La nomina insolitamente rapida di un nuovo primo ministro e
l’intervento del presidente francese, Emmanuel Macron, non sembrano
avere convinto la maggior parte della popolazione del Libano della
genuinità dei progetti di cambiamento ufficialmente messi in moto per il
paese mediorientale, precipitato in una crisi gravissima dall’emergenza
Coronavirus e dalla spaventosa esplosione al porto di Beirut del 4
agosto scorso.
Proprio la seconda visita in meno di un mese di Macron e
l’indicazione ufficiale del diplomatico Mustapha Adib a capo del governo
da parte della maggioranza dei partiti libanesi hanno scatenato ancora
una volta le proteste popolari. Martedì sono scesi nuovamente nelle
strade della capitale migliaia di manifestanti, affrontati dalla polizia
mentre cercavano di farsi strada verso la sede del Parlamento e
intenzionati a celebrare a loro modo il centenario dalla creazione dello
Stato del Grande Libano, avvenuta durante il mandato francese.
La creazione di un nuovo governo si era resa necessaria dopo le
dimissioni dell'esecutivo di Hassan Diab, seguite all’esplosione che ha
provocato poco meno di 200 vittime e migliaia di feriti, nonché privato
di un’abitazione circa 300 mila residenti di Beirut. Diab era in carica
da una manciata di mesi e a sua volta aveva assunto la carica di primo
ministro dopo le dimissioni del leader sunnita filo-occidentale e vicino
ai sauditi, Saad Hariri, sull’onda delle proteste contro
l’ultra-corrotto sistema oligarchico e clientelare libanese.
Nel paese dei cedri, la formazione di un esecutivo è solitamente un
affare che richiede mesi o anni di trattative tra le varie fazioni delle
élite che rappresentano le numerose confessioni tra cui è divisa una
popolazione di poco più di 4 milioni di abitanti. In questa occasione,
le principali forze politiche si sono invece accordate in tempi brevi e a
larga maggioranza per scegliere il 48enne ex ambasciatore in Germania,
decisamente poco conosciuto al grande pubblico del Libano.
Adib ha ricevuto 90 voti lunedì in Parlamento sui 120 totali, grazie
al sostegno dei principali partiti, dai sunniti del Movimento Il Futuro
ai cristiani maroniti del Movimento Patriottico Libero, guidato dal
presidente libanese Michel Aoun, fino agli sciiti di Amal e,
soprattutto, Hezbollah. Secondo il sistema settario del Libano, il primo
ministro di questo paese deve sempre essere di fede sunnita, mentre la
carica di presidente è riservata a un cristiano e quella di “speaker”
del Parlamento a uno sciita.
Sulla rapida nomina di Adib ha influito il grave stato di crisi del
paese affacciato sul Mediterraneo, ma con ogni probabilità anche le
pressioni internazionali, più che evidenti dalla doppia visita di
Macron. I governi occidentali spingono in particolare per un esecutivo
in grado di negoziare con le istituzioni finanziarie internazionali,
come il Fondo Monetario (FMI), per ricevere un pacchetto di aiuti in
cambio di profonde riforme economiche e sociali. L’altro obiettivo,
probabilmente ancora più sentito, riguarda invece il ruolo di Hezbollah,
di cui si dirà meglio in seguito.
Se il metro di giudizio sono le richieste occidentali e quelle dei
manifestanti libanesi, la scelta di Adib non è esattamente di rottura.
Pur non avendo un passato politico di alto profilo, il premier in
pectore è considerato un protetto dell’ex primo ministro e imprenditore
multimiliardario, Najib Mikati, di cui è stato a lungo consigliere.
Questi suoi legami con l’establishment lo rendono prevedibilmente
sgradito ai movimenti di protesta e, oltretutto, Adib non può nemmeno
vantare un’esperienza tale da essere considerato in grado di gestire un
frangente così delicato.
Il
nome di Adib ha avuto comunque il via libera di Macron e
dell’Occidente. Il presidente francese ha ricordato alla classe politica
libanese come da essa ci si aspetti in ogni caso iniziative concrete
per ottenere gli aiuti internazionali promessi. A suo dire, anzi, se
entro i prossimi tre mesi il paese non si sarà avviato seriamente sulla
strada delle “riforme”, l’Europa potrebbe addirittura valutare l’ipotesi
di imporre sanzioni nei confronti dei politici libanesi.
Che Macron e gli altri leader occidentali credano davvero in un
cambiamento concreto della realtà politica ed economica del Libano con
un primo ministro e un governo scelti e controllati dalla classe
politica responsabile della situazione attuale è del tutto improbabile.
Le forze che hanno dato in fretta il loro consenso all’incarico ad Adib
intendono piuttosto prendere tempo per rimandare indefinitamente una
serie di provvedimenti che, se adottati, finirebbero per mettere a
rischio le loro stesse posizioni di privilegio.
Le pressioni e le minacce velate di Macron puntano perciò a un
obiettivo parzialmente diverso da quello dichiarato a livello ufficiale,
anche se con esso è in qualche modo intrecciato. La nuova campagna
partita da Parigi per tornare a esercitare una certa influenza sul
Libano, verosimilmente con il consenso di Stati Uniti e Israele, intende
in sostanza utilizzare la prospettiva degli aiuti finanziari come
incentivo per ribaltare le priorità strategiche di Beirut.
Nel mirino ci sono in sostanza il ruolo di Hezbollah e l’ascendente
dell’Iran sul Libano. Più precisamente, l’offensiva occidentale in atto
in questo paese, assieme causa e conseguenza della crisi odierna, serve
in primo luogo a spezzare l’asse della resistenza sciita e, in seconda
battuta, a ostacolare e possibilmente invertire il percorso del Libano
verso oriente, ovvero verso i piani di integrazione euro-asiatica
promossi principalmente dalla Cina e che hanno tra gli snodi principali
proprio la Repubblica Islamica.
In questi anni, le sirene cinesi hanno suonato insistentemente in un
Libano affamato di aiuti, investimenti e progetti infrastrutturali,
nonostante i tradizionali legami con l’Occidente di buona parte della
popolazione e della propria classe politica. Il cambiamento di rotta,
sia pure tutt’altro che univoco né condiviso da tutte le forze
politiche, è andato di pari passo con gli eventi della vicina Siria e
con il rafforzarsi delle posizioni di Hezbollah.
Questa realtà ha alimentato una campagna furiosa contro il “Partito
di Dio” e i suoi sponsor a Teheran, il cui operato, fondamentale non
solo per difendere il paese dalla minaccia di Israele, è stato e
continua a essere dipinto come la ragione di tutti i mali che affliggono
il Libano. Questa ossessione, da collegare come già spiegato anche
all’espansione dell’influenza cinese, è in definitiva alla base
dell’interesse di Macron per Beirut. Com’è ovvio, simili scrupoli non
sono un’esclusiva francese. Gli Stati Uniti sono anch’essi in prima
linea, come conferma la presenza a Beirut nella giornata di mercoledì,
cioè poche ore dopo il ritorno in patria di Macron, dell’assistente
segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente, David Schenker.
Hezbollah,
da parte sua, è ben consapevole delle dinamiche in atto, ma i suoi
leader sono costretti a muoversi con estrema cautela, alla luce sia
della situazione politica interna e internazionale sia del persistere
delle proteste che i media occidentali e quelli filo-occidentali
libanesi cercano di rivolgere contro lo stesso partito-milizia sciita e
la presunta eccessiva influenza dell’Iran.
Il fattore decisivo per l’uscita dalla crisi o, quanto meno, per segnarne
la prossima fase è dunque forse proprio il futuro del movimento popolare
che non accenna a spegnersi, stretto tra un establishment intoccabile,
un sistema ultra-settario che continua a tenere in ostaggio il paese,
interferenze esterne tutt’altro che disinteressate e una crisi economica
virtualmente senza precedenti.
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