I nodi arrivano sempre al pettine. La domanda, di solito, riguarda il “quando”, mentre la quantità del dolore è generalmente nota.
Dopo un anno e mezzo di pandemia, affrontata in tutta Europa in modo scellerato sul piano sanitario e con grandi spese pubbliche per impedire il tracollo di interi settori economici, tirare quei nodi ora farà malissimo.
A chi lavora, naturalmente. Sia che sia stato assunto trenta anni fa, sia che abbia trovato lavoro di recente. Giovani o vecchi, non ci sono distinzioni: servono schiavi a pochi euro al giorno, e chissenefrega se non riescono a campare.
Andiamo con ordine, però.
Il sistema in cui viviamo è quello del “libero mercato”, dalla prevalenza assoluta delle imprese su tutti gli altri soggetti sociali. E il sistema politico è disegnato per rendere questa prevalenza senza ostacoli, rallentamenti, resistenze.
Se qualcuno aveva pensato che la discreta quantità di “sussidi e ristori”, erogati malamente negli ultimi diciotto mesi, potessero stare ad indicare una preoccupazione dei “piani alti” circa la coesione sociale, e dunque una volontà di applicare politiche vagamente attente a non esagerare nella pressione sulle fasce sociali deboli, ora arriva il più deciso dei contrordini.
La retorica di regime, negli ultimi mesi, era stata tarata su “le centinaia di miliardi che stanno per arrivare dall’Unione Europea”, alimentando fantasie sulle possibilità di spenderli, illusioni sulle ipotesi di “redistribuzione”, sogni infiniti e diversi sulle conseguenze di quelle spese.
Ieri, presentando in conferenza stampa, a Bruxelles, il pacchetto economico di primavera, il Commissario europeo agli affari economici – Paolo Gentiloni, con al fianco la presidente Von der Leyen – ha spazzato via le nebbie.
La Commissione Ue, infatti, raccomanda all’Italia per il 2022 di “utilizzare il Recovery Fund per finanziare investimenti aggiuntivi a sostegno della ripresa, mentre conduce politiche di bilancio prudenti”.
L’ordine è solo apparentemente contraddittorio (finanziare di più e spendere di meno), ma chiarissimo. In pratica, i fondi del Recovery Fund (i famosi 260 miliardi in 6 anni su cui si fantasticava) dovranno essere utilizzati solo per investimenti aggiuntivi, e neanche un centesimo per “politiche sociali” (ammortizzatori, ecc.).
La strategia è quella di rilanciare la produzione aumentando la produttività, puntando tutto sulle esportazioni. Esattamente lo stesso modello mercantilista che era andato a carte quarantotto già prima della pandemia, in parallelo con la crisi della “globalizzazione” e il crescere delle tensioni tra i grandi blocchi politico-economici.
Ma se si ripropone un modello già fallito in condizioni molto peggiori, allora bisognerà anche aumentare la pressione sugli strati sociali riducendo la loro capacità di spesa e dunque anche la domanda interna. In parole povere: diminuire la spesa pubblica e i salari, tagliare le pensioni e le prestazioni sociali in genere.
Nelle “raccomandazioni” della Commissione, infatti, l’Italia deve “limitare la crescita della spesa corrente finanziata a livello nazionale” e, “quando le condizioni economiche lo consentiranno, perseguire una politica che punti ad avere una posizione prudente nel medio termine ed assicuri la sostenibilità”.
Per essere più chiari, il “patto di stabilità” sospeso nel 2020 e per l’anno in corso, tornerà pienamente in vigore a partire dal 2023, ossia tra 18 mesi. E quel patto imponeva e imporrà la riduzione del debito pubblico mediante tagli feroci alla spesa considerata da Bruxelles “improduttiva”, ossia quella sociale.
Allo stesso tempo, però, l’Italia – così come molti altri Paesi – deve “aumentare gli investimenti per rafforzare il potenziale di crescita”. Spendere di meno per certe cose e spendere molto di più per altre.
Confindustria lo sapeva già prima, e infatti chiede insistentemente, ad ogni “scostamento di bilancio”, di dare tutti i soldi disponibili alle imprese e niente – anzi, di meno – a lavoratori, giovani, pensionati, ecc.
Persino sul blocco dei licenziamenti l’Unione Europea ha fatto sentire il suo peso a favore di Confindustria, gelando le timide proteste dei sindacati complici e lo strumentale cicaleccio della Lega.
Il blocco dei licenziamenti italiano è considerato dalla Ue «superfluo», perché «tende a influenzare la composizione, ma non la portata dell’aggiustamento del mercato del lavoro». Che vuol dire? Che «ostacola il necessario adeguamento della forza lavoro alle esigenze aziendali».
Le esigenze dell’economia e quelle dei lavoratori (vivere dignitosamente) sono qui considerate in aperto contrasto (alla faccia dei mattarelliani “siamo tutti nella stessa barca”). Anzi: perché l’economia migliori, le imprese devono liberarsi quando e quanto vogliono dei dipendenti diventati “inutili”.
Il tocco di classe è però dato dall’ultimo passaggio in questo discorsetto: il blocco dei licenziamenti «avvantaggia i lavoratori a tempo indeterminato a scapito di quelli a tempo determinato come gli interinali e gli stagionali». L’equità starebbe dunque nel trattare tutti secondo le condizioni peggiori: tutti precari, licenziabili, ricattabili, senza diritti, pagati una miseria.
Abbiamo insomma il potere sovranazionale che adotta esplicitamente un indirizzo di classe molto preciso e articolato, senza zone di ambiguità.
E non è una sorpresa, né per noi né – tanto meno – per le imprese ed i media mainstream. Può esserlo solo per quella sinistra scafessa che crede ancora alla possibilità di “cambiare l’Unione Europea dall’interno”.
Basta guardare il coro che da molte settimane va montando.
Ristoratori che si lamentano del reddito di cittadinanza (581 euro, nella media di coloro che sono riusciti ad averlo) perché impedisce loro di trovare gente disposta a lavorare 8-10 ore al giorno per la stessa cifra.
Offerte di lavoro – pubblicate senza alcuna remora – con 600 euro in cambio di 45 ore settimanali di sei giorni.
Finti tirocini in fabbrica per 750 euro.
Per la disperazione del responsabile di un istituto alberghiero (una scuola pubblica incaricata di formare il personale per l’industria del turismo diffuso), che vede offrire ai propri allievi la “bellezza” di 300 euro al mese (dell’orario meglio non parlare).
Fino al “fine editorialista” del Corriere della Sera, Federico Fubini che scrive: “Fabbriche, campi, turismo e cantieri... Quando a mancare sono i lavoratori”.
Uno studente del primo anno di economia potrebbe obiettare che se l’”offerta” (posti di lavoro praticamente senza paga) non corrisponde alla “domanda” (i potenziali lavoratori), allora ci deve essere un cambiamento nel “prezzo”.
Ossia: le imprese devono offrire di più, se vogliono che qualcuno vada a lavorare per loro.
E invece no. Questa classe dirigente fetente e incapace, a sua volta ridotta a serva (contoterzista, ossia subfornitore) di filiere produttive multinazionali, chiede alla politica – nazionale ed europea – di “rimuovere un po’ di ostacoli per consentire ai giovani di andare a lavorare” (quel genio del ministro Garavaglia, leghista turista).
Non solo: lo stesso Sole 24 Ore segnala come per i giovani laureati venga messa a disposizione una prospettiva lavorativa e retributiva irricevibile, ragione per cui continuano ad andarsene massicciamente all’estero.
Una spoliazione di risorse strategiche per il paese che verrà accentuata dall’idiozia con cui Brunetta e il governo si apprestano a gestire le assunzioni di personale laureato nell’amministrazione pubblica, ossia tagliando fuori decine di migliaia di laureati “senza titoli accessori”, acquisiti in base al censo e alla disponibilità economica.
Stanno chiedendo insomma di ridurre la gente alla fame, così da non poter far altro che accettare qualsiasi salario, anche il più miserabile.
Neanche pensano – presi come sono nel trip del “modello export oriented” – che così facendo non avranno clienti per le loro mercanzie di più basso livello. Perché quei lavoratori da spremere fino all’ultima goccia, una volta fuori dal luogo di sofferenza chiamato “lavoro”, sono consumatori. Ma, senza soldi, saranno molto poco “ricettivi”.
Questo il panorama che si va preparando nei prossimi mesi. Non lo si affronta in modo individuale, così come non si può sopravvivere “sperando che io me la cavo”. Serve unità di intenti, visione, organizzazione, disponibilità e capacità di condurre il conflitto. Con una controparte terrorizzata dal proprio fallimento e non disposta a concedere nulla.
Serve organizzazione collettiva, fuori e contro ogni individualismo conservatore o rassegnato.
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