Invertire la rotta dopo dieci anni non è mai semplice, neanche nei rapporti umani più elementari. Figuriamoci a livello di sistema finanziario mondiale...
Da tanti anni infatti le banche centrali più importanti del pianeta (Federal Reserve, BCE, la giapponese BoJ, la britannica BoE, ecc.) hanno praticato il quantitative easing, ovvero massicce iniezioni di liquidità nei mercati tramite l’acquisto di titoli di Stato (della stessa nazione, in genere) e di titoli privati, collegati soprattutto al mercato immobiliare (eredità della crisi dei mutui subprime, negli Usa).
Lo scopo era impedire l’esplosione del sistema finanziario privato, scosso da fallimenti colossali (come quello di Lemahn Brothers, 2008), stampando moneta e mettendola in circolazione (il whatever it takes che ha reso famoso Mario Draghi era questa roba qui, nient’altro).
Obiettivo raggiunto, ma con qualche effetto collaterale imprevisto e soprattutto di difficilissima “cura”.
Il primo è stato l’azzeramento del costo del denaro a livello mondiale. Che è stata una buona notizia per chi chiedeva prestiti, ma una tragedia per chi prestava denaro (banche, assicurazioni, società finanziarie in genere). Non che questi ultimi siano da compiangere, però. I profitti persi nei prestiti sono stati recuperati (e moltiplicati) aumentando i costi per i conti correnti ordinari (le banche), oppure con la creazione di strumenti finanziari derivati ad altissimo rendimento e rischio, con tempi di ritorno veloci come un click.
Tutto questo oceano di “liquidità”, però, ha evitato accuratamente di riversarsi sull’economia reale (in Occidente, soprattutto), preferendo la speculazione di borsa (o addirittura over the counter) piuttosto che i tempi lunghi e la bassissima remunerazione dei prestiti alle imprese o alle famiglie.
La pandemia ha fatto il resto, come sappiamo, bloccando proprio le attività fisiche dell’economia reale, mentre il sistema finanziario andava avanti sui circuiti informatici, indifferenti alla realtà.
Ora che la “ripresa” – il “rimbalzo”, lo vedremo tra un anno o due – sta marciando, e l’inflazione ha ripreso a correre, tutta quella liquidità creata dal nulla e risucchiata dalla finanza non serve più. Per lo meno in quelle dimensioni e quella direzione.
La macchina da oliare è quella della produzione fisica, oltretutto costretta a programmare imponenti investimenti tecnologici per sfruttare (non “obbedire a”) la popolarità della transizione ecologica e del capitalismo sedicente green.
Ma sono due esigenze in contraddizione: per finanziare gli investimenti serve denaro a basso costo, per rallentare l’inflazione (da carenza di materie prime e componenti indispensabili, come i microprocessori) bisognerebbe invece alzarne il costo, aumentando i tassi di interesse.
Questo il dilemma che affligge i banchieri centrali. E che ieri sera Jerome Powell, presidente della Federal Reserve Usa, ha cominciato a sciogliere.
Ha infatti annunciato una riduzione immediata degli acquisti di titoli, ma molto prudente sia come dimensioni (15 miliardi di dollari in meno a novembre, 30 a dicembre, ma su un totale di 120, che era diventata la “normalità”) sia come tempi (diluiti da qui alla fine del 2022).
L’incertezza regna sovrana anche a quei livelli, sembra. Lo stesso Powell ha dovuto ammettere che ci sono “incognite che sfuggono ai sofisticati modelli econometrici” (qualcuno avverta i Cottarelli e i Martone, che da queste parti continuano a vendere la loro ideologia come fosse scienza), a cominciare dall’evoluzione delle varianti di Covid-19, che possono provocare rallentamenti imprevisti nelle attività economiche.
In un certo senso, si può dire che il “mondo fisico” si va riprendendo la sua centralità, fatta anche di qualche evento imprevedibile, mettendo in crisi i giochini matematici virtuali che sembravano avere il sopravvento in ogni campo (ancora in questi giorni quel tale Mario Draghi ha auspicato che “sanità e finanza si avvicinino”, mentre sarebbe bene costruire una diga invalicabile tra i due ambiti).
Anche la BCE viene in questi giorni sollecitata a esplicitare quanto meno modi e tempi del tapering (la progressiva riduzione degli stimoli monetari), in modo da “rassicurare i mercati e gli investitori” che devono programmare l’attività dei prossimi mesi o anni.
Ma tra i due lati dell’Atlantico ci sono situazioni – e strumenti – assai diversi. Negli Usa c’è in ballo un piano di investimenti pubblici da 4.000 miliardi di dollari (con ostacoli al Congresso, ma sulla quantità complessiva, non sulla necessità di fare investimenti), mentre nell’Unione Europea c’è la miseria dei 750 miliardi del Recovery Fund, per di più dilazionati in cinque anni e vincolati alla realizzazione di “riforme” sanguinose, più che “efficientiste”.
In Europa, insomma, le prospettiva di “ripresa” sono assai meno fondate o “stimolate”, nonostante le grandi chiacchiere nei vertici.
E quindi Christine Lagarde, per “rassicurare” davvero, ha dovuto giurare che qualsiasi aumento dei tassi è “molto improbabile per tutto l’anno prossimo”. Al massimo, anche qui, la BCE ridurrà un po’ gli acquisti di titoli, stampando meno moneta.
La crisi sistemica continua, e non permette di sognare orizzonti di gloria per il capitalismo occidentale...
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