Se al
quadro aggiungiamo lo scontro Roma-regioni, vediamo come l’Italia sia
diventata ancora più fragile, a meno che non avvenga una reazione del
basso che negli ultimi anni è stata incanalata. Iniziano a mancare i
numeri a livello produttivo per dare sponda a livello economico, perciò
continuerà a barcamenarsi e piegare la testa ai diktat statunitensi. Al
limite potrebbe diventare il cavallo di Troia statunitense, vedremo.»
Un’ultima domanda per concludere: quali sono secondo te in questa fase i possibili terreni di conflitto?
«Questa inedita situazione di autoconfinamento, di uscite concesse
solo per lavoro, non potrà durare in eterno. Terrei un occhio di
riguardo sulla questione giovanile perché se da un lato sembra che siano
meno colpiti dal virus, dall’altro vengono sacrificati, trattenuti a
casa senza grosse prospettive per evitare che possano veicolare il contagio. Il
capitalismo odierno è così maturo da essere marcio, non è in grado di
utilizzare le risorse che ha: potrebbe usare queste forza giovanili per
supportare una rete minima di solidarietà, di supporto alla riproduzione
sociale. Credo che questo spreco si rifletta per ora come depressione,
ma un ragionamento del tipo “non possiamo uscire cosa ci danno in
cambio?” potrebbe esprimere un rifiuto di questa situazione. Inoltre
percepiscono che si sta determinando qualcosa che inciderà sul loro
futuro complessivo.
L’altra questione che si apre riguarda il ceto medio-basso, che sarà
spazzato via dalla crisi, per cui torniamo al discorso del neopopulismo.
Il turismo sarà azzerato, la piccola impresa, i piccoli lavori di
manutenzione, tutti coloro che non sono pagati direttamente dallo Stato
scompariranno, i risparmi verranno bruciati. A questo si aggiungerà la
questione degli impiegati pubblici, sempre ceto medio proletarizzato,
perché non è scontato che lo Stato continuerà a poterli pagare
tranquillamente.
L’altro segnale, vedremo se si consoliderà, proviene dal proletariato
manifatturiero, che si è fatto risentire dopo 25-30 anni, segmento
sociale che non è più quello di un tempo, rotto al proprio interno tra
le esigenze della riproduzione immediata attraverso l’accesso al reddito
monetario e della riproduzione più complessiva, ovvero come salvare la
propria vita e quella della propria famiglia.
Sono abbastanza convinto che le ipotesi sulle dinamiche neopopuliste
sono plausibili. Rispetto allo scorso anno oggi, all’incrocio tra crisi
economica e covid, è necessario fare i conti più direttamente con il
quadro globale. Permane una spinta a salvaguardare la vita nella
comunità di riferimento però il problema è chiaramente globale, cosa che
potenzialmente può innescare il superamento di quelle prospettive
nazionalistiche, dipende come andrà la crisi in termini geopolitici.
L’altra questione abbastanza promettente è che, forse per la prima
volta, non è passata la propaganda anti-cinese. Si inizia a cogliere nel
tessuto sociale che non è possibile salvarsi solo come individuo,
vediamo cosa ne viene fuori.»
Fonte
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