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04/06/2023

18 lunghissimi mesi cruciali

di Guido Salerno Aletta

Dopo Ankara, elezioni a Bruxelles, Mosca e Washington

C'è già stata la prima svolta decisiva, in Turchia. Nel ballottaggio di domenica scorsa, il 28 maggio, il Presidente Recep Tayyip Erdogan ha battuto lo sfidante Kemal Kiliçdaroglu, dopo aver conseguito la maggioranza assoluta della Grande Assemblea Nazionale nella tornata elettorale di due settimane fa.

La coalizione che sostiene Erdogan, l'Alleanza del Popolo, ha riportato il 49,5% dei voti e ben 323 deputati eletti su 600 seggi di cui si compone l'Assemblea. La coalizione dello sfidante Kiliçdaroglu, Alleanza Nazionale, ha ricevuto il 35,6% di voti, con 268 eletti.

Rispetto alle elezioni di cinque anni fa, c'è stata una limitata erosione di voti per l'Alleanza del Popolo che aveva avuto 344 deputati ed un consistente incremento dell'Alleanza Nazionale che ne aveva avuti solo 189, ma non tali da far venir meno la maggioranza assoluta a favore della Alleanza del Popolo.

Con la conferma alla Presidenza di Erdogan, la Turchia si mantiene su un'orbita ellittica rispetto all'Occidente: eterodossa in campo economico visto che non aumenta i tassi di interesse nonostante una inflazione elevatissima, ha una strategia fortemente autonoma in politica estera mantenendo stretti rapporti con la Russia pur essendo membro della Nato. Se avesse vinto invece lo sfidante Kiliçdaroglu, il beniamino delle Cancellerie occidentali, la Turchia sarebbe tornata ad essere un partner affidabile e soprattutto malleabile: si pensava già ad un rafforzamento della partnership con l'Unione europea, magari facendola aderire al Trattato di Schengen. Pur non rinunciando del tutto all'area di influenza che è costruita in questi anni, avrebbe cercato di "fare da ponte" tra Est ed Ovest.

Ma ormai il dado è tratto, e la Turchia continuerà nella sua strategia neo-Ottomana di Erdogan, dando un bel po' di filo da torcere agli Stati Uniti e alla Nato.

In prospettiva, a marzo dell'anno prossimo, ci sono le elezioni a Mosca. Se ne parla ancora assai poco: la rielezione di Vladimir Putin è lo snodo attorno a cui si gioca tutto. C'è di mezzo non solo la guerra in Ucraina, ma l'ambizione della Russia di tornare ad essere una grande potenza politica e non solo una fonte di risorse energetiche e di minerali a buon prezzo.

L'Occidente mira a ricondurre Mosca alla "mansuetudine", mettendola con le spalle al muro medint le sanzioni: una sfida pesante soprattutto per l'Europa, che ha beneficiato per decenni del gas russo, una risorsa abbondante ed economica. I primi a farne le spese sono stati i tedeschi, che con il raddoppio del North Stream avevano cercato di togliere alla Ucraina l'unico vantaggio strategico di cui poteva disporre, rappresentato dal gasdotto proveniente dalla Russia che la attraversava.

Nessuno sa esattamente che cosa succederà alle elezioni in Russia, perché c'è un gioco coperto di una nuova generazione di tecnocrati che stanno facendo esperienza politica in tutta la periferia dell'impero, lontani dal groviglio di potere che da sempre circonda il Cremlino. D'altra parte, sono le stesse sanzioni ad essere salutari per l'economia e l'industria russa: la riduzione della rendita mineraria impone scelte produttive interne, lo sviluppo della tecnologia.

Si supererebbe finalmente l'errore strategico che risale addirittura ai tempi di Krusciov, che decise di usare la leva del petrolio e del gas venduti in Occidente ai prezzi di mercato per ottenere le risorse che servivano all'URSS per tenere legati a sé i Paesi del Comecon: in questo modo si è distorto tutto l'asse dello sviluppo della Russia, che in precedenza era divenuta un campione di capacità tecnologica autonoma, come fu dimostrato dallo sviluppo dell'armamento nucleare e delle iniziative in campo spaziale. Da Krusciov in poi, la Russia cominciò a vendere petrolio e gas anche ai Paesi del Comecon in cambio dei loro manufatti industriali di bassa qualità: una politica basata sulla rendita mineraria, che l'ha resa sempre più tributaria delle importazioni e sempre meno dinamica.

L'Europa sarà messa alla prova della resistenza in campo energetico: nel prossimo inverno non potrà più contare sugli stoccaggi di gas russo che sono stati riempiti durante la scorsa estate. Nonostante la riduzione dei prezzi del gas sul mercato internazionale, c'è una debolezza economica generale che viene sostenuta solo dalle spese pubbliche finanziate in disavanzo: se la transizione energetica rappresenta l'unico traino disponibile per avviare processi di investimento, i suoi costi si stanno rivelando sempre più elevati e la convenienza sempre più scarsa. Per questo aumentano continuamente le norme europee che impongono cambiamenti dei consumi e degli stili di vita, strumentali a sostenere la domanda di prodotti innovativi come l'auto elettrica.

Una montagna di debiti pubblici sta servendo questo processo di innovazione tecnologica e di investimenti, senza che la domanda dei privati cresca a sufficienza per renderli sostenibili.

A Bruxelles i giochi sono tutti da rifare: la risicatissima maggioranza che portò alla nomina della Presidente della Commissione Von der Leyen non c'è più, per via della dissoluzione della pattuglia italiana eletta dal Movimento 5 Stelle. Anche la componente francese che la sostenne fortemente, guidata dal Presidente Emmanuel Macron, è in crisi per il contemporaneo rafforzarsi della sinistra dei Nupes e della destra del RN.

I movimenti no-Vax e no-War delineano la nuova frontiera del dissenso: sistematico, pervasivo e poco controllabile, che dubita fortemente della stessa fondatezza dell'emergenza climatica. Una minoranza attiva, motivata, che si muove al di fuori dei canali ufficiali, che clona la strategia psicologica ed organizzativa della guerra rivoluzionaria, in cui ogni soldato è un generale: insieme è combattente sul campo e stratega.

Si andrà a delineare una divaricazione profonda, su base geopolitica ed economica: da una parte il Nord Europa che fronteggia la Russia e dall'altra parte il Sud che si trova ingabbiato nell'euro forte. Non c'è in gioco solo l'impalcatura del NGUE, sostenuta dalle lobby che vogliono arricchirsi con tutti questi programmi di spesa europea e nazionale, ma la stessa tenuta di un quadro troppo frammentato: la guerra in Ucraina potrebbe non essere più un collante sufficiente per tenere unita l'Europa, trasformandosi piuttosto nell'innesco di una sua deflagrazione.

Per questo va evitata ad ogni costo la recessione economica in Europa: manderebbe all'aria un consenso che è basato solo sulla rassegnazione.

Non va meglio negli Usa: tutto è tenuto in piedi da un debito crescente, sia quello pubblico interno che quello commerciale verso l'estero, nella speranza che gli equilibri geopolitici consolidino la strategia di isolamento della Russia e della Cina. L'accordo sull'elevazione del tetto al debito federale, che è stata appena annunciata, sembra un accomodamento provvisorio che non scontenta nessuno, rinviando a dopo le elezioni del 2024 ogni revisione strategica sul bilancio.

Nessuno dimentica la strategia di Trump, che ritirò la firma dal Trattato di Parigi sul clima: il paradosso sta nel sostegno politico che in America ora viene dato contemporaneamente sia alle fonti energetiche fossili che a quelle rinnovabili. L'America è diventata infatti esportatrice netta di gas liquefatto e di prodotti petroliferi e contemporaneamente punta di diamante della strategia ambientalistica che punta a cambiare radicalmente i processi di sviluppo ed i modelli di consumo.

Quello dell'auto elettrica è un tema assai lontano dalla sensibilità popolare, e non è su questo che voterà a novembre del 2014 per il Presidente, per il rinnovo dell'intera Camera dei Rappresentanti e di un terzo del Senato: tutti pensano al "qui ed oggi" delle tasse, dell'inflazione, del posto di lavoro e dei sussidi federali. Sullo sfondo rimangono tre questioni: la strategia geopolitica, nell'alternativa tra il mantenimento dell'unilateralismo o la accettazione di un mondo multipolare; la strategia economica, nella alternativa tra una società assistenziale di massa finanziata col debito estero o la reindustrializzazione; la strategia ambientale, nella alternativa tra un modello di radicale cambiamento globale che serve a sostenere la green finance o una lotta che si limiti all'inquinamento ambientale.

Nel frattempo, tutto rimane legato ad un filo sottilissimo: qualsiasi crisi economica, finanziaria e sociale sarebbe irreparabile.

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