Per i milanesi meno giovani, quelli che hanno passato i cinquanta, il vigile urbano, meglio detto in città ghisa non è mai stato una figura repressiva.
Il ghisa era cosi chiamato per lo strano casco della sua divisa. In realtà tale casco, allungato in altezza, che sarebbe stato di un peso insostenibile se davvero di ghisa, era di sughero e serviva soprattutto a farlo notare nei crocevia quando dirigeva il traffico.
Si trattava di una figura istituzionale, ma piuttosto familiare e bonaria, dedicata soprattutto al buon funzionamento della città. Le mamme ansiose raccomandavano ai bambini, se avessero perso la strada di casa, di rivolgersi a un ghisa, mentre i turisti guardavano le bandierine cucite sulla manica della divisa per sapere se potevano avere informazioni nella loro lingua.
Solo Totò sbagliò tutto, quando in Totò, Peppino e la malafemmina, si rivolse, in Piazza del Duomo, a un ghisa, in un incomprensibile patois italo francese che ne provocò le ire.
Durante gli anni sessanta e settanta, quando Milano era un grande ribollire politico, i ghisa dimostrarono equilibrio, mantenendo la loro neutralità dalla repressione e guadagnandosi stima e rispetto. Al massimo, li si poteva temere quando si scorrazzava in troppi dentro a una vecchia cinquecento, rischiando una multa inappellabile.
Che i ghisa avessero la pistola, quasi nessuno lo sapeva. Ce ne si accorgeva solo in estate, quando, lasciati cappotti e giacche, si poteva notare la fondina in cui alloggiava una piccola rivoltella che quasi mai nessuno dei vigili usò.
Poi, negli anni 2000, i vigili urbani diventarono “polizia locale”. Mai come in questo caso, le parole hanno avuto un senso. Moto e automobili di grossa cilindrata, sirene a tutto volume, manganelli, manette e grosse pistole in bella mostra. Berretti all’americana, più adatti agli inseguimenti che non il vecchio e ingombrante casco di sughero.
Ma, soprattutto, un radicale cambio d’atteggiamento verso i cittadini, autoritario e aggressivo e la costante presenza in situazioni come sgomberi di case, allontanamento di senza tetto ecc.
La polizia locale, in pratica, è usata ormai come un quarto corpo d’ordine pubblico dopo la polizia, i carabinieri, la guarda di finanza, quest’ultima usata peraltro negli ultimi anni più per reprimere le manifestazioni che gli evasori fiscali.
Ora il ciclo si completa. Il consiglio comunale milanese ha approvato una mozione della leghista Silvia Sardone, quella per cui occupare una casa per bisogno è un “furto di casa” (la proprietà privata soprattutto, no?) che introduce la sperimentazione del taser come arma per la polizia locale.
La mozione è passata solo perché ai voti della destra si sono aggiunti quelli di un nutrito gruppo di consiglieri della maggioranza, tra cui alcuni assai importanti, come quello del capogruppo PD Barberis.
Nel 2019, il consiglio comunale, retto dalla stessa maggioranza di oggi, aveva respinto l’impiego del taser nella polizia locale. Un’ennesima svolta autoritaria della maggioranza che sostiene Sala.
Il sindaco, del resto, tra gli strepiti di gioia dei leghisti e dei fascisti, ha dettato una dichiarazione molto imbarazzata in cui ha affermato che la disciplina della maggioranza la richiede solo su alcune delibere, lasciando altre all’orientamento politico personale e che in ogni caso non è contrario per principio al taser, ma che ci vuole prudenza. Cerchio e botte, come si dice.
È ben noto che il taser è tutt’altro che innocuo perché le sue forti scariche possono provocare danni rilevanti per chi le subisce, in alcuni casi sino alla morte. Il suo impiego per un corpo come la polizia locale è del tutto ingiustificato e frutto solo delle smanie securitarie della destra, tra l’altro in una città dove, secondo i dati ufficiali della Questura, la criminalità è in costante diminuzione.
Vigileremo per controllare se e come la giunta Sala darà seguito a questa delibera consiliare che, temiamo, potrà legittimare l’uso di un’arma così pericolosa e più volte anche denunciata come strumento di tortura in molte situazioni d’intervento della Polizia locale, quali occupazioni di appartamenti, sfratti, allontanamenti di senza tetto, verifiche su “clandestini”, infrazioni stradali, schiamazzi. Insomma, situazioni di disagio sociale o di marginalità che richiederebbero tutt’altro tipo d’intervento, sociale e non repressivo.
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