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08/04/2022

Ucraina, il tempo delle “false flag”

Gli elementi emersi in questi giorni sulla presunta strage di civili nella città di Bucha fanno pensare in maniera sempre più convincente a una messa in scena delle forze di sicurezza ucraine. Per la stampa ufficiale in Occidente, invece, le immagini provenienti dalla località a nord di Kiev continuano in larga misura a essere usate come una prova inconfutabile della criminalità dei militari russi e del presidente Putin. Dietro a questo comportamento non c’è solo superficialità o servilismo, entrambi peraltro tratti comuni a quasi tutti i media “mainstream”, ma anche e soprattutto un’agenda ben precisa che collega la propaganda occidentale e ucraina all’evolversi delle vicende militari sul campo nel paese dell’ex Unione Sovietica.

Gli aspetti più importanti sono già stati ampiamente discussi, almeno sui media indipendenti, dalla cronologia degli eventi seguiti all’evacuazione dei soldati russi da Bucha ai sospetti sull’autenticità dei cadaveri filmati ai bordi delle strade della città ucraina, dalla minaccia delle forze ucraine di sterminare sabotatori e collaborazionisti alle improbabili immagini satellitari pubblicate dal New York Times. Estremamente indicativi della malafede occidentale sono anche altri due fattori. Il primo è l’attivazione quasi in tempo reale in Occidente delle denunce contro la Russia per i nuovi crimini di guerra presumibilmente commessi. L’altro è la decisione della Gran Bretagna, presidente di turno del Consiglio di Sicurezza ONU, di respingere la richiesta russa di convocare una sessione d’urgenza dell’organo delle Nazioni Unite. L’intenzione di Londra era quella di impedire la presentazione di prove a discarico di Mosca, lasciando che la polemica e l’indignazione facessero presa in tutto il mondo.

La definizione più consona per i fatti di Bucha sembra essere dunque quella di “false flag” e che si stesse per verificare un episodio di questo genere, ovvero costruito a tavolino dalla parte perdente, era noto da tempo. Non è un caso perciò che la provocazione ucraina sia arrivata nel momento probabilmente cruciale di questa prima fase del conflitto. Un post riassuntivo delle operazioni belliche pubblicato martedì dal blog The Saker spiega come “il comando ucraino e l’intelligence occidentale, da cui esso dipende, siano sull’orlo della disperazione”.

Il nodo della questione è la caduta ormai quasi completa della città di Mariupol, dove la resistenza ucraina era stata affidata agli uomini del sanguinario battaglione neonazista Azov, assistiti probabilmente da ufficiali e mercenari occidentali. Il completamento delle operazioni russe a Mariupol farebbe scattare “una lunga serie di eventi”, provocando “un effetto domino che determinerebbe il collasso delle forze armate ucraine”. Davanti alla capitolazione imminente di questa città, i vertici politici e militari ucraini avevano bisogno di “un evento che potesse in qualche modo fermare l’avanzata delle forze russe” e l’impulso che per loro deriverebbe dalla caduta di Mariupol.

In un’analisi di una lucidità di cui non c’è la minima traccia sui media ufficiali, The Saker scrive che, una volta chiusa la pratica Mariupol, “le forze russe, cecene e delle due repubbliche ucraine filorusse qui impegnate potrebbero essere subito dirottate verso le operazioni della Fase 2”. A questi contingenti si devono aggiungere quelli diventati disponibili dopo il ritiro tattico dai teatri di guerra di Kiev, Sumy e Chirnihiv. L’obiettivo è quello di liberare definitivamente dalle forze ucraine l’intera regione del Donbass. Qui, le condizioni della battaglia si prospettano ancora più favorevoli alla Russia e si comprende quindi la necessità del regime di Kiev e dei suoi padroni in Occidente di trovare un qualche “diversivo”.

Ancora The Saker: “Libere dalle restrizioni della guerra in grandi aree urbane, dove sono svantaggiate, le forze russe si troveranno davanti alle ampie pianure delle regioni del Donbass e di Dnipro”. In questo nuovo scenario, “non solo è più semplice l’evacuazione dei civili”, ma possono essere impiegate anche le armi più potenti e distruttive in dotazione di Mosca, laddove non erano state utilizzate nelle città per evitare stragi di massa e distruzione di edifici civili. Gli ucraini “non hanno nessuna possibilità di fermare questa escalation”, in primo luogo per via dello stato delle proprie forze armate dopo oltre quaranta giorni di guerra.

Nonostante le inevitabili perdite, la Russia sembra avere sostanzialmente raggiunto gli obiettivi finora stabiliti. Secondo alcune stime, al contrario, quasi l’80% delle forze aeree offensive e difensive ucraine è stato distrutto, così come molte riserve di carburante, mentre Kiev ha di fatto perso l’accesso al Mare di Azov, alle riserve di carbone, alle acciaierie e alle risorse agrarie delle regioni orientali. Accerchiamento, assenza di vie di fuga e impossibilità di garantire i rifornimenti sono la realtà con cui le forze ucraine devono fare i conti mentre si accingono a fronteggiare la seconda fase dell’offensiva russa.

Gli ucraini hanno inoltre un aiuto limitato da USA ed Europa, i quali stanno in effetti inviando una valanga di armi ed equipaggiamenti militari, ma raramente di livello tale da permettere di invertire le sorti del conflitto, evidentemente per non correre il rischio di provocare uno scontro diretto con la Russia. Il ricorso a una “false flag” era quindi quasi scontato, anche in considerazione dei precedenti degli anni scorsi, come quello siriano. Come in Siria, le stesse prove delle responsabilità di queste azioni delle forze sostenute dalle “democrazie” occidentali non sono mai servite a far cambiare il punto di vista dei media ufficiali, né tantomeno a far rientrare le accuse rivolte frettolosamente al regime di turno da combattere, a conferma che ciò di cui si è in presenza sono operazioni da “guerra psicologica” (“Psy-ops”).

Un’altra prova è il disinteresse totale per i molteplici episodi ben documentati delle brutalità commesse contro i civili dalle forze ucraine, così come i bombardamenti indiscriminati contro edifici civili nelle località del Donbass, le torture sui prigionieri di guerra in violazione della Convenzione di Ginevra, l’utilizzo dei civili come scudi umani e l’influenza degli elementi neo-nazisti nell’apparato militare e della sicurezza di Kiev.

A questo proposito, osserva sempre il blog The Saker, la realtà sul campo ha spinto il regime ucraino, con l’assistenza di governi e media occidentali, a passare “dalla guerra vera e propria alla guerra psicologica”, ovvero alla propaganda pura e semplice come unica arma, o quasi, per combattere la Russia. La speranza è quella di provocare una tale repulsione nell’opinione pubblica occidentale da consentire ai governi di intensificare la fornitura di armamenti a Kiev, se non addirittura di entrare direttamente nel conflitto. Dall’inizio delle operazioni il 24 febbraio scorso non si è registrata d’altra parte “una sola vittoria da parte dell’Ucraina contro le truppe russe”. Le forze di Kiev “sono in ritirata e stanno perdendo uomini praticamente ovunque”, mentre gli unici eventi a loro favorevoli sono rappresentati dal ritiro dei russi da alcune città, anche se, come spiegato in precedenza, si tratta in questo caso di mosse di natura tattica.

Più la situazione diventa disperata per l’Ucraina più aumenta il rischio di provocazioni. La ferocia della battaglia che si preannuncia nel “calderone” del Donbass implica così la possibilità concreta di nuove “false flag” e il timore più grande resta quello dell’uso di armi chimiche, come ha avvertito ancora nella giornata di mercoledì la Russia. Anche in questo caso, le agenzie di intelligence occidentali hanno accumulato una vasta esperienza in Siria, dove hanno collaborato con i jihadisti nell’orchestrare attacchi contro i civili per poi attribuirne la colpa alle forze di Damasco.

In una guerra di questo genere, le prove che emergono, anche se indiscutibili, non hanno alcun valore agli occhi dei media e dei governi occidentali. In un ribaltamento sistematico della realtà, ogni elemento a discolpa del proprio nemico viene ignorato o, tutt’al più, liquidato come propaganda. Questa sorte stanno infatti incontrando gli argomenti e la documentazione presentata dal governo russo per fare chiarezza sui fatti di Bucha.

Come minimo, la gravità degli eventi che sarebbero successi in questa località e gli elementi contraddittori oramai di dominio pubblico dovrebbero suggerire moderazione, analisi razionale dei fatti e impegno per promuovere un’indagine indipendente. Nella realtà dei fatti, invece, ciò che sta accadendo, secondo un copione attentamente predisposto, è da un lato la denuncia al limite della censura di chiunque si azzardi a mettere in discussione la versione dei neo-nazisti ucraini e dall’altro l’accelerazione delle iniziative anti-russe.

Direttamente collegata alle vicende di Bucha è infatti la nuova mossa suicida dell’Europa che, letteralmente poche ore dopo la circolazione delle immagini della “strage” di civili ucraini, ha annunciato un altro pacchetto di sanzioni contro la Russia. In parallelo, alcuni governi, tra cui quello italiano, hanno espulso decine di diplomatici russi con accuse ridicole e non dimostrate di spionaggio o di attività dannose per la sicurezza nazionale. Le misure sanzionatorie, che dovranno essere comunque approvate da tutti i paesi membri, includono invece lo stop parziale alle importazioni di carbone, l’esclusione totale dai circuiti finanziari occidentali di alcune banche russe e il divieto per le navi commerciali russe di attraccare nei porti europei, ad eccezione di quelle che trasportano prodotti alimentari ed energetici.

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