Giovedì 2 dicembre inizierà il maxi-processo ad una cinquantina di antifascisti genovesi “colpevoli” di avere di fatto impedito il 23 maggio del 2019, il comizio elettorale di chiusura di Casa Pound per le elezioni europee.
Mercoledì 1 dicembre si è svolta una conferenza stampa di Genova Antifascista al Circolo dell’Autorità Portuale che è stata un occasione per fare la presentazione del dossier curato da GA – che alleghiamo qua sotto – ed il punto sulla vicenda giudiziaria.
Il giorno precedente si era concluso uno dei due “tronconi” del processo che ha visto 5 compagni assolti dal reato di travisamento, dopo il ricorso dei legali alla condanna di pagamento di un decreto penale di circa 9mila euro, ed invece è stata comminata una condanna di sei mesi ad un manifestante per il porto di oggetti atti ad offendere.
Si trattava di tubi “Geberit” usati come aste di bandiere che tra l’altro è stato accertato in ambito processuale il 23 maggio non vennero usati come strumenti di offesa.
Due compagne di Genova Antifascista hanno letto il comunicato – una sintesi della prima parte del dossier – e poi Bruno Rossi, storico militante portuale della città ha voluto testimoniare la sua solidarietà agli imputati, insieme a Danilo Oliva, ex dirigente sindacale e presidente del CAP.
Gli avvocati Laura Tartarini, Emmanuele Tambuscio e Alessandro Gorla, legali di alcuni imputati, hanno fatto poi il quadro di questo processo “a rotta di collo” – per citare le parole della Tartarini – che ha tempistiche difficilmente comprensibili: sono state fissate dieci udienze in meno di un mese per arrivare ad un verdetto prima di Natale.
Un fatto insolito, considerato che si tratta di un processo per fatti accaduti meno di tre anni fa ed i cui termini di prescrizione sono piuttosto lontani.
I legali hanno risposto alle numerose sollecitazione provenienti da chi era presente alla conferenza stampa.
Come normalmente avviene, Digos e Procura hanno “decontestualizzato” gli avvenimenti, concentrandosi su frames dei filmati girati che ritraggono gli imputati e fornendo il profilo di ognuno attraverso la ricostruzione arbitraria del “profilo militante” di tutti, oltre che i precedenti penali.
Un approccio che cercherà di essere “decostruito” nelle aule del tribunale, anche grazie all’uso della consulenza di Elia Rosati, studioso della galassia neo-fascista.
Alcuni imputati hanno più volte espresso la volontà di “prendere parola” durante il processo per dare conto delle ragioni che li ha portati a rimanere in piazza nonostante gli incessanti tentativi di sgomberarla già ben prima dell’inizio del comizio dei neo-fascisti.
L’ipotesi di reato che accomuna tutti gli imputati è la “resistenza aggravata”, una fattispecie di reato per la quale è prevista una pena molto elastica – da un minimo di 6 mesi ad un massimo di oltre 10 anni di reclusione – in più per alcuni imputati vengono contestati altri reati specifici.
In procedimenti simili nel capoluogo ligure, in casi di condanna, le pene comminate per “resistenza aggravata” andavano dagli 1 a 2 anni, ma è chiaro che non è possibile trarre conclusioni sulla base dei precedenti, vista la particolarità che sembra assumere il profilo di questo processo.
A differenza di altri processi simili a Genova non sono stati ipotizzati i reati di minaccia e lesioni, anche perché l’imponente dispiegamento delle forze dell’ordine (circa 300) e l’accerchiamento dei manifestanti, oltre al fatto che – tranne i manifestanti – nessuno degli agenti si è fatto male, avrebbe indebolito ulteriormente l’impalcatura accusatoria.
Si è fatta quindi probabilmente una operazione più “chirurgica” selezionando alcuni imputati, e “scartandone” altri, – tendenzialmente i più noti alla DIGOS – sulla base dei profili e cercando di avere il più possibile una base solida per la “resistenza aggravata”, che a livello giuridico è un atto in cui si estrinseca una forza che contrasta in un qualche modo l’azione delle forze dell’ordine.
Può ricadere in tale casistica, ad esempio, aver allontanato i gas lacrimogeni – i famigerati CS – lanciati copiosamente nel corso di tutto il pomeriggio, o resistito in qualche modo ad una carica.
Su questa serie di micro-comportamenti individuali, si è costruito l’impianto che ha portato a questo processo, una specie di contro-altare all’altro procedimento giudiziario – per cui s’attende l’appello – che ha portato a condanne lievissime (40 giorni) i quattro agenti del Reparto Mobile della Caserma di Bolzaneto, che hanno massacrato di botte il giornalista della Redazione genovese di “La Repubblica”, Stefano Origone, “scambiato” per un manifestante.
Come è scritto nella conclusione del Dossier e ribadito in Conferenza Stampa: “Le procedure giudiziarie a carico degli antifascisti perciò devono cadere, va aperta una riflessione sulle profonde responsabilità nella folle gestione di quella piazza in termini di ordine pubblico ed un dibattito franco sul processo politico che ha portato allo sdoganamento e alla di fatto “protezione” della libertà d’azione dei neo-fascisti nella nostra città. Legittimazione e ‘protezione’ che solo per un caso fortuito non hanno portato a tragiche conseguenze.”
Fino ad ora la giustizia è stata piuttosto clemente con gli episodi di violenza commessi dai neo-fascisti in città – tra cui una aggressione in due ad una militante comunista, un accoltellamento ad un antifascista, ed un pestaggio ad un cittadino straniero – e con la polizia. Anche sta volta verrà applicata la logica “due pesi, due misure”? Lo vedremo a conclusione del processo.
Fonte e dossier
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