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11/07/2020

Decreto semplificazioni, così riparte l’assalto ai centri storici

di Paolo Berdini

La lettura del provvedimento legislativo “Semplificazioni del sistema Italia” e del suo allegato sulle opere pubbliche che dovrebbero portare l’Italia nel futuro – parole del presidente del consiglio Giuseppe Conte – ci fa invece comprendere che torneremo ad un passato che credevamo superato per sempre. Con le norme sulla liberalizzazione dell’edilizia (art. 10) si torna agli anni della ricostruzione post bellica e all’attacco dei centri storici. Con la cancellazione delle regole di appalto delle opere pubbliche (art. 1) si fa tornare l’orologio della storia a prima di “Mani pulite”. Con lo sterminato elenco di grandi opere (130) si torna infine al 2001, facendo impallidire Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti.

Iniziamo con l’immediato dopoguerra, quando i piani regolatori furono accantonati e si applicarono le regole semplificate dei “piani di ricostruzione”. Non esiste forse nessun centro storico italiano che sia rimasto esente da scempi e volgari ricostruzioni che ne hanno alterato per sempre l’equilibrio. L’articolo 10 del provvedimento del governo introduce molte semplificazioni al testo di legge che regolava gli interventi edilizi (DPR 380/91) e tutte vanno nella direzione dell’attacco delle aree storiche delle città. Si potrà ad esempio alterare un edificio e se le cubature aggiuntive non si potessero inserire nella sagoma dell’edificio esistente, si prevede (sic!) di realizzarle anche con alterazioni della sagoma e con il superamento delle altezze esistenti. Prepariamoci a un attacco alla bellezza dei centri storici.

Ancora. In caso di ristrutturazioni urbane “potranno essere alterati anche i prospetti degli edifici”, anche nei centri antichi. E, per concludere, si prevede che si possa comunque ottenere la deroga ad ogni regola se i Consigli comunali attestino l’interesse pubblico degli interventi. Una prassi agevole, essendo la dichiarazione di interesse pubblico molto discrezionale e semplice da ottenersi, come dimostrano decenni di scempi.

Il secondo ritorno al passato riguarda il ripristino delle condizioni regolamentari che vigevano in epoca precedente al periodo di Mani pulite. Come noto, negli anni ’80 il malcostume dilagò perché la mala politica si impadronì del sistema degli appalti pubblici. Nel 1994 l’allora ministro dei lavori pubblici, Francesco Merloni, corse ai ripari e fece approvare una legge che era sembrata in grado di sconfiggere per sempre il malaffare. La legge per il suo grande rigore incontrò sin da subito forti resistenze e fu sottoposta a molte variazioni.

Come se la storia non insegnasse nulla, Giuseppe Conte prevede che i sindaci possano affidare senza alcuna gara pubblica lavori fino a 150 mila euro. Per tutti gli importi superiori a questa cifra fino al massimo di oltre 5 milioni di euro, verranno espletate gare negoziate senza bando di evidenza pubblica. I comuni potranno infatti chiamare discrezionalmente da 5, 10 e 15 imprese (secondo le fasce di importi dei lavori) ad inviare offerte. Nel periodo di tangentopoli si scoprì che i cartelli di imprese si accordavano sui nomi dei vincitori delle varie gare e non dimenticavano mai di ringraziare, con generose dazioni di denaro, gli amministratori di turno. Con l’articolo 1 del provvedimento di “semplificazione” viene dunque abrogato l’attuale codice degli appalti, come richiesto con implacabile insistenza dal partner del precedente governo Conte, Matteo Salvini. La cancellazione è ancora temporanea poiché scade al 31 luglio 2021, ma ci sarà tempo e modo per prorogarla sine die.

Il ritorno al passato si conclude con la riscoperta della Legge obiettivo, voluta dal governo Berlusconi (n. 443/2001). Si trattò, come noto, di un provvedimento che toglieva prerogative alle autonomie locali, accentrando poteri decisionali e finanziamenti in capo al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti allora guidato da Pietro Lunardi. La gran parte del lungo elenco di opere che venne approvato all’epoca non è stato realizzato, ma è servito efficacemente allo scopo: drenare risorse dai comuni alle grandi opere inutili. In questo caso si parla di una mole di finanziamenti che – anche con il contributo del Recovery fund – arriveranno a 200 miliardi, lasciando finanziamenti irrisori all’innovazione dei sistemi urbani.

Viviamo oggi un momento grave sotto il profilo economico e sociale. A settembre si inizieranno a sentire le conseguenze della pandemia. L’unico modo per rilanciare il sistema Italia era quello di aprire alla trasformazione delle città avviando in modo sistematico quel processo di riconversione ecologica di cui si parla da anni. Solo così si potevano conseguire risultati immediati. Si è invece scelto di perpetuare un modello che ha dimostrato di non funzionare neppure nel periodo della vitalità economica esistente nel 2001. Figuriamoci adesso, in piena crisi globale.

La gravità del rischio del ritorno al passato è così grande che solo uno scatto di dignità del Parlamento potrà cancellare lo scempio annunciato dei centri storici, la ripresa della corruzione negli appalti e il perpetrarsi di un modello economico fallimentare. Anche se sarà difficile che ciò avvenga. Il Pd e la inessenziale sinistra di complemento al governo condividono – fino a prova contraria – quelle norme. I 5Stelle continuano invece a vendere fumo.

Il provvedimento “Semplificazioni” è stato infatti salutato come un colpo alla burocrazia. È vero l’esatto contrario. Viene infatti potenziato il ruolo del Cipe e le stesse figure dei commissari per l’attuazione delle opere potranno dotarsi di uffici tecnici di scopo ad hoc, disarticolando e marginalizzando ulteriormente il ruolo delle strutture tecniche dello Stato. Nella storia accade spesso che innovatori anche animati da giuste intenzioni, tornino rapidamente nelle braccia della restaurazione. È avvenuto con i 5stelle. Hanno conseguito un enorme successo elettorale opponendosi alla cultura delle grandi opere e oggi finanziano prioritariamente il Tav della Val di Susa e il Mose di Venezia. Dopo il tragico crollo del ponte di Genova avevano dichiarato – Conte per primo – che i Benetton sarebbero stati duramente sanzionati. Ora, oltre al nuovo viadotto sul Polcevera, gli affideranno anche il ponte sullo Stretto di Messina tanto caro a Silvio Berlusconi.

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