Avvengono cose insolite, inattese, sorprendenti. Ed è bene che accadano. Questo venerdì 18 giugno ci sarà lo sciopero generale della logistica proclamato da Usb, SiCobas, Adl.
Per chi conosce la storia del sindacalismo di base e le sue pervicaci divisioni, in effetti, si tratta di uno scatto imperioso in avanti. Come sempre, eventi simili dipendono dal convergere virtuoso di diversi fattori, non dalla “buona volontà” dei singoli attivisti o dei sempre deprecati (qualche volta a ragione, altre a torto) “gruppi dirigenti”.
L’evento è importante anche dal punto di vista politico, per le evidenti analogie con la “divisione della sinistra”, che spesso condivide con il sindacalismo di base la stessa rissosità, inversamente proporzionale alla rilevanza sociale.
In entrambi i casi, davanti al non esaltante spettacolo della frammentazione, fioriscono le analisi – sempre uguali – che si concludono immancabilmente con “appelli all’unità” cui seguono (altrettanto immancabilmente) cocenti delusioni e nuove divisioni.
Ogni nuova sigla – politica o sindacale – nasce chiamando all’unità (i lavoratori o “la sinistra”) e poi si cristallizza in una organizzazione delle dimensioni limitate – spesso assai limitate – ma con “ambizioni generali”.
Lasciamo perdere i deficit culturali che si esercitano in questa coazione a ripetere dilagata negli ultimi quindici anni. Anche un bambino riesce a comprendere che “l’unità” è razionalmente la condizione migliore per esercitare un ruolo nel conflitto con l’avversario di classe. Ma se ciò non avviene – da decenni – quella razionalità astratta, evidentemente, non spiega nulla. È solo l’espressione di un desiderio, che non si sa come concretizzare.
Le divisioni e la frammentazione sono nate dentro un percorso storico reale, nel conflitto sociale/politico. Ognuna di esse ha una sua “ragione” molto concreta anche se altamente “irrazionale”. Non la si supera con un atto di buona volontà. Non la si supera sognando lo “scioglimento” delle organizzazioni esistenti. Non si supera con “fusioni a freddo” e tanto meno con improvvisati “cartelli elettorali” che, non a caso, non raccolgono neanche la somma dei consensi individuali.
La si supera dentro un percorso di conflitto politico/sociale che tiene conto delle condizioni reali a contorno e in cui si fanno le “scelte giuste”. Quali sono? Quelle che funzionano, che rispondono a un bisogno sociale reale, che consentono di creare svolte reali, momenti e contenuti che parlano a tutti i soggetti interessati.
Non esiste un “manuale di buone pratiche” da cui trarre le indicazioni spicciole. Bisogna assumere su di sé la fatica di pensare e fare le scelte giuste.
E non ci sembra un caso che il primo baluginio di “unità di classe” avvenga nel settore della logistica.
Qui la realtà dei rapporti di forza tra le classi – tra lavoratori e “imprenditori” – è terribile. Le forme contrattuali sono infinite; le “esternalizzazioni” a false cooperative, pratica comune; i salari un optional, spesso sotto il livello della sopravvivenza; le divisioni etniche tra gruppi di dipendenti, innumerevoli e oscenamente sfruttate dai caporali a servizio delle aziende; le divisioni sindacali altrettanto infinite.
Ma la logistica non si può “delocalizzare”. La distribuzione capillare delle merci va fatta qui, dove si vendono. E qui il conflitto di classe non può essere bypassato con un salto tecnologico o organizzativo. Da anni la logistica è teatro degli episodi più significativi di un conflitto che altrove cova sempre sotto la cenere.
Poi accade che un imprenditore più violento di altri – Zampieri Holding – assuma dei bodyguard per aggredire uno dei tanti picchetti organizzati per protestare contro licenziamenti arbitrari e di massa. Accade che si verifichi un pestaggio sotto gli occhi della polizia, la quale manifestamente lascia fare fin quando “il risultato” (sgombrare il picchetto) è stato raggiunto. Accade che il pestaggio padronale si accanisca su attivisti e lavoratori SiCobas, ma sarebbe avvenuto lo stesso con qualsiasi altra sigla sindacale “non complice”.
E a questo punto che tutto diventa chiaro. Il rapporto di forza sociale complessivo è tale che non c’è più una striscia di terreno su cui arretrare in attesa di tempi migliori. Dietro le nostre spalle c’è solo il baratro dello schiavismo, dell’essere trattati e del sentirsi merce usa-e-getta.
A questo punto si riesce finalmente a vedere con chiarezza che le infinite divisioni (tra sindacati e tra sigle politiche) sono il frutto di quattro decenni di arretramenti. Di battaglie condotte in difesa delle conquiste degli anni ‘60 e ‘70, utilizzando un margine sempre meno consistente, ma reale. Battaglie tutte perse in nome del realismo, del concedere il meno possibile, e che lasciavano come inevitabile strascico delusione, accuse reciproche, separazioni astiose e irrecuperabili.
Divisioni però possibili perché c’erano ancora frammenti di terreno su cui “resistere”, arroccarsi, sopravvivere, “contrattare” (sia che si trattasse di condizioni di lavoro o di spazi sociali). “Orticelli”, diciamo...
Il dibattito politico di questi giorni, non a caso, si incentra sull’abolizione del reddito di cittadinanza. Una misura debolissima, irrisoria, che abbiamo in molti giustamente criticato come assolutamente insufficiente a garantire la sopravvivenza. Ma che ha involontariamente assunto una funzione di “soglia invalicabile” per la corsa al ribasso dei salari e delle forme contrattuali.
Ricordiamo che il livello medio dei redditi di cittadinanza effettivamente erogati è di 581 euro al mese. Ben al di sotto della soglia della “povertà assoluta” – 780 euro – che indica il minimo vitale per la sopravvivenza (secondo l’Istat, non secondo noi).
Questo è però anche il livello dei salari che gli “imprenditori” della microeconomia (ma non solo loro) sono disposti a pagare nel turismo, nella ristorazione, ecc. Sempre più spesso si prova addirittura a far ricorso al lavoro gratuito, oscenamente definito “volontario”.
Siamo dunque arrivati al punto in cui viene ritenuto “normale” pretendere che un essere umano lavori (senza neanche discutere dell’orario di lavoro) per una cifra inferiore al livello di sussistenza. O gratis.
È il punto limite. Se il “frutto del lavoro” non garantisce neanche il restare in vita, non c’è più nulla da difendere. Non c’è più spazio per “mediare”, per trattare. E i mazzieri di padron Zampieri sono entrati in campo per dimostrarlo.
È a questo punto che diventa fisicamente chiaro come ciò che “tocca uno, tocca tutti”. Ed è qui che si rivela concretamente l’interesse generale di classe, il quale supera di gran lunga qualsiasi “interesse di organizzazione”, ne dimostra i limiti evidenti e pone le basi per il superamento non solo delle divisioni nel sindacalismo di base, ma anche per la stessa burocratica e ostativa presenza del sindacalismo “complice” di CgilCislUil.
Dobbiamo dare merito a Usb di aver colto nella vicenda di Tavazzano di Lodi l’irrompere di una “novità” che costringe tutti a ragionare ed agire in un altro modo: secondo l’interesse generale di classe.
Non staremo qui a ricordare tutti gli eventi altrettanto gravi, o anche di più, che non sono riusciti a smuovere gli steccati inter-organizzazioni. Sarebbe inutile e dannoso, sarebbe un camminare con la testa voltata all’indietro, pronti ad inciampare ad ogni ostacolo.
Questo non vuol dire che da oggi tutti i problemi e le divisioni sono superati. Vuol dire “solo” – ma è un passo avanti enorme – che comincia per tutti una diversa fase storica nel conflitto sociale, in Italia quantomeno, in cui chi si muove per affermare l’interesse generale lavora anche, concretamente, per raggiungere l’obiettivo dell’unità della classe.
È insomma la necessità che costringe ad unirsi, non il fascino razionale dell’idea. È la necessità di esprimere una forza adeguata – sociale, organizzativa, numerica, analitica, ecc. – che rende la tensione all’unità più “persuasiva” della chiusura nel proprio orticello.
L’unità organizzativa, come ricordiamo ai tempi dei “consigli di fabbrica”, segue e non precede l’unità nel conflitto. È un risultato dell’azione, non un “appello” affidato ai buoni sentimenti.
Vale anche per “la sinistra”, o ciò che resta degli innumerevoli partiti e partitini comunisti.
Ma su questo versante, probabilmente, ancora non si vede un evento-shock altrettanto chiarificatore.
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