Sul banco degli imputati, come capro espiatorio della crisi del governo Conte-bis, è piombata la gestione del Recovery Fund approntata dall’esecutivo. La crisi è infatti iniziata subito dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri dell’ultima versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), il 12 gennaio 2021, che ha innescato una serie di critiche serrate da parte delle istituzioni europee, tra cui quelle del Commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni e del vice presidente della Commissione Dombrovskis. L’argomento è scottante perché riguarda il programma di politica economica dei prossimi sei anni,
anni in cui i vincoli di bilancio torneranno ad essere stringenti e
dunque le uniche risorse spendibili rischiano di essere quelle previste
da PNRR. Una evidenza questa, scritta nera su bianco nello stesso Piano
di Ripresa.
Abbiamo già discusso le ragioni dei severi richiami all’Italia da parte dell’UE e dei suoi più attenti portavoce nostrani,
che coincidono con l’inizio della campagna politica e mediatica per il
ritorno alla disciplina di bilancio e all’austerità. Abbiamo anche già
visto come la portata del Piano che, come detto, si spalma su sei anni,
sia insufficiente rispetto alla drammatica situazione che
si è creata (e aggravata). Tuttavia, rispetto alle ristrettezze fiscali
a cui siamo stati abituati nel corso degli anni, ci sembra importante
provare a capire come verranno spesi i (pochi) soldi che si potranno
spendere in futuro.
Il PNRR italiano si articola in sei missioni o aree tematiche:
digitalizzazione-innovazione-competitività-cultura, transizione
ecologica, infrastrutture per una mobilità sostenibile, istruzione e
ricerca, inclusione e coesione e, in ultimo, salute. Queste missioni a
loro volta si compongono di 16 componenti e 47 linee d’intervento (come
da tabella seguente).
La prima cosa che salta all’occhio è
l’ammontare complessivo del NGEU che sembra salire dai tanto sbandierati
209 miliardi di euro fino a circa 224 miliardi. A un rapido controllo,
tuttavia, l’aumento delle risorse si rivela solo un’illusione ottica
conseguente all’inclusione di una quota di risorse del Fondo di Sviluppo
e Coesione (FSC 2021-2026), pari a 21,2 miliardi, all’interno del saldo
finanziario dedicato ai nuovi progetti (la colonna “b” in tabella).
Tali risorse erano già previste, sebbene non ancora programmate: “Il
DEF 2021 prevede i profili temporali di reintegro delle risorse
dell’FSC anticipate nel PNRR, nell’ambito del ciclo di programmazione
2021-2027”. Se è positivo l’esborso anticipato di tali risorse
durante una fase di profonda recessione economica, queste rientrano
tuttavia tra i prestiti del Recovery and Resilience Facility (RFF)
(p. 37 del PNRR) e andranno restituite, concorrendo tra l’altro ad
aumentare l’ammontare del debito; lo spauracchio delle regole europee.
In definitiva, le risorse totali del
NGEU si fermano sempre ai soliti 210 miliardi, tra cui prestiti (127,6) e
sovvenzioni (68,9) all’interno del Recovery and Resilience Facility, React EU (13) e Just Transition Fund (0,5). Si tratta, inoltre, ed è utile ripeterlo, di somme che si riferiscono non a un solo esercizio ma andranno spalmante su un arco di sei anni (2021-2026). Data questa caratteristica e dato il carattere meramente sostitutivo di una quota cospicua delle risorse in esame, il programma appare del tutto insufficiente. Se escludiamo quelle del Fondo di Sviluppo e Coesione,
circa un terzo (33-34%) delle risorse andrà infatti a finanziare
capitoli di spesa già previsti – che sarebbero stati finanziati tramite
nuovo debito pubblico o da un incremento del prelievo fiscale – e
avranno dunque un impatto aggiuntivo nullo sull’economia. In sostanza,
sono solo circa 145 i miliardi destinati a nuovi progetti. Per capire
l’entità della somma, basti pensare che i vari interventi messi in campo
dal Governo, dopo l’ultimo scostamento di Bilancio approvato a gennaio, ammontano a circa 165 miliardi.
Come se non bastasse, la programmazione legata al NGEU e al PNRR comporta l’istituzionalizzazione definitiva delle condizionalità europee in materia di fiscalità e riforme. Tutte cose che avevamo già largamente anticipato e che sono state confermate dalle nuove linee guida europee sui Piani di Ripresa nazionali, dove si afferma che gli Stati membri devono rispettare le raccomandazioni specifiche per Paese rivolte
loro nell’ambito del Semestre europeo del 2019 e 2020 per avere accesso
ai fondi. Riappare, anzi, alla faccia delle tronfie trombe della
propaganda sul fiume di soldi che starebbe inondando l’Italia, lo spettro dell’austerità. Il testo diffuso dal governo, infatti, fa esplicitamente riferimento alla necessità di trovare il giusto equilibrio tra misure di stimolo e una gestione prudente delle finanze pubbliche e di programmare la spesa corrente al fine di perseguire un significativo avanzo del saldo primario di bilancio (p.38).
Una lettura attenta del PNRR spegne
dunque qualsiasi forma di entusiasmo: non siamo di fronte ad alcun
cambio di passo radicale nella politica economica. Se in astratto la
digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, la transizione
energetica e il potenziamento della sanità pubblica sono tutti obiettivi
più che condivisibili, le modalità con cui queste sono perseguite sono
fondamentali, anche per comprendere quali saranno i risultati raggiunti e
chi beneficerà maggiormente delle risorse messe in campo. Il diavolo
sta nei dettagli.
Non è possibile qui considerare
ciascuna delle componenti del PNRR, procederemo dunque con dei semplici
esempi. Per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione,
si prevedono nuovi progetti pari a circa 6 miliardi di euro, dei quali
2,3 dedicati alla digitalizzazione (investimenti in infrastrutture
digitali, cyber security e servizi di cittadinanza digitale),
1,5 alla modernizzazione (assunzioni e valorizzazione delle competenze
dei dipendenti pubblici) e altri 2,3 all’innovazione organizzativa della
giustizia. Difficile tuttavia comprendere come si intenda ringiovanire
la Pubblica Amministrazione più anziana d’Europa – il 45% dei dipendenti pubblici ha un’età pari o superiore ai 55 anni –
ed ampliare il numero dei dipendenti pubblici, asfittico (3,2 milioni)
dopo anni di blocco del turnover, con lo stanziamento di soli 210
milioni di euro (p. 52) in sei anni.
Se prendiamo invece la transizione energetica,
cui sono destinati 37 miliardi di nuovi progetti, viene da chiedersi
come saranno strutturati gli investimenti pubblici. Quando si tratta di
politiche industriali dedicate alle filiere strategiche – si pensi ai 2
miliardi dedicati all’idrogeno verde – il PNRR prevede infatti “l’utilizzo
di strumenti finanziari che consentano di attivare un positivo effetto
leva sui fondi di NGEU per facilitare l’ingresso di capitali privati (equity o debito), di altri fondi pubblici o anche di una combinazione di entrambi (blending) a supporto delle iniziative di investimento”. Le risorse del Recovery Fund potranno dunque essere utilizzate come “una
garanzia su finanziamenti privati, […] una copertura della prima
perdita oppure […] un investimento azionario, con l’obiettivo della
realizzazione di specifici progetti” (p. 36). Se da un lato questa
previsione è finalizzata ad aumentare il volume complessivo degli
investimenti rispetto alle sole risorse stanziate dal NGEU, attraendo
investimenti privati, dall’altro la programmazione pubblica è messa qui esplicitamente al servizio dei profitti, piuttosto che della collettività, peraltro in un settore ritenuto essenziale per il futuro energetico del Paese.
Ma l’elenco degli esempi sarebbe molto
lungo. Si potrebbe menzionare il capitolo dedicato alla “riforma” del
settore idrico, che configura un vero e proprio rilancio della strategia di privatizzazione, attraverso l’estensione su scala nazionale e in particolare nel Meridione del modello gestionale delle multiutility quotate
in borsa e mosse da una logica esclusivamente privatistica, che poco
dovrebbe avere a che fare con un bene pubblico prezioso come l’acqua.
Oppure il capitolo salute, che inizia con l’autocelebrazione del
Servizio Sanitario Nazionale, non perché questo sia riuscito a garantire
servizi adeguati ai tempi della pandemia, ma piuttosto perché consente
all’Italia di registrare una spesa sanitaria (6,5% del Pil) inferiore
alla Germania (9,6%), alla Francia (9,4%) e alla media europea (7,8%).
In barba ai tagli alla sanità pubblica che
hanno caratterizzato i decenni dell’austerità, resta lo sforzo esiguo
per porvi rimedio: meno di 12 miliardi in sei anni, meno, dunque, di 2
miliari all’anno. Inoltre, e come se non bastasse, al netto dei proclami
va sottolineato come la finanziaria del 2021 in
realtà non faccia altro che stanziare per il Servizio Sanitario
Nazionale una cifra praticamente identica a quella stanziata nel 2020:
meno di un miliardo in più. Altro che investimenti in sanità.
Vi è, inoltre, una considerazione generale che sentiamo il dovere di fare: tanto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza quanto
il dibattito pubblico ospitato dai media, si caratterizzano per lo
schiacciamento acritico sul ruolo del privato nella ripresa economica
nazionale. Non vi è spazio, nonostante siano ancora sotto gli occhi le
difficoltà di approvvigionamento di mascherine e respiratori di un anno
fa, per il rilancio di un ruolo attivo dello Stato nell’economia, al
fine di sottrarre la produzione dei beni e dei servizi “strategici” alle
logiche del profitto. Quello che emerge, in sostanza, è l’assenza di
una politica industriale volta ad indirizzare non solo la produzione, ma
più in generale lo sviluppo e la crescita del Paese. Il ruolo dello
Stato continua ad essere marginale, minimalista, a sola garanzia del
funzionamento del mercato e dei profitti privati.
In conclusione, dietro alla retorica da libro dei sogni che caratterizza tutto il PNRR approvato dal Governo, si cela una sostanziale continuità con le politiche degli ultimi anni,
le stesse che ci hanno condotto sin qui. Nessun cambio di paradigma è
in vista, né può consolidarsi a meno che non si imponga nuovamente una
dinamica conflittuale, entro la quale possano trovare espressione le
esigenze e i bisogni di tutti coloro che hanno subito più duramente gli
effetti delle sempre più ricorrenti crisi degli ultimi anni.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento