In questi giorni assistiamo a diversi tentativi di “scrivere un’altra Storia”. A farlo è il blocco di potere dominante, attraverso i media, allenati a “gonfiare” e sgonfiare “dettagli” – spesso inventati o ininfluenti – che cambierebbero il senso dei fatti.
Il tutto dentro una “nuova narrazione” che allontana dal potere politico e dallo Stato ogni responsabilità per le stragi avvenute in questo Paese, su suo ordine (with a little help da parte della Cia) ed eseguite quasi sempre da fascisti “atlantizzati”.
Molta produzione “giornalistica” sfornata per l’anniversario della strage di Bologna rientra in questa categoria, anche se la gran massa è pura “panna montata” fatta di retorica mattarelliana e strafalcioni.
Nel “genere revisionista” entra pure la solita intervista ad Alberto Franceschini, dissociato-pentito delle Brigate Rosse, come sempre incentrata su un solo punto: consolidare l’ombra del sospetto su Mario Moretti, leader indiscusso della formazione armata più importante tra quante (diverse decine) praticarono la lotta armata negli anni ‘70.
Come facciamo sempre, l’abbiamo tranquillamente ignorata.
Ma stavolta c’è stato un fatto nuovo. Pierluigi Zuffada – membro del “nucleo storico” delle Br al pari di Franceschini, Curcio, Moretti, Mara Cagol e altri – che aveva fin qui scelto di star lontano dai riflettori e dalle discussioni tra ex, ha preso carta e penna per smontare pezzo pezzo le menzogne del primo.
Perché è importante questa “testimonianza”? Per molti buoni motivi. Intanto perché non comporta alcun vantaggio per colui che l’offre. E non è argomento secondario, visto che “dissociati” e “pentiti”, al contrario, hanno avuto benefici (di legge e anche non, come nel caso proprio di Franceschini) per dire quel che hanno detto. Semmai il buon “Zuffolo” potrebbe riceverne qualche fastidio...
In secondo luogo. Un’organizzazione clandestina ha una modalità di esistenza alquanto diversa dalle confuse assemblee della “sinistra” cui tutti ci siamo abituati negli ultimi 30 anni, dove si presenta e parla gente che nessuno conosce, si divaga per ore senza costrutto e dove non si decide mai nulla di concreto.
Un’organizzazione clandestina ha – per forza di cose – una precisa gerarchia, dove la discussione politica è “comune a tutti”, ma gli aspetti operativi di ogni singola azione sono a conoscenza solo dei pochi che vi partecipano.
Buona parte delle menzogne di Franceschini, a ben vedere, si basano sul fatto che su alcuni dei fatti che “narra” (nel senso letterario-fiction del termine) non ci sono stati fin qui altri testimoni. Mara Cagol è morta nel 1975, Curcio e altri (come lo stesso Zuffada fino ad oggi), non hanno voluto controbattere. Moretti “non conta”, dal punto di vista dei media di regime. Anzi, è il bersaglio dell’operazione...
In più, la testimonianza di Zuffada inchioda Franceschini alla sua stessa inadeguatezza come “guerrigliero”. Comportamenti, diciamo così, un po’ “distratti” per un clandestino (si allontana dal “covo” senza nemmeno chiudere le finestre, va ad un appuntamento cui non doveva essere presente). Un militante che però, una volta catturato, ritiene di dover essere “il primo” a venire liberato dai suoi compagni ma che, per le medesime sue leggerezze, rende impossibile farlo...
Una personalità “autocentrata”, che può essere contenuta e “corretta” in un organismo collettivo in cui la “forte determinazione” non manca, ma che straborda quando non trova ostacoli all’altezza. In alcuni libri, ricordiamo, si cita il soprannome di Franceschini quando era in carcere: “Mega”. Per un piccolo gruppo di suoi seguaci era il diminutivo di “grande capo megagalattico”. Per tutti gli altri, semplicemente “megalomane”.
Pinzillacchere, certo, ma che aiutano a definire meglio un personaggio che da decenni vive – in molti sensi – di menzogne sulla sua stessa storia e quella di chi ha avuto la sfortuna di frequentarlo.
Per chiudere, invitandovi a leggere la lettera integrale di “Zuffolo”, pubblicata da Insorgenze.net, ci preme sottolineare un criterio “storiografico” che seguiamo nell’approcciare questa parte della Storia del nostro Paese. Per rispondere alla domanda che qualche volta ci è stata posta: ma come fate a decidere che una certa versione è preferibile ad un’altra?
Da materialisti, osserviamo questa situazione assurda, che certifica quanto sia collassata l’intelligenza sociale sotto la pressione delle “narrazioni” di regime, e in special modo sotto l’operare della “dietrologia”:
Abbiamo davanti, da un lato, un traditore certificato, a termini di legge, che ha per questo ricevuto sostanziosi sconti di pena ed è totalmente libero da oltre un trentennio.
Dall’altro un prigioniero da oltre 39 anni, sia pure ora nella forma attenuata della “semilibertà” (si esce la mattina dal carcere, vi si torna la sera, con forti limitazioni alla libertà di movimento durante il giorno).
Che il primo accusi il secondo di essere “ambiguo”, insomma, è soprattutto un insulto all’intelligenza di tutti noi. Voi lettori compresi.
Buona lettura.
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Con questa lettera inviata a Silvia De Bernadinis, una ricercatrice che si occupa della storia delle Brigate rosse, Pieluigi Zuffada, militante della prima ora delle Br, tecnico alla Sit-Siemens di Milano dove partecipò alla costruzione della Brigata di fabbrica, risponde alle dichiarazioni di Alberto Franceschini raccolte da Concetto Vecchio su Repubblica del 30 luglio 2020 (qui). Il valore storico delle affermazioni di Zuffada merita sicuramente un ulteriore approfondimento, anche alla luce delle novità storiografiche emerse negli ultimi tempi (la vicenda di Silvano Girotto, la telefonata a Levati e le circostanze dell’arresto di Semeria) che rafforzano la sua versione dei fatti contro quella di Franceschini. Ne riparleremo presto.
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Cara Silvia buongiorno.
Ormai è trascorso tanto tempo dall’ultimo incontro e sinceramente mi dispiace rifarmi vivo per una questione esterna al nostro rapporto, quasi imposta. Mi riferisco all’intervista di Franceschini pubblicata su La Repubblica on line.
Della mia militanza nelle Brigate Rosse non ho mai parlato con chiunque, tantomeno pubblicamente. La mia storia è tutta mia, e ciò che oggi sono è il frutto di tutti i miei 74 anni di vita, di ciò che pensavo e ho fatto, e delle persone con cui ho avuto rapporti.
In sostanza, come succede ad ogni persona, la mia coscienza deriva dall’intero percorso della mia vita, ed è il risultato di una doppia e simultanea operazione: guardarsi dentro per guardare fuori, guardare i mutamenti del fuori per capire i mutamenti dentro di te.
Ma arrivo all’intervista di Franceschini. Non c’è molto da dire, tantomeno ragionare sui motivi che hanno spinto Repubblica a costruirla e pubblicarla. Un mio amico sostiene che la giustificazione è come il buco del culo: anche per le cose più ignobili, se ne trova sempre una. Mi piace, invece, parlare di alcuni fatti.
La liberazione di Curcio dal carcere di Casale Monferrato e l’ingenuità di Franceschini a Pianosa
Il primo riguarda la liberazione di Renato. La liberazione è stata decisa dall’Esecutivo dell’organizzazione all’interno di un programma per la liberazione dei compagni dalle galere.
L’inchiesta ha portato a scegliere il carcere di Casale Monferrato come primo obiettivo, e tale scelta è stata imposta dalle allora capacità operative dell’Organizzazione, soprattutto dall’inesperienza nell’assaltare un carcere.
Nella decisione di scegliere Casale hanno pesato soprattutto le argomentazioni di “Mara” Cagol. In contemporanea era stata fatta un’inchiesta sul carcere di Saluzzo, dove Franceschini era recluso, e addirittura in seguito al suo trasferimento a Pianosa, Moretti ha portato avanti inchieste per pianificare un’evasione da Pianosa.
Da notare che Franceschini si è fatto beccare sul tetto di quel carcere durante una ricognizione per scappare, vanificando di fatto tutto il progetto di fuga. Se non ricordo male, né lui, né i suoi compagni di cella sono mai stati incriminati per tentata evasione, o danneggiamento delle sbarre della finestra.
Ma ritornando a Casale, nella fase di pianificazione dell’azione sono stati evidenziati errori “tecnici”, per il superamento di uno di questi io sono stato chiamato da Mario Moretti: una volta corretto, ho insistito per parteciparvi attivamente, e in seguito processato e condannato.
Non potendo attaccare Mara, Franceschini ha preso di mira Moretti
Ma a partire dalla liberazione di Renato, Franceschini ha iniziato a imputare a Mario di non essere andato a liberarlo: la sua “visione” su Moretti è stata rafforzata dall’aver preferito Renato a lui.
Non poteva prendersela con Mara, conoscendo bene come era fatta: lei non gliela avrebbe mai fatta passare. Si può dire che Franceschini abbia tratto un vantaggio dalla morte di Mara, nel senso che si è trovato un testimone in meno per contrastare la sua versione.
La vera storia della cattura di Pinerolo
Ma da dove parte l’idea di Mario come infiltrato, agente più o meno segreto, doppio-triplo giochista? Dalla sua cattura a Pinerolo, insieme a Renato, mentre si accingevano ad incontrare Girotto, “frate mitra” come alcuni giornali lo presentavano.
Innanzitutto Franceschini non doveva andare a quell’appuntamento, a cui doveva essere presente solo Renato. Ma ancor prima di quell’incontro con il “guerrigliero”, Mara aveva avvisato Renato e Franceschini che Girotto non la raccontava giusta. Secondo lei, Girotto non era mai stato sulle montagne o le foreste della Bolivia o di qualche altro paese andino, perché lui... non aveva il passo da montanaro.
Chi vive per un lungo periodo in montagna assume posture e andature del tutto particolari. Girotto non le aveva, e Mara aveva iniziato a sospettare di lui. Ma i sospetti di Mara non hanno trovato credito, altrimenti i due non si sarebbero fatti arrestare.
Ma la cosa non finisce lì. La sera prima dell’appuntamento, alla colonna milanese arriva una “soffiata”: l’appuntamento tra Renato e Girotto era una trappola. Non siamo riusciti MAI a risalire alla fonte originaria di quella soffiata, in quanto della notizia erano a conoscenza solo i Carabinieri di Dalla Chiesa e la Procura di Torino.
In base a quella soffiata Mario, accompagnato da due compagni, inizia un folle viaggio di notte alla ricerca di Renato per avvisarlo della trappola. Non sapevano dove abitasse a Torino, per cui decisero di andare da Franceschini, di cui conoscevano l’alloggio a Piacenza. La decisione di andare da Franceschini fu presa perché lui conosceva dove Renato abitava.
Arrivati a Piacenza, scoprono che Franceschini non è in casa; i compagni lo aspettano in strada perché pensano che sia andato al cinema, in quanto la finestra dell’appartamento che dava sulla strada era aperta, segno evidente che lui non poteva essere andato lontano e, soprattutto, che di lì a poco sarebbe rientrato in casa.
Quando dopo l’una di notte non lo vedono rincasare, i compagni partano per l’Astigiano per avvisare Mara, che conosce l’abitazione di Renato, ma non la trovano. Pensano che sia a Torino a casa di Renato, per cui da lì vanno a Torino per cercarli, sperando che un contatto del luogo potesse conoscere l’abitazione di Renato.
Non trovano il contatto, e in quel momento Mario e i due compagni prendono una decisione folle, anche perché era arrivata la mattina: vanno al luogo dell’appuntamento a Pinerolo nella speranza di avvisare Renato prima dell’incontro con Girotto, rischiando di cadere anch’essi nella trappola. Pensavano che ad accompagnarlo fosse Mara, non certo che Franceschini fosse presente all’appuntamento.
Si accorgono di una situazione strana, nel senso che il luogo pullula di agenti in borghese. La trappola era già scattata, i compagni riescono a svignarsela.
Da quel giorno, Franceschini individua in Mario Moretti il responsabile della sua cattura, idea rafforzata in seguito dal fatto che Mario non venne catturato. Sic!
Mario Moretti nel 1975 era ricercato, non poteva tornare in fabbrica, Franceschini mente anche su questo punto
Anche l’inadeguatezza di Moretti a far parte dell’Esecutivo delle Brigate Rosse, che Franceschini sostiene di aver detto personalmente a Mario in occasione dell’Esecutivo tenuto il giorno prima del suo arresto a Pinerolo, è una circostanza che non torna. Franceschini dice di aver sostenuto durante la riunione che Mario sarebbe dovuto tornare in fabbrica per correggere la “concezione sindacalista” del suo pensiero. E questo avrebbe potuto tranquillamente farlo, in quanto Mario, sempre secondo Franceschini, fino al ’76 non era ricercato. L’individuazione della base di Via Boiardo, in seguito alle indicazioni date alla polizia da Pisetta, ha portato alla “latitanza” di Mario, in seguito anche al ritrovamento nella base dei tentativi di sviluppo di fotografie, allo scopo di impratichirsi in quella tecnica. Quelle foto ritraevano il figlio di Mario. Immediatamente dopo la scoperta della base (il famoso “covo di via Boiardo”) furono eseguite perquisizioni nella casa della moglie di Mario allo scopo di ritrovare prove di reato. Era il maggio del 1972! Da quel momento Mario fu ricercato dalle forze di polizia. Da tenere presente che Mario entrò in clandestinità alla fine del 1971, ultimo anno in cui fu impiegato alla Sit-Siemens. Mario non fu mai un “latitante”, in quanto entrò in clandestinità per una scelta fatta dall’Organizzazione mesi prima del 1972.
La campagna di primavera fu gestita da tutte le componenti dell’organizzazione, durante il rapimento i militanti prigionieri ebbero un ruolo importante e quello di Franceschini fu decisivo
Ma arrivo con gli ultimi due punti. Nell’intervista Franceschini si ritiene responsabile di aver costruito un’organizzazione che, solo dopo la sua cattura, e quindi al di fuori di una sua partecipazione o decisione, si è macchiata di numerosi delitti. Considero solo il “caso
Moro”. La gestione politica della Campagna di Primavera è stata fatta da tutte le componenti dell’organizzazione. Ugualmente va detto che il Fronte delle Carceri ha avuto un peso non indifferente, anzi. Per inciso, a mio personale parere, e ripeto personale, l’aver richiesto con il Secondo Comunicato la liberazione dei compagni imprigionati in cambio della vita di Moro è stato un errore madornale, in quanto con quella richiesta si sono chiuse tutte le possibilità di manovra. Si sono chiuse cioè tutte le possibilità di evidenziare le contraddizioni in campo alle forze istituzionali e addirittura di aprirne delle nuove, e magari di trovare un’altra soluzione all’iniziativa. Con quella richiesta è stata facilitata l’intransigenza del Pci, da cui ha origine l’esito del rapimento e la morte di Moro. Al di là di un mio convincimento per nulla recente, proprio perché il Fronte carcerario ha avuto un peso notevole, Franceschini è completamente responsabile, se non addirittura il principale artefice della richiesta di liberazione dei prigionieri politici. E di come la storia sia finita.
Nel 1978 Andreotti aveva la scorta, Franceschini non sa quel che dice
Lascio perdere l’affermazione sulla presunta inadeguatezza di Mario a essere un dirigente delle Brigate Rosse: ricordo solo che il suo arresto avvenne nel 1981, dopo 10 anni di dirigenza dell’organizzazione. Franceschini inoltre afferma che in carcere «non gli fu mai spiegata» la scelta di rapire Moro e di uccidere gli agenti di scorta, invece di rapire Andreotti. Andreotti non era scortato (e non sarebbero di conseguenza stati sacrificati gli agenti della scorta), cosa che lui stesso aveva verificato prima dell’arresto a Pinerolo (avvenuto nel ’74): infatti Andreotti gironzolava per Roma, ovviamente senza scorta, e addirittura Franceschini afferma che «arrivai persino a toccargli la gobba». Consideriamo solo le date: indagine condotta a Roma da Franceschini nel 1974, rapimento Moro nel 1978. Sono passati 4 anni, di guerriglia e di ovvia ristrutturazione degli apparati dello Stato.
Ritornando tra le braccia del Pci, Franceschini si è ritagliato il ruolo di suggeritore degli scenari dietrologici utili a quel partito
Per ultimo. Franceschini conosce bene i suoi polli: c’è cresciuto, si è alimentato, c’è ritornato. Sto parlando del Pci. Grazie al Pci di allora ha trovato una collocazione sociale e lavorativa in seguito alla sua dissociazione. Ma per portare acqua al suo mulino, Franceschini sa bene che doveva dare qualcosa in più. E il “qualcosa in più” fa parte proprio della sua personalità: lui si considerava il più intelligente e ... il più furbo, proprio così. E conoscendo i suoi polli, sapendo che la sola dissociazione non era poi la carta definitiva da giocare, ecco che trova la via maestra da percorrere tutta, insieme a Flamigni e soci: grazie alla veste politica e culturale del “redento”, inizia a suggerire argomenti che sicuramente avrebbero fatto presa nei suoi interlocutori, a rafforzare cioè la ricerca di chi sta dietro alle “sedicenti”, o “cosidette” Brigate Rosse. La risposta per Franceschini è semplice: ma sicuramente Moretti. Poiché è difficile sostenere che Moretti sia al servizio del Kgb o della Cia, Franceschini insistere su una presunta ambiguità del “capo”, lasciando poi ai suoi interlocutori/padroni il compito di ricamarci a dovere, cosa di cui sono veramente abili, facendo continuo sfoggio pur indossando abiti via via diversi, a seconda della convenienza del momento: dal Pci verso la Dc, cavalcando oggi il Pd. Sembra il testo di una canzone di Rino Gaetano. Fra parentesi, Moretti sta espiando ancora una pena, a 39 anni e mezzo dalla sua cattura! Già, dimostrazione evidente della sua presunta ambiguità.
Concludo. Mi sembra ormai giunto il momento di chiudere definitivamente con queste storie, e questa lettera che scrivo la interpreto come un piccolissimo contributo a chiudere con le polemiche. La società in cui sono nate, sono cresciute, hanno avuto importanza e sono morte le varie componenti del movimento rivoluzionario degli anni '70 e '80, non esiste più. Le contraddizioni sociali e di classe oggi marciano su altri mezzi e per altre strade, irriconoscibili da quelle di allora. Per cui ... mi sembra opportuno finire di dare elementi concreti di verità a coloro che li usano per distruggere ogni attuale possibilità di antagonismo. Penso che bisognerebbe lottare per l’ignoranza del potere.
Fonte
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