Siamo abituati a pensare alla crisi climatica come a qualcosa di recente, ma le sue radici vengono da lontano. Solitamente associate alla rivoluzione industriale – fase non a caso individuata come possibile inizio dell’Antropocene – queste possono essere in realtà fatte risalire ancora più indietro, al colonialismo, che tratta le terre, le risorse naturali e le popolazioni locali allo stesso modo: come qualcosa da sfruttare. Crollato il vecchio sistema coloniale, le logiche su cui si basava non sono sparite, ma continuano a mostrare gli effetti che contribuiscono a mantenere le ex colonie in uno stato di sfruttamento.
Per indagare le origini del degrado ambientale, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, bisogna tornare indietro al Sedicesimo secolo, quando il colonialismo europeo inizia ad alimentare l’economia delle madrepatrie, con conseguenze disastrose per i territori colonizzati e le popolazioni locali. Lo storico Alfred Crosby lo definisce imperialismo ecologico, sostenuto da piante infestanti che foraggiano la riproduzione del bestiame europeo, oltre che da virus e batteri sconosciuti arrivati dall’Europa nei territori colonizzati. Le comunità indigene si disgregano assieme alle loro società, allontanate dalle proprie terre, confinate in territori inospitali e indebolite da guerre, epidemie e schiavismo. Il paesaggio naturale viene trasformato radicalmente dai nuovi modelli agricoli che soppiantano quelli tradizionali, per colture più remunerative come tabacco, tè, canna da zucchero, cacao, riso e cotone. Questo effetto disastroso è rafforzato, specialmente nel Ventesimo secolo, dalle grandi quantità di fertilizzanti impiegati per aumentare la produzione di questi prodotti, insieme al loro trasporto effettuato tramite dighe, canali, strade, ferrovie e porti, infrastrutture che danneggiano il territorio e interrompono la continuità dei paesaggi. La raccolta di legname pregiato da un lato e l’estrazione di minerali e metalli preziosi dall’altro portano poi all’abbattimento di foreste, peggiorando ulteriormente le condizioni del suolo.
Sono processi a catena che avvengono ovunque gli europei approdino per colonizzare: gli spagnoli alterano in modo irreversibile l’ambiente dell’America centrale e meridionale, disboscando e cambiando per sempre il paesaggio con le colture di frumento, canna da zucchero, olivi e viti, mentre l’introduzione di un’attività tipicamente europea come l’allevamento espone il terreno all’erosione, con problemi anche per il sistema di drenaggio delle acque, rendendo a loro volta più facili le inondazioni. Un esempio emblematico degli effetti di questa situazione è la città mineraria di Potosí, in Bolivia, dove nel 1626 crollò la diga di San Ildefonso, la più grande delle 30 costruite dagli spagnoli per alimentare la produzione, uccidendo oltre 4mila persone e contaminando i fiumi locali con il mercurio.
Le risorse sono al centro anche dello sfruttamento subito dall’India nella sua lunga storia coloniale: ne è un esempio l’imposizione di colture, come quella della gomma nella regione del Bengala, che supportano l’industria dei Paesi colonizzatori. La stessa deforestazione, necessaria per lo sfruttamento del legname e per la costruzione di infrastrutture, di cui sono vittime ancora oggi le regioni indiane dell’Himalaya e del Punjab, è da far risalire all’epoca coloniale, quando inizia la costruzione delle ferrovie nella zona, in forte espansione per volontà del governo coloniale britannico. Questo sfruttamento nel sistema coloniale è inevitabile, perché le risorse non rispondono più solo ai bisogni locali, ma servono ad approvvigionare la madrepatria e i suoi traffici internazionali.
In Africa a subire questa sorte sono soprattutto foreste e miniere, anche attraverso il porzionamento dei territori sottoposti a un’autorità che si occupa della classificazione botanica e del rimboschimento, per seguire i principi del massimo rendimento. In Africa gli europei – tra cui soprattutto i francesi, presenti nella zona Occidentale dal 1895 al 1958 – per attuare il progetto di assoggettamento e controllo, da un lato usano giustificazioni scientifiche e dall’altro fabbricano l’immaginario di una terra vergine, vuota e libera, che ignora le strutture preesistenti, base della vita sociale di interi gruppi che vi vivono di caccia, pesca, raccolta e taglio del legname. Questa rappresentazione del territorio africano è tradotta nella legislazione con cui lo Stato francese, con un decreto del 1935, si arroga la proprietà delle aree forestali vuote, non sfruttate, che spesso sono in realtà terre a riposo agricolo o deputate dalle popolazioni indigene a caccia, raccolta o culto.
Il colonialismo italiano non è da meno, non solo per il trattamento dei popoli assoggettati sulla base di una presunta supremazia razziale, ma anche per la distruzione ambientale. L’approccio inizialmente prende la forma dell’intervento agricolo – con l’imposizione di olivo, grano e tabacco – per diventare successivamente sfruttamento finalizzato all’autarchia nazionale durante il Fascismo, soprattutto in Africa Orientale. Anche in questo caso si realizza una rottura tra comunità locali e ambiente, che non si è mai ricomposta, nemmeno dopo la fine dell’epoca coloniale. Ne è un esempio la Libia, che dopo la fine dell’occupazione italiana abbandona un’economia basata sull’agricoltura per puntare sul petrolio. Quello che è iniziato ieri con le miniere di diamanti in Africa centrale e meridionale, continua con i minerali rari necessari all’industria elettronica.
Le forme con cui la distruzione neocoloniale dell’ambiente si concretizza oggi sono quelle del land grabbing, l’espropriazione di terre in nome dello sviluppo, ora con la costruzione di infrastrutture, ora con l’estensione di piantagioni per la produzione di biocarburante. Le conseguenze sono ancora povertà, malattia, fame e migrazioni; ma anche aperta violenza nei confronti di chi cerca di difendere l’ambiente locale, come accadde nel 1994 ai giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, impegnati in un’inchiesta sul recente colonialismo tossico italiano in Somalia. Qui, rifiuti pericolosi come diossina, scorie radioattive e scarti di amianto partono dall’Italia alla volta dell’Africa, con la mediazione della criminalità organizzata. Non si tratta di episodi sporadici: tra il 1988 e il 1994 vengono denunciati ben 94 casi di esportazione di rifiuti tossici in Africa, complici necessità economiche e scarsi controlli delle autorità nel Continente.
Lo sfruttamento neocoloniale dell’ambiente da parte dei Paesi più industrializzati è più sottile, ma prosegue prendendo diverse forme, anche apparentemente contrastanti. Ne sono un esempio l’esportazione di rifiuti verso i Paesi del “Sud del mondo” e il green grabbing, con cui si intende l’espropriazione di terre da tutelare per ridurre le emissioni e proteggere la biodiversità. Peccato che si tratti spesso di terreni collettivi, da cui le comunità vengono allontanate, talvolta costrette all’emigrazione. È così che le dinamiche di potere tra i Paesi più ricchi e quelli in via di sviluppo continuano a esistere, riflettendosi sul degrado ambientale. Ed ecco perché per affrontare la crisi climatica dobbiamo fare i conti con gli squilibri delle dinamiche internazionali e il nostro passato coloniale.
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