In tempi di grave crisi economica e di urgente bisogno di risorse
per far fronte a tutte le conseguenze della pandemia, dalla spesa
sanitaria alla spesa indispensabile per il sostegno di tutti coloro che
hanno perso lavoro e reddito, ci si interroga da più parti su quale sia
il modo più efficace e più giusto per trovare questi soldi.
Sui grandi mezzi di informazione sembrano esserci pochi dubbi in merito: i soldi andrebbero presi dalle tasche dei lavoratori, che si tratti di pensionati o dipendenti pubblici oppure ancora di lavoratori costretti in smart working dall’emergenza. Noi la pensiamo diversamente.
Oggi più che mai appare opportuna l’introduzione di un’imposta
patrimoniale che colpisca gli elevati patrimoni dei ricchi, dei
ricchissimi e dei milionari. Ricordiamo che un’imposta patrimoniale è
un’imposta che colpisce la ricchezza, mobiliare e immobiliare, posseduta
dalle persone, dunque titoli finanziari, conti correnti ed immobili di
proprietà, e si distingue pertanto dalle forme di tassazione che
colpiscono i redditi delle persone. Una giusta patrimoniale rappresenta uno strumento imprescindibile per contrastare l’ampliamento delle disuguaglianze
che il normale funzionamento di un’economia di mercato costantemente
genera, perché sottrae risorse a pochi ricchissimi e le mette a
disposizione della stragrande maggioranza della popolazione.
Sappiamo bene che l’attuale dibattito sulla difficoltà di reperire le risorse per affrontare la crisi pandemica è un dibattito intossicato dalla retorica della scarsità delle risorse. Il progetto politico neoliberista, che ha assunto in Europa la forma storica dell’Unione europea e delle sue istituzioni, impone una scarsità di risorse
del tutto artificiale, basata sull’impossibilità di ricorrere alla leva
del debito pubblico per stimolare l’occupazione e sostenere
l’espansione dello stato sociale. Ci vietano di sfruttare la spesa
pubblica in deficit, perché questo gli consente di alimentare precarietà e disoccupazione
– fondamentali strumenti di disciplina del lavoro – e poi si stupiscono
che non vi siano i soldi per contrastare una pandemia globale. Ma nel
rivendicare la piena sovranità di tutte le leve della politica fiscale,
riteniamo sempre centrale il ruolo svolto da una giusta patrimoniale,
che serve non solo e non tanto a raccogliere le risorse che l’Unione
europea ci impedisce di prendere a debito, ma soprattutto come strumento redistributivo,
un’arma in più da usare per contendere al profitto e alla rendita le
quote di ricchezza accumulata grazie allo sfruttamento del lavoro. Resta
insomma il fatto, duro e coriaceo, che le tasse sono tra i più preziosi
strumenti di redistribuzione del reddito a disposizione di chi vuole
ridurre l’insopportabile disuguaglianza generata dalle economie di
mercato. A patto, naturalmente, che siano disegnate in modo tale da
colpire in misura fortemente crescente al crescere del reddito e della
ricchezza, togliendo tanto a chi ha tantissimo e nulla a chi ha
pochissimo. Ed è proprio su questo aspetto che si deve innestare il
dibattito sulla patrimoniale, oggi, nel particolare contesto storico e
istituzionale di un Paese come l’Italia, membro dell’Unione europea.
Uno dei pilastri dell’architettura istituzionale europea è infatti costituito dalla libertà di circolazione dei capitali,
un vero e proprio argine ad ogni istanza di redistribuzione del reddito
attraverso la leva del fisco. Se provi a far pagare troppe (secondo
loro) tasse agli straricchi, alle grandi imprese, alle multinazionali,
alle banche, agli speculatori finanziari, questi hanno la libertà di
spostare altrove i propri patrimoni (per quanto concerne la ricchezza
accumulata) e le proprie sedi fiscali (per quanto concerne i loro
redditi), in modo da garantirsi le più vantaggiose condizioni fiscali.
Ogni tentazione a cambiare lo status quo attraverso lo strumento
della tassazione si scontra dunque con l’impalcatura stessa dell’Unione
europea, eretta a difesa delle disuguaglianze e disegnata per
disarticolare qualsiasi dinamica redistributiva.
La vera domanda diventa allora: come
disegnare nel particolare contesto storico in cui ci muoviamo una giusta
patrimoniale capace di colpire realmente lo scandaloso accumulo di
ricchezze concentrato nelle mani di una ristrettissima elite?
Delle varie forme di cattiva
patrimoniale non vale neanche la pena parlare. Sarebbe una peste e la
conosciamo già perché l’abbiamo sperimentata sulla nostra pelle nel
recente passato, numerose volte, sotto vari nomi: ISI sui conti correnti
e ICI sulle case, istituite dal Governo Amato come dono sacrificale
offerto sull’altare dell’Europa di Maastricht, poi IMU del governo Monti
offerta vent’anni dopo sullo stesso altare. Imposte fortemente
regressive che ricadevano in primis e pesantemente sui piccoli patrimoni immobiliari (prima casa) e mobiliari (conti correnti) dei più poveri e della classe media.
Parliamo allora della giusta
patrimoniale, quella che dovrebbe colpire solo le grandi ricchezze e non
le prime case e i conti correnti piccoli e medi. In linea teorica,
questa buona patrimoniale potrebbe essere perfettamente attuata e
potrebbe raccogliere un importante gruzzoletto dai più ricchi, da
redistribuire al resto della società. I numeri ci indicano infatti che
il 20% degli italiani più benestanti (in termini di patrimoni
posseduti) detiene oltre il 60% della ricchezza nazionale, e addirittura il 5% dei più ricchi possiede ben il 41% della ricchezza del Paese.
La ricchezza di questo 5% di privilegiati, in termini assoluti, eccede
la ricchezza dell’80% più povero degli italiani. Dati mostruosi che,
oltre a darci l’idea di quanto sperequata sia la distribuzione delle
risorse nel nostro paese, ci indicano come potenzialmente un’imposta
patrimoniale sarebbe in grado di colpire in modo cospicuo chi davvero
detiene ricchezze rilevanti. Altro che la famigerata classe media! Ora,
concentrandoci soltanto sulla ricchezza mobiliare rappresentata da conti
correnti e titoli finanziari, ipotizziamo un’imposta che colpisca il
patrimonio (mobiliare) del 10% più ricco del paese. Ebbene, andremmo a
raccogliere gettito da soggetti che in media detengono una ricchezza
finanziaria di 800.000 euro a testa. Se restringessimo ancora di più il
campo al 5% più ricco, avremmo a che fare con una ricchezza media pro
capite di 1,35 milioni di euro: non parliamo dunque di semplici benestanti, ma di veri ricchi.
Nessun dubbio, quindi, circa l’opportunità – oggi più che mai – di
colpire con l’imposta patrimoniale la ricchezza di questi privilegiati.
Il problema è che questi patrimoni
appartengono a una categoria di persone che verosimilmente gode di
capacità organizzative sufficientemente consolidate da essere in grado
di spostare, a costo pressoché nullo e senza difficoltà operative, il
proprio denaro altrove non appena si subdori il rischio di una simile
patrimoniale. Del resto, ed è questo il punto cruciale, l’architettura
dei Trattati europei si fonda, come abbiamo avuto modo di spiegare,
proprio su questa libertà di fuga dalle tasse: il Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) sancisce all’art. 63 il divieto
di qualsiasi restrizione alla libera circolazione dei capitali, mentre
l’art. 65 tutela esplicitamente quei Paesi interni all’UE che scelgono
di attrarre capitali offrendo una tassazione agevolata ai capitali
esteri. In parole povere, l’unica discriminazione ammessa per quanto
concerne i movimenti di capitale è quella che favorisce le fughe di
capitali verso i regimi caratterizzati dalla tassazione più moderata. Ed
il sistema ha dimostrato di funzionare alla perfezione: ad esempio, in
tempi recenti, quando il Governo Monti discuteva l’introduzione di una
Mini-Patrimoniale ed ha visto sfilare sotto il proprio naso oltre
200 miliardi di euro in pochi mesi. Naturalmente non tutti i patrimoni
finanziari dei più ricchi scapperebbero, ma le probabilità di fuga
sarebbero direttamente proporzionali all’ammontare di quei patrimoni e,
verosimilmente, rimarrebbe tassabile un numero esiguo di patrimoni,
rappresentato peraltro dai meno elevati.
La giusta patrimoniale, dunque, si scontra apertamente con il contesto di libera circolazione di capitali sui cui si basano i Trattati europei.
Se ci arrendessimo a quel contesto, se ragionassimo solo in termini di
compatibilità con le regole europee che da oltre trent’anni mettono in
ginocchio i lavoratori e lo stato sociale, saremmo condannati a
combattere un’eterna guerra tra poveri per la spartizione delle poche
briciole che questo sistema accidentalmente concede ai più deboli,
mentre i ricchi continuano ad accumulare patrimoni sempre più
consistenti.
La conclusione da trarne, allora, è che l’architettura dei Trattati europei è il nemico numero uno della giusta patrimoniale,
è l’ostacolo più grande che abbiamo davanti alla strada che ci conduce
verso una maggiore redistribuzione della ricchezza. Perché la battaglia
per la giusta patrimoniale non sia vana, e non si risolva solo in uno
slogan, occorre quindi chiarire immediatamente che la sua introduzione
deve essere accompagnata da misure adeguate necessarie a contrastare la
fuga di capitali. I ricchi vogliono scappare, noi possiamo
impedirglielo, e riprenderci quello che ci è stato tolto, se decidiamo
di mettere in discussione non solo la scandalosa disuguaglianza che abbiamo davanti agli occhi, ma anche le istituzioni che la rendono possibile, a partire dalla libertà di fuga dei capitali inscritta nei Trattati europei.
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